La “cucina” del reality e del talent show richiede di dosare gli ingredienti giusti, dal casting al montaggio. Peppi Nocera ci racconta i suoi segreti.
Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 19 - Gente dovunque del 12 novembre 2015
Peppi Nocera non è un autore tv, è un’istituzione. Bastano pochi cenni alla sua carriera per accorgerci che, anche senza saperlo, tutti abbiamo visto un mucchio di “cose sue”. Ha scritto i testi delle canzoni di Non è la Rai e i singoli di Ambra. Ha lavorato a Stranamore, Matricole, Meteore, Bigodini, portando in televisione la gente qualsiasi e i vip che non si ricordavano più di esserlo stati. Ha inventato Il brutto anatroccolo e l’ha esportato anche in Spagna. Ha fatto Saranno famosi e le prime edizioni di Amici con Maria De Filippi, ha traghettato X Factor dalla Rai a Sky, ha seguito tutte le edizioni de L’isola dei famosi. Lavora per Magnolia in modo stabile, ed è “nella cucina” anche di Bake Off Italia. Lo abbiamo incontrato per capire come funziona il suo lavoro, in che modo si tratta la gente in tv e quante cose sono cambiate negli ultimi anni, sia nelle persone comuni che finiscono in onda sia nel delicato lavoro dell’autore.
Nei reality le cose vengono fatte accadere, ma quello che accade deve accadere per davvero.
Nel corso delle puntate di UnREAL, serie di Lifetime ambientata dietro le quinte di un reality, accade quello che tutti gli autori di un programma così temono: il suicidio di un personaggio. Le atmosfere di UnREAL, quel senso di disagio somatizzato nello stomaco, le ho vissute anch’io, perché quando lavori a un programma temi sempre che possa succedere qualcosa di terribile. Dove si può agire? In fase di casting, dove vanno scelte le persone giuste. È vero che i personaggi di questo tipo di programmi devono essere borderline, ma si deve riuscire a capire, attraverso la propria intelligenza emotiva, fin dove possono arrivare. È fondamentale che stiano sul crinale ma che non lo superino, altrimenti salta tutto. Molte volte ho dovuto accapigliarmi con gli psicologi sulle scelte per il casting de L’isola dei famosi: loro stilano profili in base ad alcuni parametri e a volte sconsigliano fortemente una persona perché troppo instabile, ma in realtà poi succede tutt’altro, o altre volte ancora segnalano persone all’apparenza molto interessanti che invece si rivelano un fiasco. Spesso ci siamo presi dei rischi e alla fine abbiamo avuto ragione.
Ci puoi fare un esempio?
Nella sesta edizione del L’isola dei Famosi io e Simona abbiamo lottato per avere quel ragazzo romagnolo che mangiava solo banane [Carlo Capponi, ndr] e che gli psicologi ci avevano fortemente sconsigliato di prendere. Ci avevano detto che non andava assolutamente bene, che se ne sarebbe andato e avrebbe combinato casini: invece lui si è creato la sua parte da solo. Anche perché una volta che le persone sono state selezionate non puoi più fare niente: sono là in Honduras, vengono ripresi dalle telecamere e non si può intervenire più di tanto.
Quali aspetti bisogna considerare, oltre al casting?
Per fare un unscripted giusto devi partire dalla base, avere dei “loggisti” molto efficaci: hai a disposizione un’infinità di ore di girato, che davvero non ti ci raccapezzi più, e in queste ore anche una piccola sfumatura può diventare una storia, può spingerti a seguire un aspetto del tal personaggio che svolta il programma. Chiaramente non puoi seguire tutto, per questo servono logger bravissimi che ti indichino esattamente quello che succede e facciano una sorta di prima scrematura.
