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Cicli di indignazione, linciaggi e pubbliche umiliazioni sono diventati parte integrante del linguaggio dei social media. Stiamo esagerando? Ne potremmo fare a meno?

Il 2018 è stato caratterizzato da un gran numero di polemiche sui social media, di vario grado e intensità, su argomenti che hanno polarizzato l’opinione pubblica e hanno travolto brand e celebrity. Da Nadia Toffa a Roberto Burioni, passando per Cracco e i Ferragnez, Dolce & Gabbana, Acqua Uliveto e H&M, solo per citarne alcuni. Di solito tutto nasce da un epic fail che nell’immediato è considerato un fatto gravissimo da espiare quanto prima. Il flame diventa shitstorm e così come si scatena in maniera furiosa e repentina, allo stesso modo tutto si dimentica dopo qualche settimana. Siamo nel pieno dell’era dell’over reaction e del rinato interesse per le umiliazioni pubbliche, un fenomeno che cresce in maniera inquietante, sembra inarrestabile e lascia sconcertati per l’intensità con cui si verifica. Cosa lo causa esattamente? È possibile prevenire queste crisi? E in questo modo si danneggia davvero la reputazione di chi è sottoposto alla gogna o tutto è soltanto funzionale alle strategie social?

Senza motivo

Più crisi cicliche si osservano, più è chiaro che non si può parlare di vere cause scatenanti. Si tratta piuttosto di fraintendimenti che fanno da trigger: un messaggio minimo non capito, un equivoco al limite dell’assurdo, frasi decontestualizzate ritenute offensive, gesti considerati provocazioni di cattivo gusto. Non conta la saldezza al punto d’appoggio sui fatti: se i social ritengono che ci sia da offendersi, nessuna spiegazione razionale fermerà la shitstorm. È come se l’universo social fosse una pentola a pressione che ogni tanto ha bisogno di sfiatare, ma è quasi impossibile stabilire il momento in cui sfogherà la pressione e per quale motivo. Anche perché ogni giorno ci passa davanti un’enorme mole di contenuti con possibili trigger, eppure non succede niente. Chi lavora nel settore dovrebbe però fare attenzione ai temi caldi su cui l’opinione pubblica si polarizza e che potrebbero portare a quell’aumento di pressione in cerca di una via di fuga: nel 2018 per esempio si è parlato molto di razzismo, nel 2017 l’hot topic era l’empowerment femminile, nel 2016 si parlava soprattutto di diritti Lgbt. Apparentemente tutti ottimi motivi d’indignazione, se dietro ci fosse un fatto vero per cui indignarsi. Si tratta di cause giuste ma se sono i pretesti a non essere corretti alla fine la sensazione è che tutto sia ridotto a uno sfogo di rabbia, che non porta nessun beneficio alla causa.

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Per chiarire meglio il meccanismo si può prendere a esempio il caso dell’Acqua Uliveto. La shitstorm si è scatenata perché il brand nonché sponsor ufficiale aveva pubblicato sui propri account social un post che celebrava la Nazionale Italiana femminile di volley ai Mondiali. Solo che nel visual del post la bottiglia d’acqua copriva Paola Egonu, giocatrice italo-nigeriana, bravissima e decisiva nella competizione. Qualcuno aveva concluso che il brand voleva far passare con quel post un messaggio razzista. L’assurdità dell’accusa era stata presto smontata prendendo in considerazione altre foto pubblicate dal marchio in cui la giocatrice compariva, ma le polemiche non si erano comunque fermate. C’è chi è rimasto fermo alle accuse di razzismo mentre altri hanno preso un altro percorso, accusando il brand di avere svolto un lavoro poco accurato, e criticando quindi la forma. Si capisce bene che tra la prima e la seconda accusa c’è una bella differenza: il razzismo è un fatto gravissimo, non può essere comparato a un vizio formale, a un mero giudizio estetico. Ma si nota l’evidente sproporzione tra la violenza della gogna e l’argomento per cui ci si indigna. Ancora oggi, Acqua Uliveto riferisce di ricevere “messaggi negativi e provocatori con riferimento alla vicenda” da loro considerata “un travisamento della realtà e delle intenzioni dell’azienda stessa”. Ma tutto questo serve davvero a contrastare il razzismo? Ha contribuito a rendere popolare Paola Egonu e il volley femminile italiano? L’azienda ne ha risentito dal punto di vista economico?

È come se l’universo social fosse una pentola a pressione che ogni tanto ha bisogno di sfiatare, ma è impossibile stabilire il momento in cui sfogherà la pressione e per quale motivo. Anche perché ogni giorno ci passa davanti un’enorme mole di contenuti con possibili trigger, eppure non succede niente.

