immagine di copertina per articolo Quattro ondate e cinquanta sfumature di flop
Fallimenti

Quattro ondate e cinquanta sfumature di flop

Il flop, nella storia della televisione e nella casistica di ogni giorno, è una parola collettiva, plurale, che raccoglie specificità e traiettorie differenti, spesso contraddittorie. È una matassa da districare.

immagine rivista

Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 24 - Flop. Il fallimento nell'industria creativa del 03 dicembre 2018

Vedi pubblicazione

Non è cosa di cui andar fieri, ma si può dire: la televisione e il fallimento sono, in fondo, strettamente legati. A volte sono intrecciati, altre paralleli, ma flop e piccolo schermo si scontrano e si rincorrono pressoché da sempre. Ed è complicato individuare quale sia nato prima, parafrasando un detto abusato, tra la tv e l’insuccesso. Decidere quali sono i confini. Tendere sempre all’errore è infatti la peggiore condanna della tv e insieme la migliore condizione per apprezzare ancor più quelle volte in cui tutto funziona.

Brevissima storia del flop televisivo italiano

La televisione, di suo, è un medium che scorre via veloce, o almeno così è stato per lungo tempo: la diretta (di produzione o di messa in onda) lega i suoi contenuti in modo forte a un qui e ora, vincolando alla visione immediata e lasciando poche, sporadiche tracce al di fuori; la bassa considerazione verso il mezzo e i costi dell’archivio hanno costretto poi a fare forti selezioni in quanto è stato conservato, in quanto resta accessibile. In un quadro dove anche quello che ha funzionato rischia di sparire (e, per fare un solo esempio, di Portobello o di Pronto Raffaella? restano solo alcune puntate nelle Teche della Rai), la storia del flop televisivo è allora una vicenda doppiamente dimenticata, salvo eccezioni: lasciata da parte perché si preferisce salvare e ricordare altro, quello che funziona, e spesso attivamente trascurata pure da chi ha avuto un ruolo ma vuole cancellare le ombre dal curriculum. Eppure fare un passo indietro evidenzia costanti e cambiamenti, mette le cose in prospettiva, ribalta qualche luogo comune.

Nella storia della televisione americana, i primi grandi flop arrivano subito: il fallimento è un’esperienza costitutiva di network che già dall’inizio si trovano a competere l’uno contro l’altro e devono trovare una quadra, nel passaggio dalla radio al piccolo schermo, sia sul versante dei contenuti e linguaggi sia nella ricerca attiva di un pubblico il più possibile variegato e abbondante. Non vale solo per i programmi: già nel 1956 fallisce un’intera rete nazionale, Dumont, riducendo a tre, per decenni, i grandi network. E a ogni stagione c’è un valzer di tentativi poco riusciti, di cancellazioni in corsa, di mancati rinnovi.

In Italia, come in Europa, almeno all’inizio la situazione è ben più protetta. Il fallimento c’è ma non si vede: negli anni del monopolio e del servizio pubblico trionfante, prima ondata della storia della tv e di quella parallela del flop, trionfa un consapevole oblio, una costante smemoratezza. Talvolta ci sono polemiche, certo, ma spesso ciò che non funziona (o si pensa che non potrà funzionare) resta bloccato in fase di progetto oppure chiuso per anni nei magazzini, senza provare l’ebbrezza della messa in onda; e pure quando qualcosa sparisce dai palinsesti non è mai chiaro se si tratti della fine programmata di un ciclo o di un’interruzione voluta. Le opinioni e il gradimento del pubblico sono registrati, ma non c’è un rapporto immediato, di causa ed effetto, con quanto va in onda: Mamma Rai non sbaglia (quasi) mai.

