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Intervista a Ludovica Rampoldi

Affrontare gli anni cruciali della storia italiana recente, miscelando sapientemente la realtà dei fatti con storyline di invenzioni: è la sfida di 1992, 1993 e adesso anche di 1994. Parola di sceneggiatrice.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 23 - Autori Seriali del 25 giugno 2018

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Insieme a Stefano Sardo e Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi forma uno dei gruppi creativi più interessanti nel mondo della nuova fiction italiana. A loro si deve la scrittura di In Treatment, di 1992 e 1993, ma anche de Il ragazzo invisibile al cinema. A partire dal processo ideativo e produttivo di 1992, Ludovica Rampoldi ci aiuta a capire quali sono stati i ragionamenti dietro la peculiare costruzione della serie, e il modo in cui i creatori di un mondo narrativo possono dare un contributo fondamentale a tutte le fasi realizzative di una fiction: dalla scelta del regista al casting, per finire in sala di montaggio.

Cominciamo dalla nostra domanda di rito: chi è l’autore delle fiction di oggi?  

Credo che la principale differenza tra il nostro sistema e quello in cui vige lo showrunner sia l’accesso ai cordoni della borsa. Avere o no il potere di allocare il budget a seconda delle necessità. Un potere che in Italia non abbiamo, anche se molto sta cambiando. La mia esperienza su 1992 e 1993 ha consegnato a noi sceneggiatori – con Stefano Sardo e Alessandro Fabbri – un grande potere creativo, condiviso con il regista e la produzione. Abbiamo ottenuto il “creato da” nei credits, che ci ha messo sullo stesso piano del produttore creativo, anche se nella realtà è un titolo che non ha alcuna valenza: più che altro è una coccarda da appuntare alla giacca. Non ha valore contrattuale, di fatto non esiste, ma ci ha permesso di partecipare fin dall’inizio a ogni decisione creativa, a partire dalla scelta del regista.

Partiamo subito dal vivo, allora, da 1992 e 1993: raccontaci il tragitto dal soggetto di serie alla post-produzione.

È andata così: ci ha contattato Lorenzo Mieli, raccontandoci la famosa idea di Stefano Accorsi di mettere in scena vent’anni di politica italiana, soprattutto dal punto di vista della Lega, cioè di una di quelle forze nuove che hanno governato il Paese negli ultimi decenni. Ci sembrava una sfida molto interessante, ma eravamo consapevoli che raccontare un lasso temporale tanto ampio sarebbe stato difficile con il passo della serialità contemporanea. Di fronte a questa prima difficoltà abbiamo trovato una soluzione che a nostro avviso era la migliore: zoommare su un singolo anno, in questo caso il 1992. Era adatto come primo capitolo della serie perché è lo spartiacque tra il crollo della Prima Repubblica e il sorgere della Seconda. Circoscrivere il perimetro narrativo ci permetteva di raccontare la storia con un ritmo molto più vicino ai tempi narrativi odierni, stando a ridosso dei personaggi che agiscono. Questo è stato il primo passo: dare a quell’input produttivo il nostro taglio. Su questa intuizione abbiamo costruito una bibbia di una novantina di pagine che ha generato grande entusiasmo, prima da parte della produzione di Wildside, poi da parte di Sky. Eravamo felici perché era la prima serie Sky non derivativa, a differenza di Gomorra e Romanzo criminale, entrambe figlie del percorso “grande libro che diventa un grande film che diventa una grande serie”. Qui Sky decideva di scommettere su tre giovani sceneggiatori con una storia completamente originale e anche rischiosa. È stato esaltante. Una volta iniziato a scrivere, abbiamo pensato a chi potesse esserne il regista. Con Mieli ne abbiamo incontrati tanti, addirittura facendo anche dei provini, una cosa divertente.

Cosa stavate cercando?