Posso fare un esempio? Ho appena finito di girare la terza edizione di Bake Off Italia. Durante le riprese ho di fronte a me il monitor, ho all’auricolare i due giudici e la Parodi e c’è un copioncino striminzito da seguire, che per esempio dice cose come “La prova creativa di oggi è la Saint Honoré, e vi ricordo che subito verrà eliminato un concorrente…”. In corso d’opera, suggerisco a un giudice di andare da un concorrente e di dirgli qualcosa, ma nel frattempo da tutt’altra parte sta succedendo qualcos’altro che per questioni tecniche non posso seguire, visto che si registra tutto insieme. Ci sono allora loggisti e redattori che seguono gli altri pasticceri, li filmano e fanno loro domande. Sono loro a dirmi che “Gino si è arrabbiato perché non è montato l’albume e ha paurissima di essere eliminato”, e sono sempre loro che a fine prova intervistano ogni concorrente per comprendere meglio i punti critici della puntata. Nell’arco di un’unica registrazione ci sono molte finestre che si aprono e bisogna capire cosa scegliere e cosa scartare affinché il programma abbia ritmo. Ci sono anche molte sfumature relative alla competizione tra i concorrenti, che possono venire da un confessionale di cui io non so nulla perché non sono fisicamente presente in quel momento, dato che nel frattempo stiamo girando altro. Solo alla fine della registrazione, quindi, hai un sentimento su come impostare tutta la puntata, su quale direzione dovrebbe prendere la storia. L’altra cosa fondamentale è poi il montaggio. È semplice: chi ha un montatore bravo in genere fa programmi belli.
Un esempio di unscripted puro, però, che non ha bisogno di montaggio e non ha bisogno di niente è Uomini e donne. Maria punta l’orario, inizia e finisce, tutto il resto lo fanno i suoi personaggi. L’intervento di Maria vira di una virgola a destra e di una virgola a sinistra perché sa che poi succederà esattamente quella cosa. Capisce perfettamente la personalità di chi ha davanti e ha redattori bravissimi che le raccontano tutto quello che succede tra i protagonisti, scoprono anche quelle dinamiche che avvengono al di fuori del programma e gliele riportano, e lei usa tutto per inscenare qualcosa di pazzesco. È un programma molto onesto.
Ci interessa capire come lavori per “far accadere le cose”.
Le cose più succulente non te le posso raccontare. Mi è capitato di far piangere un concorrente perché era poco empatico. Aveva più di una chance di vincere il talent, ma cantare bene non basta. Ero a conoscenza di alcuni suoi trascorsi familiari piuttosto delicati, e sono stato incaricato di usarli per farlo piangere. Lì stai usando qualcuno perché sei sicuro che questo creerà un momento televisivo molto intenso, ma lo fai anche perché conosci i meccanismi televisivi e sai che se piangerà avrà molte più possibilità di vincere. In fondo a me, come ai produttori, non interessa tanto che vinca uno o l’altro, e in ogni caso chi arriva alla fine se l’è meritato. Anche con i giudici di X Factor inizialmente usavamo queste tecniche: andavamo dal giudice x, gli facevamo le domande sul giudice y, e poi andavamo dal giudice y a dirgli “guarda cosa dice il giudice x di te!”. Volevamo creare frizioni e competizioni. In questo caso ti senti più tranquillo a fare queste cose, perché stai lavorando con gente dello spettacolo e tutti sanno che fa parte del gioco. Mentre con i ragazzi è più delicato.
Parlando di X Factor, come lavorate partendo dal cappello generale del talento per costruire le storie dei vari protagonisti?
Fino a due stagioni fa ho fatto i casting con Magnolia, e mi ricordo che era molto difficile, perché lì si punta su qualcuno perché ha una bella voce e ha una storia particolare. Non capita quasi mai di puntare fin dall’inizio su un personaggio che poi viene scelto alle home visit. O la fai sporca e a tavolino decidi che un ragazzo ha una bella voce, una storia terribile alle spalle, una vicenda di riscatto e quindi arriverà in finale, ma per quanto ricordi non è mai successo; e allora ti affidi ancora una volta al caso, a quello che accade date alcune condizioni di partenza. Io, per fare un esempio, cercavo soprattutto le voci, mentre altri colleghi come Paola Costa cercavano le storie, e spesso discutevamo su chi scegliere. C’è sempre l’incognita dell’audience dal vivo, che può applaudire oppure no. Chiaramente al giudice si può consigliare di scegliere qualcuno anche per la sua storia drammatica, ma francamente credo che la gente ormai non ne possa più di questo tipo di storie…
Quindi: si arriva alla fine delle selezioni con i personaggi e con le storie e i potenziali sviluppi. E poi da lì si lavora…
Sì, si lavora di più sulle storie. Se prendi Amici e X Factor, la differenza all’inizio era che Maria spostava tutto da un’altra parte, concentrava tutta l’attenzione sulla competizione tra i giudici. Per chi fa questo lavoro francamente è meglio, fa venire meno sensi di colpa rispetto a puntare tutto sul dramma di un diciannovenne. Se ci fai caso, nei daytime di X Factor invece non è che succedano cose particolari…
Nelle prime edizioni di X Factor forse qualcosa in più succedeva, basti pensare a Mengoni e a come si è costruito il suo personaggio.
