Dopo anni di dominio incontrastato, le star di Instagram tremano. Accuse, delusioni, discorsi negativi, comunità di liberazione dal marketing del sé e dei prodotti sponsorizzati. Ma è vera crisi?
Da un anno a questa parte, su Twitter si assiste a un fenomeno curioso: ogni volta che Paola Turani va in tendenza, l’hashtag che si diffonde è #taolapurani e non #paolaturani. Paola Turani è un’influencer di fascia medio-alta, con due milioni di follower su Instagram, nota per nulla in particolare tranne che per le tipiche cose da influencer: molti selfie, molti fit check, messa in mostra del proprio stile di vita. E allora perché #taolapurani scala i trending topic di Twitter? A quanto pare, intorno a questo hashtag si è raccolta una community che commenta giornalmente le gesta di molte influencer, oltre a Paola Turani, e non con il tono adorante del follower tipico ma con il piglio critico di chi ha mangiato la foglia, motivo per cui spesso gli utenti che partecipano sono scambiati per hater o invidiosi. Queste community in realtà fanno debunking: investigano, sviscerano nello storytelling delle influencer; propongono una contro-narrazione più realistica, notano i buchi nelle sceneggiature di queste vite così perfettamente rappresentate, mettono in risalto le incongruenze tra i messaggi che le influencer vorrebbero far passare e quello che poi effettivamente dicono. La maggioranza degli utenti che scrolla distrattamente i profili delle influencer difficilmente nota incongruenze, tranne nei casi più gravi e quando scoppiano shitstorm: allora si scopre che, per esempio, l’influencer che diceva di essere un’economista in realtà non aveva nessuna laurea.
Questo balletto tra influencer e community di de-influenzati in realtà non è nuovo. Il primo esempio italiano di blog che ha fatto influencer-debunking si chiamava “La faccia avvilita di Misha Burton” (oggi solo “La faccia avvilita”) ed era dedicato principalmente a Chiara Ferragni. La pagina ha avuto un momento di gloria agli inizi degli anni Dieci, ma poi si è ridimensionata con il passare degli anni e con il crescere dell’importanza delle influencer stesse. È da un anno che invece si assiste a una controtendenza per cui le influencer non sono più intoccabili ma anzi sono apertamente scrutinate su Twitter. Fino a qualche anno fa chi osava criticare invariabilmente subiva un discredito pubblico da parte dell’influencer, che magari con il commento negativo faceva un contenuto ad hoc, in modo da far linciare l’hater invidioso dai suoi follower. Spesso, infatti, ci si scorda che essere odiate online alle influencer in un certo senso fa comodo. Lo scontro di opinioni, cioè quello che viene chiamato il drama, porta attenzione (hype) e polarizzazione (engagement). Hype ed engagement sono ciò che le influencer offrono ai brand per farsi sponsorizzare, diventare il loro “ambassador”, ottenere contratti e omaggi. Insomma, per una influencer avere degli hater è utile per due motivi: il primo è rimanere al centro dell’attenzione, in secondo luogo si ha una scusa già pronta in caso di controversie online, quando ci si può dichiarare “vittime di odio e di invidia”. Dunque, da un lato le influencer devono tenere sotto controllo la loro reputazione, dall’altro è anche possibile che alcuni loro contenuti siano formulati per tenere viva l’attenzione nei loro confronti.
La rabbia degli ex
L’hashtag #taolapurani nell’arco di quest’anno ha iniziato a raccogliere intorno a sé sempre più persone deluse dalle influencer, per un motivo o per l’altro. Finora si è parlato al femminile perché le influencer sotto osservazione sono tutte donne, e pure le community delle de-influenzate sono costituite soprattutto da donne. Sono spuntati anche altri hashtag, associati ad altre influencer e usati appunto per seguirne le gesta e commentarle: #sp0ra (nickname di Veronica Benini, strategist), #viuliagalentina (Giulia Valentina, ex di Fedez), #disperatamentemamma (nickname di Julia Elle, il cui vero nome è Giulia Cutispoto, diventata nota per aver raccontato la sua “vita di mamma”), #estetistacivica (Estetista Cinica cioè l’imprenditrice Cristina Fogazzi), #bimanenati (Nima Benati, fotografa-influencer). C’è una spiegazione sul perché viene messo in atto questo rovesciamento del nome o del nickname. I follower sono consapevoli del fatto che per l’influencer l’importante è che si parli di lei. Quindi, da un lato è un modo per non farsi rilevare da eventuali strumenti di ascolto del web o non farsi trovare dal soggetto in questione, dall’altro è un modo per non contribuire a mandare in tendenza il nome esatto, o contribuire a mandarcelo con un’accezione che però sia con molta evidenza negativa. Infine, tutto è stato racchiuso sotto il cappello dell’hashtag #influcirco, in riferimento al fatto che l’influencer economy sembra essere diventato “un circo”, dove si esibiscono “dei pagliacci”.