Finti drammi

La sensazione è che i social media siano “un palcoscenico per finti drammi”, per dirla come Jon Ronson ne I giustizieri della rete, dove “ogni giorno qualcuno veste i panni dell’eroe o al contrario del mostro raccapricciante”. C’è un bisogno spasmodico di trovare un cattivo in queste storie, forse per togliersi il dubbio latente di esserlo tutti. Ma non è solo voglia di sfogare la rabbia o di combattere un’ingiustizia. C’è un altro motivo per cui molti partecipano alle gogne pubbliche: perché è divertente. Sì, l’indignazione per divertimento, come se fosse una rubrica fissa, un programma che va in onda periodicamente, un evento collettivo imperdibile. È evidentemente galvanizzante partecipare a una gogna pubblica. È una scossa d’elettricità che fa accorrere gli utenti dove si svolge l’agone. Non doveva essere molto diverso in tempi che sembravano passati, quando gli abitanti di una cittadina correvano in piazza per assistere all’impiccagione pubblica. A questi utenti non interessa l’intento moralizzatore, fare giustizia o combattere per cause importanti: lo fanno “per il lol”, per creare nuovi meme, al massimo per rafforzare il loro ruolo e l’appartenenza a questa o quella community.

Spesso si tratta solo di tifoserie che si scontrano, aizzate da account che hanno raggiunto la popolarità fomentando gli hater e indirizzandoli verso un nemico. Come fa Diet Prada, un account Instagram nato per segnalare copie e plagi di stilisti famosi, con l’intento di desacralizzare dal basso le élite della moda. Diet Prada ha rilanciato la protesta degli utenti cinesi contro una serie di spot di Dolce & Gabbana pubblicati sui social, considerati sessisti e razzisti, pubblicando poi i messaggi privati di Stefano Gabbana offensivi nei confronti del popolo e della cultura cinese. Durante l’ondata d’indignazione, ha fatto da hub condividendo sul canale post e stories con l’hashtag #BoycottDolce. A mesi di distanza dall’evento, i messaggi di indignazione su IG sono quasi spariti (ancora ce ne sono, ma in numero non rilevante) mentre l’effetto più evidente è stato l’aumento dei follower di Diet Prada, che grazie all’affaire D&G ha raggiunto il milione (a maggio 2018 ne aveva solo 480mila). Bisogna sottolineare che anche l’account Dolce & Gabbana ha visto un significativo aumento della fanbase, passando dai 15 milioni di follower a inizio novembre 2018 ai quasi 20 milioni di gennaio 2019.

Come ha detto The Fat Jewish, uno degli influencer americani più importanti, nel documentario The American Meme (Netflix): “Ogni giorno la folla inferocita vuole qualcosa di nuovo. Più sei estremo, più diventi grande, più attiri l’attenzione. È la regola del WTF”. Insomma, se si offendono, meglio. Perché è così che si raggiunge il maggior numero di persone.

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Sotto a chi tocca

Viste da questa prospettiva sembrerebbe che le gogne pubbliche siano funzionali alle strategie social. La risposta è che dipende da quali sono i soggetti nel mirino, da distinguere in tre macro-categorie: i brand e i loro rappresentanti (rientrano qui anche i politici, ma per questo servirebbe fare un discorso a parte), le celebrity (attori, rockstar, influencer, ma anche professionisti della comunicazione e della cultura quali giornalisti, scrittori, editori) e infine i semplici utenti. Per farla breve: se si parte da una posizione elitaria, di solito si perde molto poco. Eventualmente ci si rafforza. Nessun brand finora è mai davvero fallito a causa di una shitstorm e anzi c’è chi ne è uscito rafforzato, come Barilla dopo la polemica del 2015 con la comunità gay italiana. L’azienda ha reagito nell’immediato postando un video di scuse di Guido Barilla e successivamente avviando progetti di inclusione di vario tipo all’interno dell’azienda, prodigandosi in iniziative che hanno vinto premi e sono state apprezzate dai consumatori. Di fatto, l’epic fail iniziale si è trasformato in un caso di comunicazione d’avanguardia. Da citare è anche il caso del Buondì Motta e dello “spot dell’asteroide”, che inizialmente aveva ricevuto critiche dai social, ma ha ribaltato il risultato facendo diventare la vicenda un format molto apprezzato che va avanti tuttora.