Non volevamo un regista che fosse attivo già negli anni Novanta, che avesse vissuto quegli eventi e che avesse in qualche modo un punto di vista già formato su quel periodo. Ci interessava puntare su una figura anagraficamente più giovane, con un immaginario più simile al nostro. Quindi abbiamo incontrato registi alla prima o seconda esperienza: una chiacchierata generale sul tipo di visione della serie, poi con alcuni di loro abbiamo fatto anche incontri con gli attori, per capire come avrebbero girato certe scene. È stato interessante, e infine abbiamo deciso, con Lorenzo, che Giuseppe Gagliardi sarebbe stata un’ottima soluzione, e con lui Gianluca Jodice alla seconda unità, un’altra bella scoperta.

Perché avete scelto proprio Giuseppe Gagliardi? C’è una ragione specifica?

Intanto perché Stefano Sardo ci aveva già lavorato, e conosceva la sua ossessione cinematografica. Giuseppe è un lavoratore compulsivo, instancabile, e questo aspetto era importante per una serie tanto faticosa. Le sue idee di messa in scena sembravano sposarsi bene con la nostra visione della serie: puntare da una parte sul pop, e dall’altra sul languore dell’inevitabile malinconia nel rivivere un’epoca passata, mischiando tutto con toni dark.

Siete stati coinvolti anche nel casting?

Sì, anche quello è stato un lavoro di collaborazione tra noi, il regista e la produzione. Eravamo tutti abbastanza allineati sulle scelte, non ci sono stati grandi temi di discussione. Le scelte sono state condivise, tutti i giorni poi eravamo presenti sul set, fino all’ultima fase, quella del montaggio.

Che tipo di produttore è Lorenzo Mieli? Da quello che dici sembra che Mieli abbia investito molto in voi, nella vostra visione, e abbia delegato parecchio alla vostra squadra di autori.

Sì, è verissimo. Lorenzo è un produttore intelligente che ha un ottimo intuito, quindi è una sponda editoriale assai utile. I suoi consigli sulle scelte narrative sono stati importanti. Nella prima stagione c’era anche Claudio Corbucci, che era il nostro editor sul fronte Wildside, anche lui sul set come delegato di produzione; mentre nella seconda Corbucci stava facendo Non uccidere, dunque c’eravamo solo noi. Venuta meno quella figura di collante, Lorenzo ha deciso di delegare di più a noi.

Una cosa interessante, che hai già lasciato trapelare, è il rapporto con Fabbri e Sardo. Siete una squadra che lavora insieme. Anche senza un nome o un marchio. Mi piacerebbe capire come è nata questa collaborazione, su che base si è cementata.

Rulli e Petraglia sono gli sceneggiatori più famosi. Nonostante abbiano anche carriere separate, sono un brand. Io e Stefano ci siamo conosciuti nel 2002 in una scuola di sceneggiatura di Mediaset. Alla sede di via Aurelia Antica c’è stata per anni un’ottima scuola, a numero chiuso, con insegnanti di tutto il mondo. Otto ore al giorno, un sacco di lavoro da fare, una mole di cose da scrivere: una fantastica palestra. Lì ho conosciuto Stefano, e abbiamo iniziato a lavorare insieme. Nel 2005 stavamo scrivendo un thriller per Rai Cinema ed eravamo in un vicolo cieco. Stefano allora mi parla di questo ragazzo che aveva conosciuto giocando a calcio nella Nazionale scrittori. Era Alessandro Fabbri, che aveva un bel talento sul noir e sul thriller. Abbiamo deciso di prenderlo a bordo per quel progetto (che non è mai stato realizzato) e la nostra collaborazione è andata avanti: ormai sono 12 anni che lavoriamo insieme. Abbiamo firmato il nostro primo film, La doppia ora, in concorso a Venezia e con un buon successo anche all’estero. Abbiamo fatto insieme Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores. Abbiamo scritto le tre stagioni dell’adattamento italiano di In Treatment, insieme a Nicola Lusuardi, Giacomo Durzi e Ilaria Bernardini. E ora stiamo finendo la trilogia con 1994. Insomma, per usare una metafora che utilizza spesso Stefano, che ha anche una carriera musicale, siamo un po’ una band in cui ognuno ha una sua strada da solista e ognuno fa cose per conto suo, ma spesso ci ritroviamo con grande piacere a lavorare insieme. Abbiamo lo stesso immaginario, abbiamo sviluppato una forma di linguaggio che è diventata la nostra lingua. Quando ti trovi a rileggere non hai mai una sensazione di discontinuità, come se ci fossero tre teste diverse: sono semplicemente tre menti allineate sulla stessa frequenza.

