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Media

Plenitudine digitale

In un libro appena tradotto in italiano, l’importante studioso Jay D. Bolter offre un’originale chiave di lettura sui media contemporanei, tra caduta delle élite e fine delle gerarchie nel mondo della cultura.

Riportiamo qui la prefazione all’edizione italiana del volume Plenitudine digitale. Il declino della cultura d’élite e lo scenario contemporaneo dei media di Jay D. Bolter, professore al Georgia Institute of Technology. Il libro, da poco uscito per minimum fax, è il quattordicesimo volume della collana SuperTele, da quattro anni impegnata nella traduzione di importanti volumi stranieri sulla televisione e sui media.

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Jay David Bolter non è studioso nuovo ai neologismi. Con remediation, insieme a Richard Grusin, ci ha fornito un concetto fondativo per capire il funzionamento dei media digitali (Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini e associati, Milano 2005; ed. or. 1998). Il termine è entrato stabilmente non solo nella cassetta degli attrezzi di chi studia i mezzi di comunicazione, ma anche nella Treccani e nel linguaggio giornalistico. Una realtà inedita come quella in cui viviamo necessità di parole nuove, specie se si ha l’ambizione di capirne il funzionamento di insieme, con una vocazione massimalista che è alla base anche di Plenitudine digitale. In questo libro, Bolter intende offrirci nuove categorie concettuali in grado di descrivere la realtà mediale che ci definisce come individui e come società in una cornice che ora accoglie tutte le forze, spesso contrastanti, che la animano. Quella che Bolter insegue è una teoria dell’Universo, una teoria del Tutto mediale, gli interessa stabilire questioni basilari che definiscono la forma e la fisica della cultura e della comunicazione odierne. Arriviamo in questo modo a plenitudine, un termine arcaico usato per indicare la condizione contemporanea, non proprio un neologismo quanto piuttosto la rigenerazione di un termine il cui spettro rimanda all’idea di pienezza, completezza, perfezione, abbondanza: tutti concetti inclusi nell’originale plenitude, che presi singolarmente non riescono, però, a dare piena ragione delle intenzioni di Bolter. 

Universo senza gerarchie

Cos’è la plenitudine digitale? Nella definizione che ne fornisce l’autore indica un universo di prodotti (dai social media ai videogiochi, dalla tv al cinema, e così via) e pratiche (la realizzazione di tutti questi prodotti insieme al loro remix, condivisione e critica) tanto vasto e vario che non può essere descritto come un insieme coerente: “La plenitudine accoglie facilmente, anzi ingloba, le forze contraddittorie della cultura alta e popolare, dei vecchi e dei nuovi media, delle opinioni sociali conservatrici e radicali. I media digitali oggi forniscono un ambiente ideale per questa pienezza, per la nostra cultura mediale flat in cui ci sono molti punti focali ma nessun singolo centro”. 

È la perdita di senso definitiva della contrapposizione tra low brow (cultura bassa), high brow (cultura alta) e middle brow (cultura di massa) introdotta da Dwight MacDonald, conservatore culturale in lotta contro quelle stesse forze creatrici che negli anni Cinquanta stavano plasmando l’attuale plenitudine. Una perdita di senso sancita, per esempio, da affermazioni come quella del rapper Jay-Z quando dichiara, coerentemente al contesto odierno, di essere il nuovo Picasso: un’affermazione talmente pacifica da essere mainstream, quando invece le dichiarazioni programmatiche delle avanguardie novecentesche finivano per essere prese talmente sul serio che non era raro che il pubblico scandalizzato venisse alle mani, come nel caso della Sagra della primavera di Stravinskji. La parabola delle arti nel modernismo, che a furia di inseguire il Nuovo come un’ossessione hanno finito per abbattere non solo i loro confini interni ma anche quelli esterni, verso le altre arti e le pratiche creative meno nobili, è alla base di quel processo che ha portato alla fine delle culture d’élite. 

