Il consiglio di Natale di Link è di guardare o riguardare il documentario di Peter Jackson sui Beatles. E le otto ore in cui il cinema e il documentario hanno incontrato la reality television.
Le 56 ore girate nel gennaio 1969 per un documentario sulla creazione di Let It Be – e sul concerto che doveva coinvolgere il gruppo più importante del mondo dopo che da anni aveva deciso di non esibirsi più dal vivo – non avevano nessun senso se non in televisione. Ridotte a un’ora e mezzo, a due ore o anche a tre ore, in un documentario per il cinema, sarebbero state il riassunto di qualcosa di noioso e soprattutto già noto. Non c’è nulla in quelle 56 ore mai pubblicate prima che non sia noto, raccontato e sviscerato. E in un certo senso avrebbero probabilmente avuto poco senso anche nella tv classica, che è una delle ragioni per cui non sono mai state divulgate finora. Nessuno occupa un palinsesto così a lungo con qualcosa di così specifico e soprattutto, sulla carta, così noioso. I Beatles ripresi mentre non sono i Beatles.
Conversazioni ordinarie e quotidiane, molte cortesie, tè bevuto e poi canzoni abbozzate. Quel materiale non ha niente della messa in scena televisiva della musica, non ne ha il montaggio accattivante, e non risponde alle regole della sua spettacolarizzazione, né di quella classica (non c’è palco, non ci sono luci) né di quella moderna (non c’è arena, pubblico dal vivo o prestazione). È un girato generico, che non avrebbe alcun interesse se non riprendesse le conversazioni tra quelle quattro persone lì in quel preciso momento storico, in cui l’apice creativo incrociava l’abisso dell’armonia tra i membri. Quelle 56 ore, ridotte a 8, hanno un linguaggio che assume un senso solo su piattaforma e nell’ecosistema dei consumi moderno, in cui la serialità documentaria è un successo e una parte ampia del pubblico ha confidenza con il reality e il talent show.
Linguaggio televisivo
Get Back come lo conosciamo è in questo senso un prodotto dell’evoluzione del linguaggio televisivo e delle piattaforme, un documentario che attira lo spettatore-esploratore, che fa in modo di stimolare nella visione una ricerca continua delle espressioni, degli anfratti e dei segreti della creatività e delle relazioni umane. Lo fa con espedienti sottili e garbati, usando le sovrimpressioni e qualche fuga di montaggio su materiale di repertorio attraverso cui Peter Jackson ci spiega il contesto, mette il pubblico al corrente di cosa sia quello di cui si parla, lo rende partecipe delle conversazioni. Sempre sul pezzo, lo spettatore in Get Back è libero di non ricevere solo il contenuto, come nei documentari, ma può cercarlo nelle immagini come nei reality, cerca la storia che non c’è per poter completare quella che già sa.
C’è un concerto pianificato in modi sempre più iperbolici ma che sappiamo già dove finirà; c’è una crisi tra i membri che si ricuce ma sappiamo bene a cosa porterà; ci sono delle canzoni che mancano, sono solo abbozzate ma che sappiamo cosa diventeranno. Sappiamo tutto, e il piacere sta nel vedere come avvengono le cose, scoprendo un’ordinarietà che fa a pugni con il mito. I Beatles abbandonati in un teatro di posa, in un angolo a creare stancamente su sediacce di legno probabilmente scomode. I Beatles a parlare delle notizie del giorno. I Beatles che si illuminano solo quando suonano canzoni di altri. I Beatles che ricevono la visita di Peter Sellers. Lennon e McCartney che non suonano praticamente mai insieme le canzoni di Lennon e McCartney.
È un girato generico, che non avrebbe alcun interesse se non riprendesse le conversazioni tra quelle quattro persone lì in quel preciso momento storico, in cui l’apice creativo incrociava l’abisso dell’armonia tra i membri. Quelle 56 ore, ridotte a 8, hanno un linguaggio che assume un senso solo su piattaforma e nell’ecosistema dei consumi moderno, in cui la serialità documentaria è un successo e il pubblico ha confidenza con il reality e il talent show.
È una narrazione che non segue le regole solite, ma una in cui ogni informazione va colta invece che essere presentata e che anche per questo ci spinge a scrutare. A scrutare il mistero della creatività prima di tutto. Come nasce un’idea per un concerto che ha fatto storia? Come nascono le canzoni più memorabili del Novecento? Come si può creare qualcosa di così amato? Qual è il momento che fa la differenza e che sarebbe impossibile per chiunque altro?