Serve arrivare alla fine degli anni Settanta, o meglio ancora all’inizio degli Ottanta, per una seconda ondata nella storia italiana del flop tv: ci vuole la concorrenza, che porta anche da noi (pur calmierati) alcuni tratti del modello americano; e ci vuole soprattutto lo scontro tra le emittenti locali prima e i network nazionali poi, impegnati in una lotta fratricida, e quindi quello tra reti private e pubbliche. Il fallimento è ora quello, inatteso, di chi si scopre meno solido di quanto pensava in precedenza, e deve rispondere al contropiede (sui linguaggi, sugli orari); o è il risultato di battaglie e di guerre, ora tattiche e ora strategiche, che si consumano sulla programmazione di ogni sera e si raccolgono attorno ad alcuni titoli evocativi. Dallas approda a Canale 5 e sconfigge il quiz di Raiuno del giovedì (condotto da Emilio Fede), lo scontro diretto tra Uccelli di rovo sull’ammiraglia Fininvest e Venti di guerra sulla Retequattro di proprietà Mondadori vanifica investimenti milionari. Il flop è qualcosa di grande, di importante: non la bassa cucina della programmazione, ma la conseguenza di decisioni e scontri a livelli alti, decisivi.

A cambiare tutto, terza ondata di questa piccola storia, è la stagione 1987-88. Nel 1986 cominciano le rilevazione dei dati di ascolto con Auditel, sistema di riferimento condiviso e reputato valido da tutti gli attori in campo; serve qualche mese per prendere le misure e capire l’impatto di cifre che ogni mattina validano (o meno) le scelte di programmazione, ma il cambio di passo non si fa attendere, in un periodo peraltro di necessaria contrazione delle risorse dopo gli sperperi delle guerre dell’etere. Auditel comincia a essere – e resterà – l’arbitro inoppugnabile di quello che funziona e di quello che invece fallisce, degli investimenti giusti e sbagliati, dei programmi che possono proseguire la corsa e di quelli che devono al più presto fermarsi per contenere le perdite. Festival, esordio di Baudo su Canale 5 dopo un contratto milionario, è presto rubricato come fallimento (ma fa sorridere, con il senno di poi, leggere la veemenza con cui si definì sbagliato un programma che raggiungeva il 31% di share…); simile sorte tocca all’altra star strappata da Berlusconi alla tv pubblica, Raffaella Carrà con il suo Show. Ewiva, varietà di Terzoli e Vaime con Milly Carlucci su Canale 5, chiude le serrande dopo due puntate ritenute non soddisfacenti. 

A cambiare tutto è la stagione 1987-88. Auditel comincia a essere – e resterà – l’arbitro inoppugnabile di quello che funziona e di quello che invece fallisce, degli investimenti giusti e sbagliati, dei programmi che possono proseguire la corsa e di quelli che devono al più presto fermarsi per contenere le perdite.

E il furore del flop non risparmia nemmeno la Rai, e i venerati maestri, con il clamoroso flop dell’annuale varietà di Antonello Falqui, che non arriva a conclusione. È un vero terremoto: le regole del successo e del fallimento sono cambiate, diventano “scientifiche”, coinvolgono i nascenti dipartimenti marketing e sofisticate elaborazioni. Alla timidezza subentra l’entusiasmo, e presto il dettame mattutino dei dati di ascolto è l’unica legge, la moneta corrente dell’industria, lasciando sul campo vittime eccellenti: autori, conduttori, format. Non è un caso, allora, che gli anni Novanta della tv italiana siano l’ultimo grande serbatoio in cui si è creato un immaginario condiviso di massa, forgiando duraturi successi e insieme sancendo memorabili flop (dal Fantastico con Montesano agli inciampi di Fiorello, Ambra, Baudo, etc.).

