Perché il futuro della pubblicità, e del nostro rapporto con i brand, passa sempre più spesso (e passerà ancora di più) dal nostro smartphone e da Whatsapp.
Alberto è in stazione a Firenze. Sta chattando, curvo sullo smartphone. Almeno, così è come appare agli altri. In realtà, sta solo prenotando il taxi in un modo diverso, e soprattutto meno impegnativo in termini di attenzione: in attesa della risposta via messaggino su Whatsapp dell’operatore (sarà un robot, sarà un addetto in carne e ossa?), sta parlando con gli amici del calcetto nel gruppo di Whatsapp. Alberto non sopportava di dover attendere in linea, spiegare dove si trova (non si leggono mai, i nomi delle vie!) e infine l’ordine di riattaccare se si accetta il taxi: “Che modi sono? E se non hanno capito? E se poi non mi ricordo il nome del taxi?”. Ora gli basta mandare la geolocalizzazione (come quando si deve far raggiungere dagli amici al ristorante) e il taxi capisce da solo dove passarlo a prendere. Di fianco a lui, Eva e John, dallo Utah in vacanza in Italia, sul loro tablet stanno chattando con Booking. C’è casino in stazione, e così possono vedere entrambi cosa propone loro l’operatore dell’hotel, che può usare anche dei template preimpostati nelle lingue degli ospiti. Molto meglio che cercare di telefonare in italiano agli hotel o parlare con gli operatori dell’ente turistico.
Quanti come Eva, John, e Alberto stanno usando i messaggi in quello stesso momento? Un numero impressionante di persone, che produce un numero inimmaginabile di messaggi, è attivo 24 ore su 24: quando in Cina ci si mette a dormire, l’Europa è nel pieno dello scambio, e quando a Lisbona si va a letto, a New York la macchina dei messaggi è al massimo della potenza. Potessimo vedere i messaggini muoversi come punti luminosi da un posto all’altro, la Terra splenderebbe di luce propria. Un miliardo di persone usano Whatsapp, quasi lo stesso il Messenger di Facebook. In Oriente cumulativamente WeChat, QQ e Line contano un miliardo e settecento milioni di utenti. E poi ci sono gli inseguitori: l’onusto Skype, il rampante Telegram, il precursore Viber, il killer degli SMS in casa Apple iMessage. In tutto fanno miliardi e miliardi di messaggi ogni giorno (non duplicati, cioè contati una sola volta).
L’ossessione per il messaging ha avuto anche conseguenze economiche sulle telecomunicazioni. Gli sms, che furono la gallina dalle uova d’oro delle compagnie telefoniche, sono ormai qualcosa di sconosciuto ai più giovani, spesso usati solo come ultima spiaggia dagli adulti. I minuti di telefonate, prima dalle morenti linee fisse e ora anche da cellulari, sono in calo da molto tempo, senza ritorno. Il valore si è spostato nello smartphone. Tutto è mobile o quasi nel 2016. Il tempo trascorso su questi device è superiore di molto a quello trascorso davanti al pc, e se la gioca contro quello passato davanti alla tv.
La storia dell'advertising ci insegna che ogni vuoto viene riempito. Ogni punto di passaggio ha il suo cartellone pubblicitario, ogni assembramento il suo volantinaggio. Quanto può rimanere intatto un mezzo che usa la maggior parte del tempo delle persone?
Le persone adorano comunicare – “quanto ci piace chiaccherare”, diceva una Telecom non ancora TIM negli spot – e l’instant messaging come Prometeo ha liberato il fuoco dai costi e dai vincoli del tempo, della geografia, della sincronia e arricchito le conversazioni di foto, video, geolocalizzazioni, audio, gif animate, emoticon, creando quindi non un surrogato della voce, ma qualcosa di diverso, e per molte persone, di migliore, di più comodo. E quindi un flusso ininterrotto di grammatiche sgangherate, foto storte e fuori fuoco, recensioni, impressioni, segnalazioni, bufale e credulità sta scorrendo in uno strato della comunicazione sotterraneo e invisibile ai brand, e alla nostra stessa percezione.
Probabilmente grazie al fatto che il fondatore di Whatsapp detesta la pubblicità, tanto da far inserire sul sito una specie di manifesto secondo cui mai ci sarebbe stato materiale promozionale nella app dal fumetto verde, queste conversazioni sono state finora zona franca dal marketing e dall’advertising. Al contrario dell’email, che traborda di newsletter e promozioni, il messaging è un territorio pressoché vergine, almeno in apparenza: nessun banner, nessuna intrusione, nessun telemarketing o direct marketing o qualunquecosa-marketing. Nessuna azienda può mandarti messaggi Whatsapp controvoglia. In realtà si potrebbe fare, ma è complicato e gli invii consentiti sono limitati, per cui a parte qualche parrucchiere intraprendente nessuno si intrufola nel tuo sistema di messaging per fare promozioni o vendere qualcosa. La protezione dalla pubblicità potrebbe non essere del tutto irrilevante ai fini del loro successo.
Ma la storia dell’advertising ci insegna che ogni vuoto viene riempito. Ogni punto di passaggio di folle ha il suo cartellone pubblicitario, ogni assembramento il suo volantinaggio, ogni evento il suo “consigli per gli acquisti”. Quanto può rimanere fuori dal raggio di azione un mezzo che usa la maggior parte del tempo delle persone? In cui le persone mettono la massima attenzione? In cui sono le persone ad attivarsi e non a essere colpite dall’advertising?