Illusione e creatività
La risposta è frustrante e coinvolgente al tempo stesso. Get Back è l’illusione della reality tv ai massimi livelli, un documentario che fa guardare i suoi soggetti come fossero dentro il Grande fratello o a un qualsiasi talent in cui si registrano le sessioni di prova. L’illusione sta nel presentarli ordinari e sguarniti, nudi davanti all’obiettivo (ma c’è un montaggio e c’è la supervisione di Paul McCartney, come è stato spiegato molto bene siamo lontani dal realismo e vicini all’impressione di realismo). Attirati da immagini di fine anni Sessanta che rispondono all’estetica della tv dei reality indaghiamo il mistero della creatività e dei rapporti personali. Si cercano sguardi di intesa, di rabbia, parole passivo-aggressive per capire chi sbagliava, chi esagerava, di chi è la colpa, perché Yoko Ono sta sempre lì? L’effetto buco della serratura sarà poi amplificato dalla presenza di un audio registrato di nascosto, l’audio fine-del-mondo nel quale Lennon e McCartney si confrontano con il massimo dell’onestà sulle reciproche colpe.
Ovviamente nessuno trova nulla che non si sapesse già. Il mistero della creatività rimane tale e anzi è ridotto nella sua ordinarietà, le canzoni prendono forma nella maniera più banale, provando una soluzione e poi provandone altre, tenendo quelle convincenti invece di quelle meno convincenti, di prova in prova, fino a che somigliano a quelle che conosciamo. A stupire è semmai il ritrovamento di quello che non sapevamo di cercare. Siamo entrati per vedere le crepe nei rapporti che hanno portato alla rottura o il genio al lavoro, e invece ne usciamo scoprendo la noia delle registrazioni, la banalità degli argomenti, la stupidità degli scherzi e dei tormentoni, le dinamiche tra amici che si ritrovano in qualsiasi gruppo, la creatività che pascola per il 70% del tempo e che poi sotto data di consegna corre per fare in tempo come un qualsiasi grafico pigro, lo stile passivo-aggressivo delle conversazioni e l’imbarazzo di chi sta intorno.
Sappiamo tutto, e il piacere sta nel vedere come avvengono le cose, scoprendo un’ordinarietà che fa a pugni con il mito. I Beatles abbandonati in un teatro di posa, in un angolo a creare stancamente su sediacce di legno probabilmente scomode. I Beatles a parlare delle notizie del giorno. I Beatles che si illuminano solo quando suonano canzoni di altri. Lennon e McCartney che non suonano praticamente mai insieme le canzoni di Lennon e McCartney.
La vittoria di Get Back è di riuscire a fare in modo che i Beatles sembrino più di quanto non siano mai sembrati i quattro under 30 che erano in quel momento. E che il documentario non dia mai la soddisfazione che ci aspettiamo nella maniera che ci aspettiamo è evidente nell’unico momento in cui Peter Jackson fa un lavoro palese di forzatura sulle immagini, quando McCartney sente per la prima volta “l’ipotesi tetto” e con un ralenti e uno zoom sul fotogramma cogliamo l’espressione di immediata approvazione. Quello è il momento in cui la realtà, un po’ forzata, assomiglia alla maniera in cui il cinema racconta la creatività: per fiammate clamorose e momenti di improvvisa illuminazione in cui tutti riconoscono la bontà di un’idea. Ma è di nuovo un’illusione, il momento in cui Jackson mostra al pubblico di essere anche lui spettatore di quelle immagini e di averle scrutate prima di noi avendo colto qualcosa, la faccia di approvazione di una grande idea, la cui soddisfazione vuole condividere. Il momento in cui punta il dito su una parte del fotogramma.
Alla fine, è banale dirlo ma terribilmente vero, i veri protagonisti di Get Back sono gli spettatori e la loro sete di sapere, loro e la loro esperienza di reality, di osservazione del quotidiano, di sopportazione delle conversazioni banali e del linguaggio della realtà filtrata dal montaggio. Prima del Grande fratello otto ore così sarebbero state impensabili. Prima di Amici sarebbe stato impensabile proporre tutte queste prove (l’aveva fatto Jean Luc Godard in One Plus One con i Rolling Stones, nel tempo molto più breve di un film, ed è forse l’esperimento meno ricordato di Godard), e prima di Netflix sarebbe stato impensabile occupare palinsesti in questa maniera. Se il cinema del reale, l’estasi contemporanea del documentario e i reality hanno avuto un figlio è questo: un reality per un pubblico che pensa di essere migliore dei reality televisivi e invece ne ha introiettato così tanto il linguaggio da essere perfettamente allenato a guardare queste otto ore.
Gabriele Niola
Giornalista e critico di cinema, videogiochi e webserie, è stato selezionatore della sezione Extra del Festival del Film di Roma e per il Taormina Film Fest. Scrive per MyMovies, BadTaste, Wired, Leggo, Fanpage e i 400calci.
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