Sì, però è costruito solo fino a un certo punto. Ho fatto il pazzo per avere Marco, perché inizialmente l’ho visto e non gli avrei dato una lira, ma quando l’ho sentito cantare ho capito che era davvero bravo. Ho dovuto litigare con Morgan, perché Mengoni era molto timido, chiuso e faceva dei provini buoni ma non così spettacolari da arrivare in finale. Morgan non era assolutamente convinto e devo dire che ho parecchio insistito perché lo prendesse. In ogni caso se sei bravo, sei bravo: ha trovato me che ho insistito, magari dopo due anni avrebbe trovato qualcun altro. Il percorso di Marco interno al talent si è sviluppato grazie al fatto che Morgan non era convinto fino in fondo delle sue capacità, così era volutamente polemico e cattivo con lui e lo sfidava continuamente, anche perché sapeva bene che l’attrito tra giudice e ragazzo avrebbe dato i suoi risultati. Poi Mengoni è esploso da solo, anche se l’atteggiamento di Morgan nei suoi confronti lo ha aiutato, ha creato un senso di rivalsa.
Una volta selezionati i concorrenti, come avviene nel day-by-day il lavoro dell’autore televisivo? C’è un progetto in testa, una direzione da far prendere?
Non voglio banalizzare tutto, ma è davvero come tirare i dadi e vedere poi quello che succede. Anche sull’Isola ci sono molte ore in cui non accade nulla, sette ore di gente che prende il sole e basta. Là fai molto forza sulle privazioni oggettive. C’è ancora questo dubbio per cui la gente pensa che in realtà diamo da mangiare ai concorrenti, ma assolutamente no, non lo facciamo, altrimenti non succederebbe nulla! Essenzialmente quindi si tratta di tirare i dadi e cogliere quello che può succedere in prospettiva, e contemporaneamente ciò che piace al pubblico. Nell’ultima edizione abbiamo introdotto la playa desnuda e l’idea del paravento delle buone maniere, nato dall’esigenza di non fare vedere nulla in prima serata, è stata ottima perché ha avuto un forte effetto comico. Ogni anno si deve solo mettere una cosina piccola in più nel programma, per cambiarlo un po’.
Mi è capitato di far piangere un concorrente perché era poco empatico. Aveva più di una chance di vincere il talent, ma cantare bene non basta.
Nel mondo dei reality e dei talent, in cui la gente comune si mette a far cose in televisione senza avere una preparazione specifica, ci sei da tantissimo…
La cosa più bella, che ricordo con piacere, è quando abbiamo fatto Il brutto anatroccolo, perché era una declinazione in prima serata di un segmento che avevo visto in America negli show pomeridiani. Sono tornato, ne ho parlato con Sabina Gregoretti e abbiamo deciso di farne un programma di prima serata, un misto tra tutorial e life changing. Succedevano cose esilaranti perché spesso finivamo per imbruttire le persone. È un bell’esempio: portavi la gente comune in tv, te ne approfittavi, ma in fondo nel tentativo di cambiargli in qualche modo la vita. Ognuno aveva il suo potenziale estetico e noi lo realizzavamo.