“I personaggi di finzione ti permettono tutta una libertà narrativa, drammaturgica e di espressione altrimenti impensabile, e questi si muovono accanto a quelli realmente esistiti che hanno fatto la Storia. Di Pietro è raccontato attraverso Luca Pastore, Dell’Utri e Berlusconi attraverso Leonardo Notte, Bossi attraverso Pietro Bosco. Il cambio di fuoco ti permette di raccontare personaggi fortemente ambigui, tormentati e oscuri. Cosa che chiaramente non avremmo potuto fare se il protagonista fosse stato Di Pietro, per un’infinità di questioni ovvie”.

Mi rendo conto che non sia facile, ma mi piacerebbe riprendere la metafora della band. Vorrei capire quale strumento suona ognuno di voi, sapere se ci sono specializzazioni, per esempio sulla costruzione dei personaggi, o sui dialoghi. Se esistono divisioni classiche o se è semplicemente una comunione di intenti in cui ognuno fa il suo pezzo.

Guarda, mi è più facile parlare di loro che di me. È come se ci fossimo contaminati gli uni con gli altri. Alessandro è molto forte sulle strutture, è uno strutturalista di ferro. E invece Stefano è più forte sui personaggi e sui dialoghi. È molto brillante anche sui toni da commedia. Ognuno ha un suo portato, poi è chiaro che dopo tanti anni che lavoriamo insieme siamo stati contaminati dalle idiosincrasie e dai talenti degli altri. Fabbri è uno fissato con la formattazione, per cui se c’è uno spazio di troppo va al manicomio, e questa cosa è diventata anche mia: se vedo il testo di un soggetto non giustificato diventa un problema. Prima non ero così, mi ci ha fatto diventare lui!

Mi interessa capire come avete lavorato su 1992 e 1993, quali riferimenti avevate in mente quando avete iniziato. A me, come a tanti altri, ha colpito la dimensione davvero originale del racconto, da più punti di vista. Un po’ perché la fiction italiana, il racconto italiano oserei dire, difficilmente si è soffermato su quel periodo – ancora vicino anche se comincia a essere in prospettiva –, e un po’ perché non è facile toccare questi temi in Italia, dove non si ha mai con certezza la verità di nulla.