Con il cambio di millennio, con la pay tv e il multichannel digitale, con la moltiplicazione delle offerte e piattaforme e la compiuta convergenza che porta la televisione dappertutto, con l’abbondanza di testi e narrazioni e la scelta sempre disponibile dell’on demand, gli strascichi della terza fase si mescolano a una quarta ondata nel rapporto tra la televisione italiana e il flop. Le cose cambiano, ancora una volta. La linearità della scienza, dei dati e del marketing lascia il posto (nel dietro le quinte e nei comunicati stampa) a considerazioni sempre relative. La ricchezza di proposte diluisce l’impatto del singolo errore. Si prova, si sbaglia, si dimentica. Da un lato, la televisione fa tesoro di quanto ha imparato sul fallimento lunga tutta la sua storia, in una sincronia di considerazioni appartenenti a fasi diverse, e i flop insieme aumentano di numero e perdono di intensità. Dall’altro, sono proprio i player più innovativi (si pensi a Netflix) a far loro quel consapevole oblio che caratterizzava la Rai degli inizi, nascondendo i valori assoluti e affidando solo a una raccolta attenta di indizi la “prova” di uno sbaglio (o un successo).

Una possibile tipologia

1. Flop endogeni

Manifesto o nascosto, rumoroso o in sordina, il flop accompagna tutte le evoluzioni della televisione, italiana e internazionale. Non ci sono regole valide per sempre, e nel corso degli anni emergono contraddizioni e forti casualità. La stessa parola, flop, è spesso uno stratificato termine-ombrello e da lì si può partire allora per tentare di articolare una tipologia, un elenco di fattori. 

Una prima macro-categoria è quella dei flop che si possono definire endogeni. In questo caso il problema sta nella carne viva del singolo programma, nella sua materia concreta: sono fallimenti che derivano (in tutto o in parte) dal contenuto, dalla sostanza testuale di quanto è proposto al pubblico tv, dal prodotto. Sono i programmi che tentano di rispondere a domande, questioni e bisogni ma in cui però, per citare l’indimenticabile Quelo di Corrado Guzzanti, “la risposta è dentro di te, epperò è sbagliata”. Non è un’attribuzione di colpa – questa si può collocare in ogni fase del processo, dall’ideazione alla realizzazione e alla messa in onda, o in tutte le fasi assieme –, ma qualcosa è andato storto e le cicatrici, almeno in parte, si vedono. La casistica è ampia e variegata. Per giunta, spesso a condurre all’insuccesso sono fattori tra loro opposti: quegli estremi che a volte funzionano e a volte, rumorosamente, no.

Allora un programma può essere considerato “troppo nuovo”, più innovativo del dovuto, e il pubblico televisivo – che crede di volere la novità ma spesso cerca una più pigra rassicurazione – non lo capisce fino in fondo, lo rifiuta trovandosi di fronte un muro che pare insormontabile. E al tempo stesso il programma fallisce se è “troppo poco nuovo”, quando indulge su elementi troppo rassicuranti, che non fanno neppure finta di cercare strade differenti. Più che l’assoluta novità o ripetizione, è la miscela sapiente (o fortunata) di questi due elementi a impedire un flop. Una sottospecie collegata si ha se il programma sembra “già visto”, se è troppo ispirato (non in senso buono) a qualcosa che ha trovato in precedenza e altrove il suo spazio sull’etere: è vero che una tv fatta di format è (sostiene Albert Moran) una copycat television, fatta costitutivamente di copie, ma meglio non esagerare. Non sono state le grane legali di Baila o il cambio di rete per Fattore C di Bonolis a offuscare dei potenziali successi, ma più probabilmente un’aria di famiglia fin troppo evidente con altri programmi già in onda. Per gli spettatori, allora, tutto il resto è noia.