Nei prossimi mesi cambierà tutto, o quasi. Ovviamente per non cambiare nulla: i brand vogliono sopravvivere nell’attenzione dei consumatori, a costo di cambiare il modo di attrarla. E oltre al messaging, un’altra tecnologia nascente garantisce di essere in grado di spostare le relazioni tra brand e persone e rendere finalmente fattibile la conversazione globale, quel “i mercati sono conversazioni” tanto agognati dai redattori del Cluetrain Manifesto. Le aziende che rispondono, che parlano, che conversano con i clienti, i consumatori, gli utenti. Senza limiti di conversazioni contemporanee. L’intelligenza artificiale promette di rendere economico e scalabile all’infinito un chiacchiericcio altrimenti insostenibile. Coca-Cola che risponde a qualsiasi domanda tramite un codice stampigliato sulla lattina? Fattibile. Barilla che chiarisce le sue ricette in tempo reale ai consumatori con una mano sul fornello e una sullo smartphone? Fattibile. Trenitalia che non ti fa più usare il suo terribile sistema di prenotazione ma ti fa acquistare direttamente dalla chat? Fattibile, se il sindacato dei bigliettai non si opporrà, ovvio.
Certo, le aziende avranno voce (o chat) umana, come chiedevano sempre quelli del Cluetrain, ma non saranno veri umani a rispondere. Saranno macchine che impareranno dagli umani. Il destino dei call center, a furia di essere geolocalizzati sempre più a est, finisce per fare il giro e atterrare di nuovo in Silicon Valley, dentro server in cloud collegati a supercomputer in grado di imparare a essere umani, almeno come un operatore, gentile e instancabile, che non si innervosisce davanti ai peggiori clienti, che non ha accento, che non ha orari né ferie.
Per anni, le aziende hanno cercato di far scaricare app ai consumatori: pubblicizzandole in store, in tv, nelle affissioni. In realtà, anche quando l’utente davvero le installava, per la maggior parte questa occupazione del prezioso “suolo” dello smartphone era una conquista effimera, destinata a cadere in disuso, a essere disinstallata quando lo spazio scarseggia o quando viene cambiato il telefono. E tutto cominciava da capo. Ma se l’obiettivo è il contatto – e quello del marketing lo è – perché non attivarlo sul canale preferito dalle persone? Perché devo sbattermi a capire come usarti se posso chiederti direttamente – per esempio se sei aperto alla domenica, o se i saldi sono iniziati nel negozio di via Torino? Perché farmi scaricare un’app per farti una domanda o avere un contatto o mandarti un coupon? O farmi andare sul sito e cercare in mezzo a tante informazioni quella giusta?
WeChat, che è la app di riferimento per il messaging in Cina e dintorni, rappresenta un’avvisaglia di quello che potrebbe essere il futuro. È chiamata “la app che fa qualunque cosa”. Infatti legge i suoi codici nativi, presenti in ogni pubblicità orientale, collegando finalmente il mondo fisico a quello mobile – con risultati notevoli, in quanto il codice non è il misconosciuto QR dell’Occidente, ma un simbolo famoso e immediatamente riconoscibile. E soprattutto utile per definizione: ti fa comprare cose, parlare con i brand, oltre che naturalmente con i tuoi contatti. Una sola app, tanti bisogni, la maggior parte risolvibili chattando.
L’architettura perfetta del marketing conversazionale si realizza: un’interfaccia familiare che le persone conoscono, i dati in possesso di Facebook (o di Google o di Amazon o di chiunque si imporrà) che rendono la transazione veloce e fluida, un’intelligenza artificiale dietro che emula la conversazione umana senza limiti di scala. Quando tu stai “parlando” (e prima o poi dovremo toglierle, queste virgolette) con qualcuno che conosce dove stai (e dove spedirti cose), la tua età, i tuoi gusti, e che può pagare direttamente dal tuo conto, ogni acquisto diventa più facile. Ehi Messenger, prenotami un taxi, un hotel vicino alla stazione a Milano, un ristorante vegetariano per giovedì prossimo, e Privalia, mandami le New Balance del 46.5 al solito indirizzo. L’ecommerce, fatto così, assume un’allure diversa. Ma anche gli investitori in broadcast di massa avranno un canale più semplice su cui raccogliere contatti: apri Messenger e fotografa qua, o ascolta il mio spot, e puoi prenotare direttamente la prova della nuova Alfa al tuo concessionario. O ricevere un pacco di pasta n. 5 a casa. O partecipare al concorso dell’ammorbidente. Tanto, il telefono è sempre accanto a noi. Mancava solo un modo semplice per ritornare in contatto con i brand. E ora che ce l’abbiamo, sta ai brand dimostrare che ne vale la pena. Rendendosi utili, per esempio.
Gianluca Diegoli
Dalla Bocconi in poi osserva passare i trend dall’evanescente confine tra online e offline. Di giorno si occupa di marketing e digital, di notte ha scritto Svuota il carrello (2020) per UTET. È professore a contratto in IULM e in Master. Ogni venerdì alle 9 manda la sua newsletter.
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