Dalla musica atonale al free jazz, dal rock al rap, non esiste più una forma che possa dirsi più musica delle altre, nessuna élite che ne difenda lo statuto, ma solo comunità di gusto: “In assenza di un paradigma condiviso le scelte sono diventate necessariamente questioni di gusto e comunità”. Le forme più basse non assurgono a danno delle altre, ma le raggiungono appaiandole nel cielo; la luminosità delle arti riconosciute dei secoli passati diventa la luminosità di molte, se non di tutte, nel tempo presente. Nessuno si scandalizza se il design è considerato al pari dell’arte. La plenitudine digitale è un universo in cui le élite culturali sono collassate, frantumate, in un’opera di auto-disintegrazione che ha liberato energia sufficiente per dare vita a uno scenario privo di una singola autorità che possa dire cos’è arte e cosa no, dove tutto coesiste senza gerarchie e splende intorno a noi, i cui centri di equilibrio sono molteplici punti sparsi tra tante comunità di gusto e dove nessuno può rivendicare un primato culturale. Oggi tutto è arte, perché arte è diventato sinonimo di creatività. Come siamo arrivati a questo, la lunga strada che ci ha portati fino a qui, è uno dei temi portanti del libro di Bolter.

Linee di faglia

Un altro tema importante è poi il riconoscimento delle forze contradditorie che animano la produzione culturale, sempre partendo dal presupposto che nessun medium e nessuna pratica sono universali. I media di flusso come i videogiochi convivono con quelli narrativi come il cinema e la tv. Spesso si dice che la nostra è una cultura del remix, ed è vero che il nuovo sia incarnato dai media di flusso che usano il remix e si strutturano per loop procedurali, ma senza per questo che sostituiscano le narrazioni forti con un inizio, uno sviluppo e una fine, che invece rimangono. In questo libro, Bolter propone alcune scissioni per orientarci nella plenitudine: quella tra catarsi e flusso, quella tra originalità e remix, quella tra spontaneità e proceduralità (e datificazione), quella tra storia e simulazione. 

“La plenitudine accoglie facilmente, anzi ingloba, le forze contraddittorie della cultura alta e popolare, dei vecchi e dei nuovi media, delle opinioni sociali conservatrici e radicali. I media digitali oggi forniscono un ambiente ideale per questa pienezza, per la nostra cultura mediale flat in cui ci sono molti punti focali ma nessun singolo centro”.

La datificazione, la proceduralità e la simulazione rappresentano alcune tra le principali linee di faglia della cultura odierna e sono alla base della comunicazione digitale: nei videogiochi, ma anche nei blog e nei social network. La contrapposizione tra catarsi e flusso segna un’altra linea di faglia tanto profonda da oltrepassare i confini di quello che consideriamo intrattenimento, spingendosi fino al regno dell’impegno sociale e della politica. La teoria del Tutto mediale proposta da Bolter ha l’ambizione di rendere espliciti i legami che nella plenitudine digitale uniscono con maggiore forza che in passato, e con conseguenze più esplosive, i media e la politica: “Il collasso della gerarchia nelle arti e nella cultura non costituisce un pericolo per la società. Il pericolo sussiste, invece, nella sfera politica”. 

Si è sfaldata, ci spiega Bolter, l’idea che a governare debbano essere le élite tecniche e politiche. La comparsa delle fake news e il ruolo dei social nel farle circolare e dare loro forza si lega alla propensione di milioni di elettori a considerare i social media equivalenti ai media istituzionali, ai giornali e alle televisioni. E tutto questo ha avuto un impatto duro su sistemi politici radicati nella catarsi come quelli di Europa e Stati Uniti, dove forze diverse si contrappongono (comunismo, fascismo, liberismo), ma tutte nella convinzione che “una storia ci sia”. L’ascesa politica del flusso è una minaccia strutturale per questi Paesi. La ferita aperta di Donald Trump, ci dice Bolter, è un effetto e non una causa.