Ma i brand sono entità astratte: le cose si complicano se si inizia a parlare di individui. Nel caso di celebrity e influencer, riprendendo le parole di Fat Jewish, c’è chi costruisce la sua popolarità proprio attirando l’attenzione con continue provocazioni. Altri invece ne sono travolti loro malgrado, colpevoli di essere inciampati nei trigger di cui sopra. Così è successo a Nadia Toffa, rea di aver definito il cancro “un dono per rinascere”. E a Kasia Smutniak che aveva detto che “in Italia non c’è razzismo”. Per non parlare di Fedez, uno che le provocazioni le insegue da sempre, ma i social si sono indignati per il calcio a una lattuga durante una festa al Carrefour, gesto considerato di cattivo gusto (ma Fedez quando mai si è voluto far portavoce del buon gusto?). Nel 2018 ci sono stati decine di casi del genere, che hanno coinvolto Carlo Cracco, Ivan Zaytsev, Stefano Accorsi: è inutile elencarli tutti, non se li ricorda quasi nessuno. I social network vivono in un perenne presente e gli utenti conservano solo una vaga memoria delle persone contro cui si sono scagliate e delle cose terribili che hanno detto o fatto per meritarsi una pubblica umiliazione. In ogni caso, le gogne portano sicuramente ulteriore popolarità. Per le celebrità, probabilmente, essere ignorati è un guaio ben più grande. E hanno a disposizione strumenti alternativi per potersi spiegare (di solito vanno nei programmi tv pomeridiani) e collaboratori con cui decidere quali strategie comunicative intraprendere: se fare ammenda, diventare a loro volta blastatori degli “schiantati sui social”, cancellarsi in attesa che le acque si calmino.

C’è un altro motivo per cui molti partecipano alle gogne pubbliche: perché è divertente. Sì, l’indignazione per divertimento, come se fosse una rubrica fissa, un programma che va in onda periodicamente, un evento collettivo imperdibile. È evidentemente galvanizzante partecipare a una gogna pubblica. È una scossa d’elettricità che fa accorrere gli utenti dove si svolge l’agone.

Gente qualunque

E arriviamo agli utenti semplici. Diciamolo subito: chi parte da una posizione di svantaggio sociale ne esce triturato. La portabandiera delle vittime dei linciaggi online è Justine Sacco, colpevole di aver scritto nel 2013 un tweet accusato in un primo momento di essere razzista e in un secondo momento di essere “solo” di cattivo gusto (sì, la storia si ripete sempre uguale). Il tweet le è costato il lavoro, la salute, i rapporti con la famiglia. Il percorso di rapidissima discesa e faticosa risalita per riappropriarsi della sua vita è documentato sempre nel libro di Ronson, I guerrieri della rete, dove lo scrittore ha intervistato anche altri utenti incappati in pubbliche umiliazioni per aver “sbagliato qualcosa”: i tempi di una battuta, il contesto. Comunque, insignificanze al confronto del tritacarne cui sono dovuti passare.

Ci sono anche dei casi italiani, il più grave è quello di Tiziana Cantone, morta suicida per un effetto a catena: l’ex fidanzato aveva diffuso sul web dei video hot che la vedevano protagonista. I video erano però diventati virali per via di alcune frasi pronunciate dalla Cantone, subito diventate popolarissimi meme. Dopo essersi rivolta, senza successo, alla giustizia chiedendo il diritto all’oblio (anche su Google) e il cambio di nome, ma continuando a essere derisa sia sui social che per strada, alla fine si è suicidata (tutta la storia è ben raccontata in questo articolo di The Atlantic). Sui social, dove ancora si discute della vicenda, spesso non è neanche considerata una pubblica umiliazione: era solo una presa in giro e lei forse “aveva già dei problemi”, “doveva essere più autoironica”. C’è chi aveva scritto che forse era solo “un’operazione di marketing in vista del lancio di una nuova attrice” (e solo dopo la morte è stata fatta ammenda).

È chiaro che ancora non ci si rende conto della violenza delle gogne online. Che siano dirette su un brand, un vip o una persona comune che è inciampata in un epic fail, bisogna capire che non sono loro il problema. Prima la responsabilità si attribuiva solo ai soggetti: sui social bisogna saperci stare, bisogna imparare a gestire il mezzo, bisogna conoscere i codici linguistici e imparare a distinguere il contesto. E sicuramente tutto questo continua a essere necessario, come bisogna essere preparati con protocolli di gestione delle crisi, che tutti i brand, le aziende, le celebrity e sì, anche le persone comuni, dovrebbero avere. Ma ormai il problema da affrontare è nella ferocia delle folle, anonime e deresponsabilizzate, pronte a farsi guidare dai sobillatori del web. Non bisogna più giustificare i linciaggi online: anche se è per una buona causa, anche se apparentemente avvengono per difendere le minoranze oppresse contro le élite. E non è più corretto minimizzare, dicendo che è per divertimento. La soluzione non è rendere mirate le gogne, ma fare in modo che queste avvengano il meno frequentemente possibile. L’obiettivo finale è disinnescare questa inutile, fine a se stessa, indignazione collettiva.


Laura Fontana

Lavora da più di dieci anni come esperta di comunicazione digitale per brand nazionali e internazionali. Si occupa di società digitale e analisi del web. Scrive di internet e pop culture, influencer e creator economy su Rivista Studio e altri magazine.

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