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Un nuovo blockbuster è possibile?

L’industria cinematografica statunitense sembra impegnata solo alla ricerca del prossimo enorme successo, non più eccezione ma regola. Sotto la superficie, però, qualcosa si muove eccome.

C’era una volta il blockbuster. E c’è ancora, sia ben chiaro, più o meno come sempre: costruito per piacere a più spettatori possibili, riassumibile senza difficoltà nello spazio di una tagline o di uno slogan, organizzato attorno a una narrazione semplice e diretta, con acmi emotivi e spettacolari periodici e prevedibili, accompagnato dalla forza sfacciata dei divismi del caso, della distribuzione a tappeto, della promozione endemica. Solo che una volta era l’eccezione, mentre oggi è la regola. Una regola ripetuta ad libitum, ben oltre le possibilità di assorbimento del mercato, oltretutto in uno scenario che vede un’inesorabile (e ormai quasi compiuta) scomparsa di quella produzione media (e di genere) un tempo rigogliosa, e oggi invece, in buona parte, sostituita dall’offerta destinata agli Ott, Netflix in testa.

Tra franchise e serie in declino o in naturale esaurimento, reboot troppo spericolati e poco coerenti, se non poco funzionanti, o a rischio di ridicolo involontario, questo segmento (dominante) di mercato rischia spesso di non andare a colpire il bersaglio prefissato (anche in termini di incassi).

Anzi, l’aumento esponenziale del numero di blockbuster distribuiti nel corso dell’anno, non più apici dell’industria singolari e isolati, sta naturalmente spingendo questo formato narrativo e (soprattutto) produttivo in due direzioni parallele e complementari, endogene ma con ricadute all’esterno, in un mercato sempre più imprevedibile e complicato, entro cui non è più garanzia di successo sicuro. Infatti, tra franchise e serie ormai in declino o in naturale esaurimento, aggiornamenti/reboot troppo spericolati e poco coerenti, se non obiettivamente poco funzionanti e riusciti, o a rischio di ridicolo involontario, questo segmento (dominante) di mercato rischia spesso di non andare a colpire il bersaglio prefissato (anche in termini di incassi). In un’epoca più semplice per il mercato cinematografico (interno degli Stati Uniti e internazionale), esisteva un cinema medio di genere ampio e variegato, anche in termini di produzione costante e continua, gradita al pubblico in sala (e, poi, nell’home video) e i blockbuster erano apici dell’industria singolari e isolati, non frequenti come oggi.

Intanto, nelle produzioni maggiori, si sta assistendo a un’evoluzione da un blockbuster genericamente mainstream senza distinzioni a un blockbuster costruito come una somma di ingredienti che soddisfano più nicchie possibili, dove ogni target trova o può trovare qualcosa di interessante per sé: è il caso dei cinecomics Marvel maggiori, come Infinity War, ma anche dei cartoon Pixar a velocità e significati multipli, dei nuovi capitoli di franchise come Jurassic World e Animali fantastici, delle versioni live dei classici dell’animazione di ieri e dell’altro ieri. Come a dire: non più qualcosina (spesso ina-ina) per tutti, sperando di azzeccarci, ma qualcosa di definito e riconoscibile sul quale anche i target secondari e non immediatamente individuati come destinatari possano trovarsi a proprio agio e sentirsi a casa. 

Si sta assistendo a un’evoluzione da un blockbuster genericamente mainstream senza distinzioni a un blockbuster costruito come una somma di ingredienti che soddisfano più nicchie possibili, dove ogni target trova o può trovare qualcosa di interessante per sé.

Ancora, in Captain Marvel, quel gattone sornione (e taaanto carino!) che si rivela un alieno famelico non è lì solo per pagare pegno a un ingrediente delle mille versioni a fumetti del personaggio, ma ha un suo valore prezioso nel risultare gradito al pubblico più infantile che va in brodo di giuggiole per i gag felini. Un po’ come, sempre restando nella grande famiglia Marvel, il Groo regredito a uno stadio neonatale, e ora cresciuto a quello adolescenziale, de I guardiani della galassia si offre quale piacevole rispecchiamento per i giovanissimi spettatori che stanno crescendo lungo il sotto-franchise (oltreché generare una line-up di gadget e ninnoli tanto carini). Anzi, per questa via, bastano anche pochi segnali, quasi subliminali: in Avengers Endgame scoprire che Thor, nel suo eremo nordico asgardiano, passa le giornate a giocare a Fortnite suscita vere e proprie ola in sala presso il target di riferimento…