Non va bene fermarsi a una gratuita dimensione valutativa, specie se non radicata in un’argomentazione compiuta, in un’analisi precisa, ma quando si parla di fallimenti tv bisogna prendere in considerazione anche che il fatto che il programma possa essere “brutto”. Questo non vuol dire compararlo a qualche ideale estetico, inevitabilmente soggettivo, variabile nel tempo e nello spazio, ma riconoscerne almeno la mancata aderenza alle regole del gioco, a un insieme di valori e norme produttivi. A fallire (ma non sempre) è un programma “fatto male”. Si può sbagliare con le risorse umane: autori blasonati che non si mettono in gioco fino in fondo, conduttori poco adatti al format (L’anello debole) o in fasi appannate della loro carriera, un casting di ospiti o di concorrenti da cui si ricavano pochi inneschi narrativi. Si può inciampare, in generi come quiz e reality, per il meccanismo di gioco troppo macchinoso e cervellotico, difficile da comprendere in pochi attimi per un pubblico già con il telecomando in mano, o per una struttura tensiva che invece di crescere puntata dopo puntata cala inesorabilmente (Unan1mous). Si può esagerare con la complessità narrativa di molte serie tv “di qualità”, e allora si riscontra uno squilibrio tra il piacere di riannodare i fili della storia e la frustrazione di non riuscirvi, o si comprende ben presto che un simile sforzo non valga affatto la pena (si pensi ai numerosi, auto-proclamati, “nuovi Lost”).

A volte è una questione di genere. Che può non funzionare in assoluto – si pensi alla resistenza italiana verso la sitcom, salvo eccezioni sporadiche – o trovarsi in una fase di stanchezza o sovraffollamento – toccata a turno al quiz, ad alcuni brand di reality, all’ennesimo cooking show. Altre la colpa è del destinatario implicito nel programma, quello che i semiologi chiamavano spettatore-modello, che va a definire un insieme vuoto, o non adeguato: ora lo show è “troppo largo”, e allora non si capisce bene a chi stia parlando, altrove è invece “troppo stretto”, e quindi il bacino di audience è limitato dall’inizio, e magari non si raggiunge nemmeno appieno. Il flop può pure essere legato alle condizioni di produzione. Ancora una volta non c’è una strada giusta, solo quella che si rivela adatta: vincoli e regole stringenti possono limitare la creatività, ma anche l’assenza di confini e una libertà eccessiva, una briglia troppo sciolta, possono avere effetti negativi, visto che uno schema, un sistema a cui riferirsi è necessario.

2. Flop esogeni

Una seconda macro-categoria del flop televisivo si può indicare come esogena. Qui conta quello che sta fuori, intorno e dietro al singolo programma, indipendentemente da forme e contenuti: il contesto, lo scenario, il quadro più ampio in cui ogni testo è collocato. È il riscatto di una verità troppo spesso dimenticata: la televisione, come più in generale il broadcasting, è un mezzo espressivo dove la distribuzione conta spesso molto di più della produzione, il palinsesto molto più dei programmi.

Da questo punto di vista, il fallimento può derivare dalla competizione, dalla lotta con le altre reti per conquistare una risorsa scarsa e cruciale come il tempo e l’attenzione degli spettatori. Il programma può essere “lanciato poco”, e allora non saranno in molti ad accorgersi della novità, oppure “lanciato male”, se collocato in slot orari, giorni e stagioni poco adatti o se obbligato a confrontarsi con altri titoli solidi e più assestati. In teoria le elaborazioni di marketing dovrebbero servire a individuare le condizioni più felici per l’incontro tra il programma e la sua audience, ma l’errore (o la necessità, ubi maior) sono dietro l’angolo. Collegati a doppia mandata a questo tema sono sia, da un lato, l’identità della rete – che può essere brillante oppure opaca, e trasferire tale valore su ogni programma proposto al pubblico, nel bene o nel male – sia, dall’altro, la promozione – che può essere poca oppure troppa (quando poi all’attesa, all’aspettativa e all’hype che si vengono a creare non corrisponde una proposta all’altezza, con conseguente delusione).

Il fallimento può derivare dalla competizione, dalla lotta con le altre reti per conquistare una risorsa scarsa e cruciale come il tempo e l’attenzione degli spettatori. Il programma può essere “lanciato poco”, e allora non saranno in molti ad accorgersi della novità, oppure “lanciato male”, se collocato in slot orari, giorni e stagioni poco adatti o se obbligato a confrontarsi con altri titoli solidi e più assestati.

