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Intervista a Mario Gianani e Lorenzo Mieli

Da The Young Pope a L’amica geniale, i due produttori di Wildside sono dietro a molti successi internazionali della fiction italiana. Ma come si trasforma un concept in un progetto di successo?

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 23 - Autori Seriali del 25 giugno 2018

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Ormai è chiaro: il ruolo di autore in Italia può essere assunto da figure diverse, a seconda dei casi. La vicenda di Wildside racconta bene come il produttore possa essere un abilitatore del dialogo tra le diverse figure coinvolte nella realizzazione di una serie, e quanto questo scambio sia essenziale per spingere i risultati verso traguardi ambiziosi. Con Lorenzo Mieli e Mario Gianani parliamo di questo delicato equilibrio e dell’investimento richiesto per sviluppare un’idea prima di qualsiasi commitment: l’acquisizione dei diritti di libri e film, la creazione di un pacchetto creativo fatto di regista e sceneggiatori, e talvolta del cast. Tutto ciò per trasformare un concept in un progetto tangibile da portare sul mercato nazionale e globale, alla ricerca di partner che ci credano. È la storia di The Young Pope, de L’amica geniale, de Il miracolo e di tanti altri progetti.

Prima domanda di rito, per entrambi: chi è l’autore della fiction in Italia?

MIELI: La risposta scontata è che l’autore della fiction italiana è sempre di più lo sceneggiatore. Veniamo da una stagione diversa, in cui lo sceneggiatore c’era ma non era il creatore della serie, mentre il nuovo periodo che stiamo vivendo, a mio giudizio, non è dovuto tanto a quello che accade o è accaduto negli Stati Uniti, ma nell’aver avvicinato la serialità alla miglior forma e manifestazione del cinema italiano: un lavoro collaborativo tra produttore, regista e sceneggiatori. Nella tradizione del cinema alto, d’autore e non solo, il regista è spesso stato anche sceneggiatore o cosceneggiatore dei film che poi dirigeva: penso ai film di Garrone e Guadagnino, ma anche a Moretti, o a Mainetti, ed è una tradizione non così antica, stiamo parlando degli ultimi vent’anni. Nella serialità alta, complessa, che era piuttosto rara in Italia, il ruolo del produttore è stato determinante, perché siamo stati noi a cercare progetti e a portarli al mondo, a commissionare, a dare idee e spunti, a spingere in una direzione precisa. Credo che di fatto lo showrunner in Italia non esista, ma sono certo che esista invece, ed è la mia esperienza professionale, un rapporto veramente proficuo, interessantissimo, a tre, tra produttore, sceneggiatore e regista, o se vuoi tra produttori, sceneggiatori e registi. Ma resto convinto che la sceneggiatura sia il pezzo più importante, quello che determina l’efficacia, la bellezza e l’originalità di una serie: è il pezzo pregiato, che richiede più tempo e più lavoro collettivo tra tutti i vari soggetti coinvolti.

GIANANI: Anche il broadcaster gioca un ruolo centrale in questo processo dialettico, in questi ultimi anni configurandosi sempre più come commissioning editor. Inoltre, la competizione tra le reti e le piattaforme ha cambiato lo status quo dei rapporti tra i vari soggetti. Non credo che oggi in Italia il broadcaster possa scegliere una visione della serie andando contro la volontà degli autori. C’è un sistema di mediazione molto forte, dove lo sforzo creativo di sintesi è dato dalla mano dello sceneggiatore che deve scrivere quell’ultima pagina. Poi ci sono modelli ancora in fieri, come quello che abbiamo sperimentato con Niccolò Ammaniti, dove la forza e la visione erano tutti nella scrittura, perché l’autore era portatore di un’identità fortissima, e con lui abbiamo fatto un progetto che finora non avevamo tentato, cioè portare lo sceneggiatore a essere di fatto lo showrunner di una serie. Ammaniti ha anche diretto alcuni episodi de Il miracolo. Questo perché da un lato la sua scrittura era molto forte, e dall’altro perché c’è un tipo di autorialità con una visione difficile da modificare: se un regista avesse preso in mano la serie di Niccolò avrebbe faticato molto a dividere con lui l’impianto visivo, a trovare mediazioni.

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Lorenzo Mieli e Mario Gianani

Wildside ha fama di essere una casa di produzione che lascia molta libertà agli autori.