Spesso ci si scorda che essere odiate online alle influencer in un certo senso fa comodo. Lo scontro di opinioni, cioè quello che viene chiamato il drama, porta attenzione (hype) e polarizzazione (engagement). Hype ed engagement sono ciò che le influencer offrono ai brand per farsi sponsorizzare, diventare il loro “ambassador”, ottenere contratti e omaggi. Insomma, per un’influencer avere degli hater è utile.
La community delle de-influenzate è composta da un’ampia varietà di persone: indubbiamente ci sono utenti che erano già molto scettiche nei confronti del mondo delle influencer, ma la cospicua maggioranza è costituita da follower deluse d’aver investito così tanto tempo su persone che poi si sono rivelate non essere quello che dicevano di essere. La delusione scatta perché avviene la rottura di un patto di credenza all’interno di un rapporto parasociale: l’influencer che invita tutti a mettere in pratica la “gentilezza” ma poi risponde in maniera sgarbata a un messaggio privato, un’uscita infelice dell’influencer su un tema sensibile di cui magari era anche stata testimonial, l’aver consigliato qualcosa che poi risulta essere un prodotto scadente, l’aver totalmente inventato dei fatti solo per avere più attenzione.
Insomma, la rottura del patto sembra avvenire per un’incoerenza nei messaggi ma c’è anche dell’altro. Julia Elle, per esempio, da diversi anni racconta sui social come gestisce la sua “famiglia allargata”, con figli da partner diversi, mantenendo però uno stile di vita apparentemente glamour. È stata intervistata sull’argomento da riviste sempre più prestigiose, sponsorizzata da aziende note, pubblicata da una delle case editrici più importanti: l’incantesimo però si è spezzato quando uno dei suoi ex compagni si è sfogato online dicendo che la famiglia allargata perfetta raccontata da Julia Elle non esiste, o esiste solo sull’Instagram dell’influencer. La reazione dei follower di Julia Elle è stata feroce: è vero che l’influencer ha subito una shitstorm (un linciaggio online che andrà a intaccare la sua reputazione), ma è anche vero che è caduto un castello di menzogne, costruito per mantenere i privilegi da influencer, a discapito di ex compagni, figli, e appunto anche follower che alla sua storia avevano creduto.
Corsi e ricorsi
Molte ex-follower raccontano che si sono legate a questa o quell’altra influencer in momenti particolari della loro vita, in cui erano più “fragili” (stavano affrontando un lutto o un divorzio, avevano appena perso il lavoro), e cercavano qualcosa per distrarsi. Il fatto è che ci si affeziona alla vita di questi personaggi che si raccontano sui social e danno tutto di loro, ci si affeziona ai loro piccoli problemi (come può essere lo scegliere di comprare un’auto nuova, o come cambiare l’arredamento della casa), ai loro figli, ai loro animali domestici. È così che si stabilisce un legame empatico e affettivo. Tendiamo inoltre a dimenticare che nell’ultimo decennio la vita di tutti si è fatta più complicata, economicamente e socialmente, e che la pandemia ha dato il colpo di grazia. Le persone normali si sono trovate sole in casa, con un solo strumento in mano per affrontare la vita di tutti i giorni: lo smartphone. Ed è proprio nella pandemia che gli influencer hanno innestato una marcia in più, proponendo soluzioni a qualsiasi problema: è esploso in quel momento, infatti il mercato dei corsi online, proposti da influencer e content creator, più che da professionisti e accademici. Le follower si sono perlopiù lasciate convincere da persone di cui apparentemente sapevano tutto; le influencer sono passate dall’essere venditrici di prodotti ed elargitrici di codici sconto a “guru”: hanno iniziato a vendere presunti metodi per accedere al loro stesso stile di vita, insegnando alle follower come rivendere queste conoscenze ad altre persone (magari anche offline). Alcuni lo definirebbero uno schema Ponzi, ma fatto di frasi motivazionali da girlboss scritte su tazze e t-shirt, agende dai colori pastello su cui pianificare e ottimizzare la propria vita, obiettivi da scrivere con penne gel glitterate.
Va detto che il mondo dei corsi online è vasto e dentro ci si trova di tutto: da quello fatto da un professionista di un settore su temi molto specifici, che può essere arricchente e utile nel migliorare la propria carriera o nell’avviarne una nuova, a corsi dove si insegna veramente qualsiasi cosa, per esempio come imparare a camminare bene sui tacchi alti, come abbinare i colori, come riordinare l’armadio. A volte, nel secondo caso, il confine con l’affiliate marketing si fa più sfumato: c’è chi segue i corsi per imparare ad abbinare i colori o camminare sui tacchi, ma si può anche diventare promoter del tema del corso, che diventa esso stesso il prodotto da rivendere. Le allieve sono perlopiù donne, alla ricerca di un lavoro che permetta di conciliare la cura della famiglia e guadagnare qualcosa, magari lavorando da casa.
La delusione scatta perché avviene la rottura di un patto di credenza all’interno di un rapporto parasociale: l’influencer che invita tutti a mettere in pratica la “gentilezza” ma poi risponde in maniera sgarbata a un messaggio privato, l’aver consigliato qualcosa che poi risulta essere un prodotto scadente, l’aver totalmente inventato dei fatti solo per avere più attenzione.