Dal punto di vista dell’autore, ci sono differenze tra come era trattata la gente comune in un programma come quello e come viene trattata oggi? Intendo nella costruzione delle storie…
Gli affari personali degli altri allora erano molto più una novità, e dovevi essere molto didascalico e preciso nel racconto. Anche la più piccola rivelazione sulla vita di una persona era una cosa che non si vedeva facilmente. Oggi il pubblico è molto più sgamato e quindi devi alzare il tiro, si devono cercare storie più impressionanti e al di fuori del normale, per esempio le storie di persone con deformazioni fisiche…
Quali sono allora i nuovi territori da battere? È stato esplorato moltissimo di questo mondo…
Francamente non lo so: si continuerà con singole idee molto forti, che poi si possano declinare in una serie. E queste declinazioni secondo me sono infinite… Mi è piaciuto fare Così lontani così vicini, che ha declinato C’è posta per te sul solo ritrovamento, basato su fratelli che si cercano o figli che cercano madri. A volte basta che uno dei soggetti sia fortissimo, come la prima storia della prima puntata, nella quale un fratello cercava disperatamente la sorella da cui era stato separato alla nascita. Mi ricordo che mi arrabbiai tantissimo perché andai a conoscere la sorella e la trovai fredda, era una camionista che faticava a mostrare i propri sentimenti, ed ero convinto di sprecare soldi e tempo perché sapevo che lei non avrebbe mai pianto. Ma in realtà poi ha fatto tutto il fratello, che aveva tantissima voglia di incontrarla ed è così riuscito da solo a creare un fortissimo climax emotivo.
Come è cambiato il lavoro dell’autore nelle routine quotidiane?
I programmi di oggi, avendo budget più risicati, sono anche più semplici. Hai un’idea unica che sviluppi con un piano di produzione molto impegnativo quando vai a girare: devi assolutamente ottimizzare i costi. È tutto pianificato prima, è un po’ meno adrenalinico, c’è meno scrittura. Prima scrivevo copioni e adesso l’unico copione che mi resta da scrivere è quello de L’isola dei Famosi. Per il resto non scrivo, il copione si è tramutato in una scaletta con i lanci, per esempio dei brani di X Factor.
Il tuo lavoro diventa un po’ più quello di uno psicologo…
A X Factor la difficoltà era creare una playlist che potesse dar risalto al singolo cantante e che allo stesso tempo rispecchiasse i gusti del pubblico. E le scelte dei giudici non si dovevano sovrapporre tra loro. Il patteggiamento di questa playlist era fonte di infinite ore di lavoro, altro che psicologia! Un po’ mi trovo in imbarazzo, perché mi sembra di fare un lavoro dove non si fa niente, ma in realtà è tutta questione di mantenere il calore e l’atmosfera giusta in un dato programma, e di essere pronto a cambiare immediatamente se quello che ti eri prefissato non funziona. Si insiste fino a un certo punto, ma non sono più quei tempi in cui ci si può permettere di provare a lungo, bisogna tenere in considerazione le tempistiche e il budget. Diciamo che, dato un formato x, un buon casting, la scelta degli eventi che poi creeranno un’orizzontalità al programma stesso, dei bravi loggisti e poi successivamente un montaggio fatto molto bene sono, in genere, gli ingredienti della ricetta di un programma di successo. Non si può nemmeno manipolare troppo, altrimenti si vede.
Fabio Guarnaccia
Direttore di Link. Idee per la televisione, Strategic Marketing Manager di RTI e condirettore della collana "SuperTele", pubblicata da minimum fax. Ha pubblicato racconti su riviste, oltre a diversi saggi su tv, cinema e fumetto. Ha scritto tre romanzi, Più leggero dell’aria (2010), Una specie di paradiso (2015) e Mentre tutto cambia (2021). Fa parte del comitato scientifico del corso Creare storie di Anica Academy.
Vedi tutti gli articoli di Fabio GuarnacciaLuca Barra
Coordinatore editoriale di Link. Idee per la televisione. È professore ordinario presso l’Università di Bologna, dove insegna televisione e media. Ha scritto i libri Risate in scatola (2012), Palinsesto (2015), La sitcom (2020) e La programmazione televisiva (2022), oltre a numerosi saggi in volumi e riviste.
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