GIANANI: Spesso ci gioviamo di un rapporto dialettico improntato sulla massima fiducia. Bisogna creare le premesse dall’inizio. Alla fine a fare la sintesi creativa sono gli autori, chiunque essi siano. Noi siamo interessati a lavorare a questa sintesi, non vogliamo bloccare il confronto in partenza: le serie sono uno strumento complesso e più sono i contributi che arrivano meglio è. Il lavoro di chi fa questa sintesi è fondamentale. Se non risolvi questo problema, la serie diventa un minestrone indigeribile di tante idee: il casting, le musiche, tantissimi elementi che si spalmano su tante ore, da tenere in considerazione.

Ecco, per evitare il pasticcio, secondo voi, chi è che può dare una garanzia?

GIANANI: Noi abbiamo un direttore editoriale, Claudio Corbucci, che lavora a stretto contatto con gli autori e con noi produttori. È una figura editoriale che in qualche modo fa da garante dell’unità estetica della serie e fa da sponda alle voci di autori, regista e produzione, offrendo un contributo creativo.

Un’altra cornice è la presunta morte del regista nella fiction italiana, perché rispetto al passato riveste un ruolo meno centrale. Poi esistono ovviamente, e nel vostro caso sono evidenti, le eccezioni…

MIELI: Ti interrompo perché credo che sia…

Puoi dire che è una cazzata se vuoi!

MIELI: Allora sì, è una grande cazzata, messa in circolo dagli sceneggiatori che vedono il momento della rivalsa. Il regista, che sia Paolo Sorrentino o meno, è fondamentale. Ho lavorato appunto con Sorrentino, ma anche con Saverio Costanzo, Giuseppe Gagliardi, Claudio Noce, registi molto diversi fra loro. E non c’è una singola serie in cui alla domanda del produttore “questa chi la scrive?” non si accompagni anche la domanda “questa chi la gira?”. Quando abbiamo sbagliato il regista abbiamo sbagliato la serie, quindi non è assolutamente vero che questa figura perde rilevanza. È vero è però che ci deve essere quella triade, che Mario ha corretto in quadrilatero, considerando anche il broadcaster: il regista è uno dei quattro lati fondamentali e ci deve essere un dialogo, una collaborazione molto forte. Non chiami un regista su commissione dopo che hai già una sceneggiatura, questo andrebbe a discapito anche degli sceneggiatori… In Italia ora è rarissimo che una serie sia girata da due o tre registi, molto spesso le serie grandi e nuove sono girate da un regista principale e poi da un secondo, e questo perché il regista è importante, se non addirittura in molti casi fondamentale.

Ci raccontate un po’ il vostro rapporto con Sorrentino per The Young Pope?

MIELI: Paolo veniva dal suo cinema, scritto e diretto, e anche di fatto (con Nicola Giuliano) prodotto da lui, ovviamente non finanziariamente. Quello che ha chiesto fin dall’inizio è di lavorare allo stesso modo anche per la serialità. Questa è stata una grande scuola per noi e per gli altri interlocutori, Sky e Hbo, che pure avevano già esperienze di lavoro con registi affermati. Paolo si è messo ad ascoltare tutti, scegliendo poi gli spunti, le note, gli argomenti più giusti e interessanti con cui ricreare un mondo narrativo a sua immagine e somiglianza. La parola chiave di tutto resta il dialogo, perché si producono una quantità di conversazioni infinite, ma molto interessanti, non sterili, basate sullo scambio di visioni, informazioni, scelte e idee. Paolo è stato al gioco, al suo modo e con il suo stile, ma su questo piano si è messo subito in conversazione con noi, poi con Sky e Hbo. È stato molto bello, tanto che stiamo continuando, su quello e forse anche su altro…

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The Young Pope

Cambiando prospettiva, e parlando di commissioner diversi come Rai Fiction e Sky, mi piacerebbe capire come vi relazionate con loro, quali differenze ci sono.

GIANANI: In realtà c’è grandissima passione da parte di tutti e due. Sono broadcaster appassionati, piacevolmente ossessionati dal loro lavoro, e quindi c’è l’opposto del “me ne frego”, che non è solo ansia di controllo, cosa che riduce il livello di complessità, ma una forte attenzione al prodotto. Con loro si riesce a stare ore su una puntata per invertire l’ordine delle sequenze e per dare più emozioni.

Esiste uno stile, un’estetica, un marchio di fabbrica Wildside che si riscontra nei vostri prodotti?

GIANANI: Sono allergico a queste cose. Un po’ perché ho fatto anche i film di Natale con De Sica, e dire che c’è un marchio sarebbe un po’ forte.

Sto parlando delle serie, però.