In Italia, la regina dei corsi è certamente Veronica Benini, detta Spora (l’hashtag su Twitter come già detto è #sp0ra). Si tratta di una blogger di lunga data che si è re-inventata più volte e sui suoi profili social ha proprio raccontato come è riuscita a cambiare vita, lasciandosi alle spalle uffici noiosi e storie d’amore finite male, per lanciarsi in lavori più creativi e in una vita più appagante. Ha prima fondato la “Stiletto Academy”, corso per insegnare a camminare sui tacchi, e in seguito è diventata “strategist”, in pratica una consulente di marketing che cura la comunicazione online delle sue clienti. La cliente più importante che ha seguito è Cristina Fogazzi, l’Estetista Cinica che, grazie alle imbeccate di Veronica Benini, ha effettivamente spiccato il volo ed è diventata un caso imprenditoriale di successo in Italia, con la vendita di creme attraverso l’azienda Veralab. Spora è giunta infine al successo mainstream con “9muse”, una sorta di spettacolo teatrale dove “nove muse”, cioè “donne d’ispirazione”, raccontano le loro storie d’empowerment. Sul palco di 9muse sono passate molte influencer ma anche donne note della politica e dello spettacolo come Andrea Delogu, Michela Murgia e Lia Quartapelle.
Rischi della influencer economy
Veronica Benini, a quel punto, sembra essere diventata un punto di riferimento nel panorama dell’influencer economy nostrana, con il suo modo rude ma spontaneo di comunicare, il ritmo sincopato della sua vita, scandito da viaggi zaino in spalla, hotel di lusso, trasferte intercontinentali, libri in classifica e fatturati che a suo dire raggiungono il milione. Raggiunto l’apice, mette in piedi una piattaforma, “Corsetty”, dove altre influencer e professioniste possono far comprare i loro corsi e qui c’è veramente di tutto, anche il corso per imparare a fare i corsi (costo base intorno ai 70 euro). Le follower di Spora, chiamate “Galline”, si iscrivono, ma qui inizia a rompersi quella sorta di patto di credenza che si stabilisce tra l’influencer e le follower. Le recensioni che si leggono online sono disastrose, c’è chi parla apertamente di “corsi-fuffa” che “fanno leva sulle insicurezze delle persone”, “è un copia-incolla di nozioni che si possono trovare su Google”; un’utente si spinge a dire che “c’è della manipolazione emotiva”. Seguendo l’hashtag #sp0ra si possono trovare molti commenti del genere, anche su altri workshop ed eventi organizzati dall’influencer-strategist. Chi parla preferisce rimanere anonimo, perché l’influencer è nota per la denuncia facile e perché in pratica rilancia i commenti negativi nelle sue storie, mettendo “la gallina che si lamenta” alla gogna davanti alle altre. Una signora, pure lei preferisce restare anonima, che oggi commenta assiduamente con l’hashtag #sp0ra, sentita in privato e interrogata sulla questione dice: “ho iniziato a seguire Veronica Benini durante la pandemia, era molto divertente, sembrava avere grande successo. Soprattutto motivava noi donne. Invece oggi ho capito che per lei il femminismo è diventato solo una semplice leva per fare marketing e questo mi ha veramente deluso”.
Insomma, sembra essere caduto il velo di Maya dagli occhi delle seguaci con questo mix di fattori che ha portato a un senso di delusione collettiva verso il mondo dell’influencer marketing: troppa finzione, troppe bugie, troppa fuffa, troppa manipolazione. C’entra però anche l’ascesa di TikTok, che ha allargato la competizione a molti più content creator che vengono dal basso, considerati più normali, quindi più “onesti”. Questo ha fatto svalutare il valore commerciale di molti influencer che operavano su Instagram, soprattutto dopo il cambio di algoritmo della piattaforma, e considerati dalla Gen Z troppo finti e patinati. Sempre su TikTok, il continuo debunking delle influencer, soprattutto quelle legate al mondo del beauty, ha portato alla nascita di nuove figure che fanno contenuti dedicati proprio al de-influencing, sconsigliando o testando i prodotti “in maniera onesta” (cioè non retribuita dai brand) e proponendo stili di vita meno patinati e più realistici; in realtà, qualcuno ha già detto che le de-influencer sono un nuovo modo ancora più manipolatorio di fare influencing.
Infine, in linea generale, si può dire che fare l’influencer sta diventando sempre più difficile: c’è più competizione e le persone sono sempre meno disposte a essere influenzate. Inoltre, il far west dell’influencer marketing sembra destinato a finire, con stati e istituzioni pronti a legiferare per mettere ordine a un sistema finora senza etica e senza regole, se non quelle degli algoritmi.
Laura Fontana
Lavora da più di dieci anni come esperta di comunicazione digitale per brand nazionali e internazionali. Si occupa di società digitale e analisi del web. Scrive di internet e pop culture, influencer e creator economy su Rivista Studio e altri magazine.
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