Se si considera lo scenario più ampio dove si colloca il programma, come l’intera proposta di una rete o di una piattaforma, il panorama competitivo di una sera o una stagione, il passo successivo è mettere in relazione il flop con un quadro di riferimento: il fallimento allora non è più assoluto, dentro o fuori, on e off, ma relativo, per così dire proporzionato. Per esempio, il flop è tale (o meno) in rapporto ai costi sostenuti, agli investimenti portati avanti da rete e casa di produzione: se sono stati spesi molti soldi, le attese sono inevitabilmente maggiori; se un programma low cost si rivelerà un tentativo fallito, la macchia non sarà altrettanto indelebile (e si può sempre ripiegare sulla sperimentazione…). E lo stesso vale in rapporto agli obiettivi di rete, alle attese formulate con regolarità da editori e concessionarie di pubblicità: diversamente da quanto potrebbe apparire sfogliando i giornali, accumulare tanto pubblico indistinto non è fondamentale (anche se certo non guasta), mentre è più utile incontrare il target giusto, posizionarsi adeguatamente nel quadro dell’offerta di contenuti, ritagliarsi uno spazio preciso entro una proposta abbondante, dove altre reti alleate “copriranno” pubblici e necessità differenti.

Rispetto alla temperie socio-culturale che circonda la sua messa in onda, un programma che fallisce può essere sia “troppo avanti”, in anticipo rispetto a un indefinibile spirito del tempo (e magari rivalutato poi), sia “già in ritardo”, se l’elaborazione e la realizzazione arrivano dopo l’istante in cui sarebbe stato perfetto (e magari, anche in questo caso, anticipato da altri programmi, non necessariamente migliori). Ci sono gli insuccessi della critica, magari accompagnati da ali di folla plaudente, che però impediscono a reti e produttori di appuntarsi al petto etichette di qualità, premi e altri simboli di distinzione dalla massa informe della programmazione tv. E ci sono i brucianti insuccessi di pubblico, inappellabili perché (almeno apparentemente) oggettivi, con lo spettatore – quello vero, stavolta – che non perde occasione di dimostrarsi piuttosto conservatore, stabile nelle attese, statico nelle abitudini. 

3. Flop longitudinali

Uno dei tratti distintivi della televisione infine, è la sua dimensione seriale. E allora una terza macro-categoria degli insuccessi televisivi ha a che fare con l’articolazione del ciclo di vita dei programmi (e non solo), con la longitudinalità della programmazione. Ancora una volta si consuma un paradosso: da una parte, il prolungamento della vita di uno show è uno dei modi che consentono di evitare altri flop, in qualche modo andando sul sicuro e proseguendo quanto già sperimentato in precedenza; dall’altra, però, al tempo stesso questa vita più lunga del singolo prodotto lo espone a nuove molteplici occasioni di flop.

A volte, già lo si è detto, si guarda indietro e si rivaluta quello che alla sua prima messa in onda appariva un fallimento, riconfigurato (soltanto ex post) come esperimento interessante, come spinta a innovare, come tentativo di “buttarsi” per vedere l’effetto che fa. Una cambiale, da riscuotere in seguito per i volti e i professionisti coinvolti (mentre case di produzione e broadcaster sono meno felici…). In altri casi, il successo e l’insuccesso seguono traiettorie imprevedibili, ondivaghe, difficili da razionalizzare.