GIANANI: Sì, in generale dire che c’è un marchio vuol dire sentirsi molto fighi. L’identità sono gli altri che te la danno. Penso che il nostro specifico sia lavorare il più possibile sui nostri titoli. Gli altri poi ci possono dire se ritrovano un fil rouge. Noi costruiamo prototipi. Il nostro marchio è il metodo, il modo con cui lavoriamo, ma sul risultato non c’è uniformità, a volte viene in un modo e altre in un altro.

La linea verticale è un titolo che ci ha colpito molto. Volevo chiedervi come avete gestito il formato, se non altro poco comune, dei 20 minuti.

MIELI: Guarda, non l’abbiamo deciso a tavolino. Questi progetti nascono da un’idea di quello che volevamo fare, in questo caso condivisa tra Mattia Torre e me. La serie è nata per la voglia di raccontare quello che era successo davvero a Mattia, e da lì abbiamo ragionato sulla forza della sua scrittura e sulle sue propensioni, e lui stesso ha detto che non era un film ma una serie breve, una cosa anomala da 20 minuti. E quindi il formato è nato così, sulla base del contenuto e dell’autore. Sono molto contento ed entusiasta della forma che è venuta fuori. Ho spinto molto Mattia, che originariamente voleva fare uno spettacolo teatrale, e mi ringrazia spesso di averlo convinto invece a scrivere una serie. Devo dirti che in questo caso, come in tanti altri ma in questo è molto evidente, Rai è stata coraggiosissima, e l’ha sposato fin dall’inizio, scegliendo anche la prima serata. Spesso può accadere che riesci a realizzare una cosa, ma poi per la sua natura un po’ bislacca è buttata in palinsesto in orari e giorni strani. Invece Rai ci ha creduto dal primo momento in maniera molto dritta, nonostante fosse di difficile collocazione, ha creato uno spazio ad hoc, ben studiato, e per fortuna è andata bene anche dal punto di vista dei numeri. Ma anche se non fosse andata bene sarebbe stato lo stesso un lavoro creativo molto importante.

Credo che di fatto lo showrunner in Italia non esista, ma sono certo che esista invece, ed è la mia esperienza professionale, un rapporto veramente proficuo, interessantissimo, a tre, tra produttore, sceneggiatore e regista, o se vuoi tra produttori, sceneggiatori e registi.

State facendo molte coproduzioni internazionali di successo, e vorrei chiedervi come si costruisce una coproduzione vincente.

MIELI: Sono esperienze tutte molto diverse. Credo che tutto stia nello sviluppo: il successo della collaborazione tra tanti player diversi sta nell’investimento iniziale nell’idea da parte del produttore. Penso a Sorrentino, a L’amica geniale, non solo con i libri ma con uno sviluppo fatto e finanziato da noi, a nostro rischio e pericolo, a un livello molto avanzato: sceneggiature scritte, squadre fatte, cast artistico già definito e, nel caso di Sorrentino, contrattualizzato. Credo che, affinché quel dialogo di cui dicevo si realizzi, il ruolo del produttore è davvero essenziale. Deve essere il primo a credere nell’idea, a investirci. È difficile pensare: voglio fare una serie e allora vado in giro da quattro reti a dire che voglio fare una serie sul tal tema con questo sceneggiatore, con tre paginette scritte che devono andare bene per tutti quanti. Noi rischiamo tanto sullo sviluppo, investiamo tantissimo e arriviamo dagli interlocutori con un progetto già definito, ovviamente suscettibile di cambiamenti, ma molto chiaro in ciò che deve essere, come dev’essere girato, da chi sarà interpretato. Questo è il modo più semplice per farsi dire subito sì o no, e a quali condizioni. Le sceneggiature della Ferrante, tutto il lavoro fatto da Saverio Costanzo sia come sceneggiatore sia come regista sono indizi concreti, chiarificatori per i network, del lavoro che poi sarebbe venuto. Per Elena Ferrante c’erano dei libri già scritti, ma per The Young Pope non c’era nulla, per Bellocchio c’è un film, ma il discorso è lo stesso. Arriviamo con progetti definiti e li proponiamo agli interlocutori giusti. Certo, ci vuole molto tempo per fare tutto questo: abbiamo serie che approderanno tra poco sul mercato a cui abbiamo cominciato a lavorare ormai quattro anni fa… 


Fabio Guarnaccia

Direttore di Link. Idee per la televisione, Strategic Marketing Manager di RTI e condirettore della collana "SuperTele", pubblicata da minimum fax. Ha pubblicato racconti su riviste, oltre a diversi saggi su tv, cinema e fumetto. Ha scritto tre romanzi, Più leggero dell’aria (2010), Una specie di paradiso (2015) e Mentre tutto cambia (2021). Fa parte del comitato scientifico del corso Creare storie di Anica Academy.

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