Ricomporre il mosaico

Tra le caratteristiche che definiscono la plenitudine digitale, una delle più rilevanti è la sua abbondanza. Il panorama artistico, culturale, mediale e sociale contemporaneo è molteplice, frammentato, confuso. Nasce dall’accumulo e dalla giustapposizione di tanti contenuti differenti, di testi numerosi e variegati, di numerose forme mediali, di infinite pratiche di produzione e di consumo (o di quanto sta nel mezzo tra questi due poli prima separati). Linguaggi emersi in tempi e modi differenti non si sostituiscono ma si affiancano, si integrano, coesistono in un magma ribollente. È impossibile, avverte Bolter, tenere tutto questo entro un solo sguardo. Ma ciò non vuol dire arrendersi. Innanzitutto, la plenitudine digitale non è un problema da risolvere, magari tornando a una età dell’oro che spesso è solo un’illusione ottica, ma è un dato da accettare, una costante del presente. Poi, i tanti elementi dispersi, slegati devono essere comunque composti in una figura che dia loro senso e valore, che unisca i puntini, che metta insieme le tessere del mosaico. Travolti dal caos, rimane possibile – se non necessario – reagire alla confusione.

Obiettivo di questo libro è così – riconosciuta l’impossibilità di organizzare la complessità, di tenere tutto insieme in modo coerente applicando quadri interpretativi che non reggono alla doppia sfida dei media digitali e della caduta delle gerarchie tradizionali – individuare almeno tendenze e linee guida. O, meglio ancora, disegnare una mappa delle tensioni e opposizioni che attraversano il mondo di oggi. Da un lato, il volume è attraversato da temi ricorrenti, assi contrapposti e sovrapposti. Dall’altro, gli stessi temi, gli stessi assi possono essere applicati al volume per aiutarci a leggerlo e capirlo meglio. 

Si pensi al flusso, esperienza dello spettatore e del fruitore e principio estetico contemporaneo che va a superare la finitezza del testo, dell’opera singola e isolata. Ha le sue basi già nella frammentazione delle storie in vari tasselli e puntate, in una serialità del racconto di lunga durata se non infinita, in una ripetizione dei contenuti nello stesso medium e in una loro estendibilità su più media. Sulla scia delle riflessioni di Raymond Williams (cui Bolter fa solo un fugace cenno, preferendo affidarsi agli studi di Mihály Csíkszentmihályi), il flusso nasce dalla tensione tra la confusione inevitabile e un principio di ordine, tra la sequenza e il caos, tra la pianificazione sfuggente e il piacere di perdersi. Un’operazione simile è quella di Plenitudine digitale, con l’individuazione di snodi e traiettorie e con il riconoscimento di uno scenario che sembra invece scappare da ogni parte. La forza sta già nel tentativo, nell’incessante lavorio di messa a punto del quadro teorico e delle metodologie di ricerca. Si pensi al remix, esperienza del flusso fatta di ripetizione e variazione costante, caratterizzata da una dimensione fortemente ludica: “Remix vuol dire giocare nella plenitudine. Si trova perfettamente a suo agio in una cultura mediale in cui le gerarchie tradizionali si sono sgretolate. Se la nostra cultura è fatta di frammenti, perché non prendere l’abitudine di incollare quei frammenti per dare vita a nuove configurazioni? È possibile prelevare campionamenti ovunque”. Difficile non leggere in queste righe anche il gioco di Bolter nel selezionare pezzetti, esempi e casi e nel giocare con loro, per trascenderli e individuare con un buon margine di approssimazione le configurazioni della cultura contemporanea.

Culture di massa

La plenitudine digitale fa cadere le gerarchie tradizionali. Porta a compimento la messa in discussione delle autorità, il rovesciamento dei piedistalli in corso da tanto tempo, e disegna uno spazio in cui non ci sono più paradigmi condivisi e universali, sostituiti da comunanze di orizzonti più ristrette e spesso temporanee, precarie. Alla Cultura, con la maiuscola, si sostituiscono le culture, meno riverite e più articolate, plurali. All’Arte subentra la creatività, un artigianato del pensiero. Conta il nuovo nel mondo sempreuguale, conta lo stile rispetto al contenuto, conta la tecnologia più della forma culturale.

La plenitudine digitale fa cadere le gerarchie tradizionali. Porta a compimento la messa in discussione delle autorità, il rovesciamento dei piedistalli in corso da tanto tempo, e disegna uno spazio in cui non ci sono più paradigmi condivisi e universali, sostituiti da comunanze di orizzonti più ristrette e spesso temporanee, precarie. Alla Cultura, con la maiuscola, si sostituiscono le culture, meno riverite e più articolate, plurali. All’Arte subentra la creatività, un artigianato del pensiero.