C’è una scena di Boris che mi torna spesso in mente, dove il regista propone il progetto Machiavelli e si sente rispondere che è un po’ troppo di attualità politica, è un tema ancora scottante… “Dobbiamo ancora risolvere il nostro rapporto con le guerre puniche!”. Ecco, diciamo che l’Italia, soprattutto nella sua rappresentazione audiovisiva, non è tanto abituata a fare i conti con se stessa e la sua storia, se non attraverso posizioni già in qualche modo precostituite, ideologiche, dove ci sono buoni e cattivi. Raccontare vent’anni fa, quindi ieri, e un periodo storico così scivoloso, era un grande rischio, che abbiamo affrontato facendo uno scarto. La televisione italiana ci aveva abituato a raccontare la storia nei suoi protagonisti: avremmo dovuto fare la storia di Di Pietro, come tante volte abbiamo visto quella di Falcone. E invece abbiamo messo i personaggi reali sullo sfondo, e con un cambio di fuoco abbiamo portato in primo piano quelli minori. I personaggi di finzione ti permettono tutta una libertà narrativa, drammaturgica e di espressione altrimenti impensabile, e questi si muovono accanto a quelli realmente esistiti che hanno fatto la Storia. Di Pietro è raccontato attraverso Luca Pastore, Dell’Utri e Berlusconi attraverso Leonardo Notte, Bossi attraverso Pietro Bosco. Il cambio di fuoco ti permette di raccontare personaggi fortemente ambigui, tormentati e oscuri. Cosa che chiaramente non avremmo potuto fare se il protagonista fosse stato Di Pietro, per un’infinità di questioni ovvie. E qui mi riallaccio a In Treatment, perché in realtà la scrittura della prima stagione, che risale ormai a molti anni fa, prima che scrivessimo 1992, ci è stata di grande insegnamento: lì la drammaturgia si svolge intorno a due persone in una stanza che si raccontano delle cose. Dal punto di vista cinematografico, apparentemente il nulla. Eppure tutto scaturisce dal personaggio, che come in un giallo lentamente rivela i suoi lati sempre più profondi. Scrivendo In Treatment dovevi possedere il personaggio nella sua totalità, e capivi quanto il plot è generato dal personaggio stesso. Una lezione che ci è stata poi utilissima per 1992, perché sono i nostri personaggi a incarnare e a far muovere la storia.

Credo che si capisca bene l’importanza del lavoro sul personaggio per arrivare a questo obiettivo.

Sì, perché se ci pensi a un primo sguardo sono quasi degli stereotipi: c’è il rampante pubblicitario, c’è il leghista ruvido e rozzo, c’è il poliziotto che vuole andare a fondo all’indagine, c’è la showgirl pronta a tutto pur di brillare sotto i riflettori. Però quello che abbiamo cercato di fare, sperando di esserci riusciti, è stato illuminare, episodio per episodio, la stratificazione di questi personaggi, fornendo un secondo sguardo che mette un po’ in discussione la prima immagine che abbiamo avuto di loro.

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Avevate in mente degli esempi di serie (o non solo) che avessero fatto un lavoro del genere con la storia recente? Per esempio, mentre guardo 1992 a volte faccio paralleli con Mad Men.

Magari! [ride]

Paralleli che reggono fino a un certo punto, me ne rendo conto. Però anche lì di fatto hai la Storia, non è che la puoi cambiare. Ci sono i fatti più o meno importanti, alcuni che riguardano tutti, e tu spettatore sai che stanno per accadere. Si sa benissimo che cosa è accaduto nel 1992, nel 1993 e nel 1994. Sai che Notte sta lavorando in un certo modo e sai dove va a parare. Sai che Berlusconi entrerà in politica. In Mad Men questa cosa è molto più sullo sfondo, per cui spesso è la tv a raccontare l’omicidio Kennedy, la morte di Marylin, lo sbarco sulla Luna. Voi avevate un compito più complesso, o avete scelto di giocarvela in un modo più complesso: avevate gli eventi specifici di quegli anni da far interagire con un gruppo di personaggi abbastanza ampio ma tutto sommato chiuso. Le loro azioni dovevano avere un legame, un rapporto di causa-effetto credibile con quanto accade. Mi viene il mal di testa solo a dirlo.