Accanto, e contemporaneamente, soprattutto all’interno di franchise/saghe/line-up complesse e articolate, si verifica una naturale sotto-segmentazione dei titoli, costruiti in modo da darsi (anche) quasi come sotto-generi ulteriori, oltre l’identità tout court del blockbuster, di per sé insufficiente a generare una reason why di visione assoluta. Se sono ormai tutti blockbuster, cosa può aiutare a distinguerli? Proprio una ri-articolazione di genere, quella stessa cancellata dal venire meno delle fasce di prodotto medio, che si dispone in parte a colmare una lacuna nell’offerta di cinema in sala dove i generi tradizionali non ci sono quasi più (con l’eccezione, forse, dell’horror: quindi thriller, polizieschi, sci-fi).

Di nuovo, il Marvel Cinematic Universe è particolarmente illuminante, forte di una sequenza pressoché ininterrotta di titoli dal 2008 a oggi, inaugurata con Iron Man dai Marvel Studios (non ancora Disney) e che rinnova al ritmo di 2/3 film l’anno un arazzo narrativo articolato e vario. Che ha l’ambizione di riscrivere le regole d’ingaggio e di funzionamento del classico blockbuster (post)hollywoodiano. Valorizzando un’intuizione già presente proprio nei comic-book di partenza, negli ultimi decenni in evasione parziale dalla coltre un po’ soffocante del fumetto supereroistico verso declinazioni e variazioni più sottili, i Marvel Studios rimodulano i singoli film in altre direzioni più o meno evidenti: così, per fare qualche esempio, in Ant-Man si ripropone la commedia per ragazzini un po’ sciocchina tipica di certi Disney live action anni Sessanta (tra maggiolini tutti matti e computer con le scarpe da tennis), mentre Spider-Man Homecoming funziona (benissimo) anche come teen movie (anni Ottanta) alla John Hughes (e Una pazza giornata di vacanza è citato letteralmente). Ancora, I guardiani della galassia (e pure Thor Ragnarok) ritornano alla space opera umoristica e pop, Captain America Winter Soldier svicola verso la spy story (a la Tre giorni del condor, pure con Redford tra i protagonisti), Black Panther paga pegno, astutamente, alla causa black e flirta con la blaxploitation. Il caso di Captain Marvel è a oggi, forse, il più chiaro ed evidente. La space-opera pop su cui si apre (in parte ispirata a un successo di famiglia, quello dei Guardiani della Galassia, che ha già influenzato il sotto-ciclo con protagonista Thor), a un quarto del film si imbastardisce in un action poliziesco di coppia (uomo-donna, nero-bianco) che a più d’uno avrà di sicuro fatto tornare alla mente certi titoli anni Ottanta e Novanta, da Arma Letale in giù (già suggerito sullo sfondo di Iron Man 3, non a caso opera di Shane Black che di Lethal Weapon era il creatore).

Queste strategie di diversificazione e di ri-articolazione identitaria del film non rispondono solo a una politica di presidio di target ulteriori, ma si prestano anche a ridefinire, entro la categoria ormai satura del blockbuster, aspettative e previsioni di incassi differenti, in certi casi naturalmente (e prevedibilmente, senza drammi) più contenute. E, alla fine, a re-introdurre una qualche forma di differenza entro una galassia nebulosa e altrimenti indistinguibile.



Rocco Moccagatta

Critico e studioso di cinema, televisione e new media, analista dei media e insegna Storia del cinema delle origini e classico e Modelli e scenari televisivi e crossmediali nazionali e internazionali presso l’Università IULM di Milano. Da sempre si occupa di generi popolari e di cinema italiano del passato e contemporaneo. Scrive o ha scritto su FilmTv, L’Officiel Homme, Duel/Duellanti, Segnocinema, Comunicazione politica8 ½ , Marla, Nocturno Cinema. Ha appena pubblicato un libro sul cinema dei fratelli Vanzina. È stato ribattezzato “Giancarlo Cianfrusaglie” da Maccio Capatonda e ne va orgoglioso.

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