In questo libro-summa, Bolter dialoga, apertamente o indirettamente, con alcuni filoni della ricerca sui media e allarga il raggio di applicazione di queste teorie. Contesta in modo chiaro i pamphlet di chi dà agli strumenti digitali un ruolo troppo importante, e sottolinea come la caduta delle élite e l’emergere delle tecnologie siano fenomeni paralleli, uno il contrappunto dell’altro, non legati da causalità diretta. Meglio non sopravvalutare i “nuovi media” (che nuovi non sono più, da parecchio), meglio non considerarli causa di ogni decadenza, ma adottare uno sguardo neutro, laico, che non si strappi troppo le vesti per il livellamento di valori e gerarchie ma preferisca capirne ragioni e conseguenze. Poi, spiega come la lotta lunga decenni per riconoscere il ruolo della cultura di massa, e così definirne lo statuto, sia stata la fase transitoria che ha condotto al riconoscimento della plenitudine. Allora colloca McLuhan in prospettiva storica, considerandolo emblema di una fase precisa: “I modernisti popolari hanno seguito McLuhan nella convinzione che la forma di un medium corrispondesse al suo contenuto, che ciò che contava in qualsiasi medium e nella quasi totalità dei manufatti a esso collegati fossero le caratteristiche formali piuttosto che l’eventuale contenuto specifico”. E insieme, senza riconoscerlo più di tanto, adotta un punto di vista profondamente mcluhaniano nell’estendere la definizione di medium fino a comprendere tutto lo spazio artistico, culturale e creativo, sempre (e sempre più) basato sulle relazioni tra individui. Ancora, mette in evidenza quanto, negli aspetti positivi e in quelli negativi, la plenitudine digitale sia un processo di inesorabile popolarizzazione e di democratizzazione del gusto: una moltiplicazione delle opportunità che però contiene insieme il rischio della frammentazione e dell’isolamento.
Tra le mille strade qui tracciate da Bolter, una non è esplicitata, ed è il dialogo a decenni di distanza con il libro più importante (per chi studia i media) di Edgar Morin, L’Esprit du temps. Lui scrive: “La cultura di massa, che contribuisce all’evoluzione del mondo, è anch’essa evolutiva per sua natura. Evolve in superficie secondo il ritmo frenetico dell’attualità, della moda, della voga; evolve in profondità secondo gli sviluppi tecnici e sociali: le tecniche che stimolano la domanda, e la domanda che stimola le tecniche, sono in movimento sul mercato dei consumi culturali. La cultura di massa aderisce a molti più processi evolutivi, e molto più complicati, delle culture imposte per autorità e tradizione, come le culture scolastiche, nazionali o religiose. Ciò che è in evoluzione non può dunque essere tradotto in essenza” (Lo spirito del tempo, Meltemi, Roma 2002, pp. 238-239; ed. or. 1962). L’impressione forte è che Bolter faccia sua la stessa battaglia: raccontare e spiegare un’evoluzione profonda, senza ridurla a un’essenza. Il solo modo di capire tutto l’interesse – e il bello – di quella forza caotica che chiamiamo popular culture.


Fabio Guarnaccia

Direttore di Link. Idee per la televisione, Strategic Marketing Manager di RTI e condirettore della collana "SuperTele", pubblicata da minimum fax. Ha pubblicato racconti su riviste, oltre a diversi saggi su tv, cinema e fumetto. Ha scritto tre romanzi, Più leggero dell’aria (2010), Una specie di paradiso (2015) e Mentre tutto cambia (2021). Fa parte del comitato scientifico del corso Creare storie di Anica Academy.

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Luca Barra

Coordinatore editoriale di Link. Idee per la televisione. È professore ordinario presso l’Università di Bologna, dove insegna televisione e media. Ha scritto i libri Risate in scatola (2012), Palinsesto (2015), La sitcom (2020) e La programmazione televisiva (2022), oltre a numerosi saggi in volumi e riviste.

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