Farò un discorso generale. Scrivere 1992 e 1993 è stato difficilissimo, davvero uno sforzo notevole. Innanzitutto perché dietro c’è un importante lavoro di documentazione. Poi la nostra è una serie corale, senza un’arena. Una serie dove si devono orchestrare cinque storyline che vanno parallele e in qualche modo devono variare sul tema. Allo stesso tempo la Storia che accade dev’essere materiale narrativo palpitante, quindi deve risuonare con le storie dei protagonisti. Questo Tetris è molto difficile. Speriamo che durante la visione sembri tutto semplice e facile, ma dietro c’è un lavoro davvero impegnativo. Anche perché è una serie che non ha un genere di riferimento su cui ti puoi accomodare, o che ti può offrire soluzioni già sperimentate o riferimenti. In questo ci sono state due serie che in qualche modo ci hanno ispirato, più o meno consapevolmente: una è Boss, serie politica che ha avuto pochissimo successo (dopo due stagioni è stata chiusa) ma era meravigliosa. Il pilota era diretto da Gus Van Sant, era nata prima ancora di House of Cards. Parlava di un sindaco di Chicago cattivissimo che scopre di avere una malattia terminale e compie ogni aberrazione pur di rimanere al suo posto. Dall’altra c’è Mad Men, per due motivi. Primo, c’è una scena che personalmente mi ha causato un cortocircuito: nella prima stagione offrono a Don Draper di seguire la campagna di Nixon, trattandolo come se fosse un detersivo, una merce qualunque. Poi la cosa non ha seguito all’interno della storyline di Don, ma in quella scena se ci pensi ci sono vent’anni di politica italiana. La rivoluzione copernicana, compiuta da Berlusconi, che non a caso fonda il suo impero e le sue truppe d’assalto su Publitalia, cioè un’azienda che vende spazi pubblicitari. Quella ci è sembrata una chiave molto bella con cui connotare il nostro Leonardo Notte, il primo a capire che la politica può essere venduta come una merce.

Allora c’ero andato vicino con Mad Men.

Sì, è una delle serie che amiamo di più, quindi più o meno consapevolmente inquina in modo positivo il nostro immaginario. E poi, secondo motivo, Mad Men ha spettacolarizzato il desiderio. E quello che ha fatto Berlusconi anche nella politica italiana è convincere gli italiani che non bisogna vergognarsi dei propri desideri. Mentre negli anni precedenti c’era una visione claustrofobica, cattocomunista, improvvisamente con lui è arrivata anche una nuova libertà. C’è una battuta in Mad Men che a un certo punto una donna fa a Don Draper: “perché vuoi negarti una cosa che desideri?”. L’abbiamo presa pari pari. Come si dice di solito: non è un plagio, ma una citazione. La domanda fondamentale che ha posto Berlusconi agli italiani secondo me è questa: “perché devi negarti una cosa che desideri?”, “perché non devi assecondare i tuoi desideri inconfessabili?”. I nostri personaggi sono tutti declinati su questo tema. Sono estremi, mossi da forze oscure, spesso non condivisibili dal senso comune. Ma proprio per questo interessanti e tormentati.

Sareste riusciti a fare questo lavoro di incastro, questo super Tetris, se non foste stati tre soggetti molto affiatati che lavorano insieme?

No, penso che una persona sola non ce l’avrebbe fatta. Io, almeno, non ce l’avrei fatta.

Immagino che dipenda dagli autori.

Noi avevamo una visione molto chiara e univoca, e questo ci ha aiutato nello svolgimento. Magari con un altro gruppo di lavoro si sarebbe creata la stessa condizione, oppure no, non te lo so dire.

Anche nel caso di In Treatment avete lavorato tanto con il regista?

No, con il regista no. Per la prima stagione, ma anche per le successive, abbiamo lavorato con Hagai Levi, il creatore israeliano della serie originale Be Tipul.

Tra l’altro sapevo che era già stato scritto un adattamento italiano rimasto fermo per anni.

Era proprio il nostro adattamento, che Nicola Lusuardi ha supervisionato, e che abbiamo scritto molti anni prima che la serie fosse prodotta.

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Una volta abbiamo intervistato Hagai Levi, e gli abbiamo fatto la fatidica domanda sul suo adattamento preferito tra i 17 Paesi. Lui ci ha detto che l’adattamento migliore a suo parere era quello italiano, ma la serie non era ancora stata realizzata.