Ci sono i flop solo “apparenti”, nel tempo o nello spazio. Nel primo caso, il tempo, sono programmi che cominciano male, inciampano, ma poi – se si insiste abbastanza a lungo con l’idea, se si “registra” e mette a punto la sua realizzazione – danno frutti sul medio e lungo periodo, con traiettoria ascendente. Servono attenzione, pazienza e cura, e a volte è necessaria una vera e propria ri-partenza, sotto diverse spoglie: si pensi a L’isola dei famosi, che introduce celebrità e diretta a partire dall’insuccesso di Survivor, o dell’inciampo firmato De Filippi di Vero amore, poi ribrandizzato e fatto crescere in estate, fino a farne un perno importante della programmazione di Canale 5, con Temptation Island. E pure nel secondo caso, lo spazio, il programma che non trova un’accoglienza buona nel Paese di origine (nessuno è profeta in patria…) può rifarsi, se il modello è forte, sui mercati globali e negli altri Paesi in cui sarà adattato. 

Ovviamente, anche stavolta vale pure il contrario: non ci sono rendite di posizione. Per quanto produttori e distributori si sforzino di ridurre il rischio, il successo altrove di un format già testato non è mai garantito. Le firme e i volti che hanno sancito un successo su altri media (dalla letteratura alla radio, dalla canzone al web) non portano necessariamente con loro un’aura di infallibilità televisiva. E la lunga durata invece che occasione di riscatto può diventare ragione di insuccesso: a volte il programma (il conduttore, il meccanismo, la narrazione) si ritrova semplicemente esausto, trascinandosi stancamente e perdendo terreno fino a superare una soglia, un punto di non ritorno; con altre trasmissioni sono invece le condizioni intorno a mutare, sul medio-lungo periodo, e proprio ciò che rendeva timely il programma in prima battuta ne determina successivamente l’inevitabile condanna (il tempo fugge…). 

Ci sono la tenacia – per esempio, sono serviti numerosi tentativi dai risultati modesti, con coppie e con adulti, per transitare dal successo del talk giovanile Amici a quello di Uomini e donne, e vari cambi graduali o brutali –, la fedeltà di un pubblico che va blandito e coltivato, i minimi tentativi di razionalizzare processi e modelli che restano in buona parte irrazionali. Ci sono le esplosioni visibili, fragorose, e tutti gli inciampi tenuti nascosti, annegati nei fiumi di parole dei comunicati stampa o desumibili, anche in assenza di dati, dalla scelta di release in una finestra estiva o dal mancato rinnovo di una serie. E poi c’è senz’altro, e forse soprattutto, la fortuna di “imbroccare” il programma giusto al posto giusto – o, ça va sans dire, la sorte malaugurata di non azzeccare tutta la complessa miscela di elementi in gioco.

Se uno tenesse davvero in considerazione attenta tutti questi fattori, nell’ideazione di un programma o nella sua realizzazione, nella scelta collocarlo in palinsesto o nella pianificazione promozionale, si ritroverebbe bloccato, senza potersi muovere, senza poter fare nulla. Troppi sono i dati da considerare, troppi i fattori da allineare, troppe le variabili che possono cambiare. Eppure l’industria procede, eppure il pubblico ritrova un’abbondanza di contenuti per tutti i gusti, meglio o meno riusciti. Di fronte a un mondo impreciso, si va di approssimazione, di stime raffazzonate, di tentativi inesatti. Ci vogliono la conoscenza, il mestiere, la pancia… e poi serve l’allinearsi degli astri. Di tutte quelle condizioni spesso necessarie ma per nulla sufficienti che, in modo spesso inappellabile, distinguono il successo dal flop.


Luca Barra

Coordinatore editoriale di Link. Idee per la televisione. È professore ordinario presso l’Università di Bologna, dove insegna televisione e media. Ha scritto i libri Risate in scatola (2012), Palinsesto (2015), La sitcom (2020) e La programmazione televisiva (2022), oltre a numerosi saggi in volumi e riviste.

Vedi tutti gli articoli di Luca Barra

Leggi anche

immagine articolo Un giorno in pretura su TikTok
immagine articolo Chi tardi arriva
Rivoluzione Late Night

Chi tardi arriva

Restiamo in contatto!

Iscriviti alla newsletter di Link per restare aggiornato sulle nostre pubblicazioni e per ricevere contenuti esclusivi.