Sì, lui lo dice sempre, è molto carino, e credo che lo dica con convinzione. Il lavoro fatto con lui è stato interessantissimo, perché lui ha una mente superiore, un talento incredibile, quindi è stata una lezione continua. E poi perché le scelte di adattamento che abbiamo fatto si sono rivelate felici. Soprattutto nella prima stagione il nodo era il personaggio del pilota. Non è una figura che in Italia ha un suo radicamento. Sì, anche noi abbiamo fatto le nostre guerre, ma non è come in Israele o negli Stati Uniti, dove la guerra è sentita come una parte importante della vita più profonda del Paese. Abbiamo cercato di capire qual è la nostra guerra, e la risposta è stata quella contro la criminalità organizzata, il cancro del nostro Paese. E allora il nostro pilota è diventato un infiltrato del Ros nella ’ndrangheta. Questa è una scelta che Hagai ha molto apprezzato. Gli sembrava il tipico esempio di come l’adattamento locale possa diventare molto interessante. Ci raccontava le declinazioni negli altri Paesi, e ci sono cose davvero divertenti, a seconda delle culture. Ci diceva che in Russia dare soldi a un estraneo per raccontagli i propri guai, i propri problemi è impensabile, non esiste. Quindi lì c’è una specie di signora dirimpettaia da cui tutti andavano a raccontare i loro tormenti.

Quindi lo psicologo è diventato una comare? Sarebbe da studiare In Treatment nei suoi adattamenti, si imparerebbero un sacco di cose. Come dicevi prima, è una serie anti-cinematografica, molto teatrale. Ma c’è un regista importante come Saverio Costanzo, con una cifra personale. Non so se c’entrate qualcosa voi per la scelta, come ci avete lavorato…

No, per In Treatment una volta che abbiamo consegnato i nostri copioni, il nostro lavoro è terminato.

Quindi vecchia maniera.

Sì, esatto, abbiamo visto i provini, ma solo dopo che le scelte erano più o meno avvenute, e queste competevano fondamentalmente a Costanzo.

Di fatto aveva lui il ruolo dello showrunner.

Sì, devo dire che è stato bravissimo nel rendere cinematografico quello che in teoria era bidimensionale. In realtà credo che per un regista sia una sfida enorme: realizzare un’estetica potendo contare solo su due attori, una location e quindi anche poche inquadrature.

Allora l’ultima domanda che ti faccio è: secondo te siamo di fronte a un momento di transizione verso un modello più definito, dove non ci sarà la chiusura a compartimenti stagni che fino a oggi ha regnato in Italia? O adesso è così, ma non si possono trarre lezioni generali da questa situazione?

Per ora mi sembra che ogni caso faccia scuola a sé. Se per vent’anni abbiamo avuto una fiction che non è stata in grado di valicare i confini nazionali, è stato anche  perché troppe persone volevano imporre la loro voce, e il risultato era che ogni prodotto finiva per assomigliarsi, in un livellamento al basso. Da quando anche in Europa si è iniziato a tutelare una sola voce, penso alla Danimarca, sono nati prodotti seriali più originali, con una visione integra. E questa può essere dell’autore, del regista, del produttore, ma è importante che ci sia una figura che alla fine abbia l’ultima parola. Una singola voce dà sicuramente più chance per avere un prodotto forte. Un prodotto audiovisivo è il frutto di un’unione di tanti talenti e di tante collaborazioni: degli autori, del regista, della produzione, questo è indubbio. E anche nei titoli americani c’è un lavoro dietro che è inevitabilmente collegiale. Però c’è una persona che ha l’ultima parola, e questo determina l’unicità del prodotto.


Fabio Guarnaccia

Direttore di Link. Idee per la televisione, Strategic Marketing Manager di RTI e condirettore della collana "SuperTele", pubblicata da minimum fax. Ha pubblicato racconti su riviste, oltre a diversi saggi su tv, cinema e fumetto. Ha scritto tre romanzi, Più leggero dell’aria (2010), Una specie di paradiso (2015) e Mentre tutto cambia (2021). Fa parte del comitato scientifico del corso Creare storie di Anica Academy.

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