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Tecnologia

L’avventurosa storia delle CDN

Se oggi possiamo vedere così tanta tv online è merito anche di Daniel Lewin, fondatore di Akamai, prima vittima nell’attentato al World Trade Center.

Daniel Lewin aveva trentun anni, ed era seduto nel posto sbagliato: il 9B, sul corridoio di quel volo numero 11 della American Airlines che nella prima mattina dell’11 settembre 2001 si sarebbe schiantato contro la Torre Nord del complesso del World Trade Center di New York. Ex ufficiale dei corpi speciali israeliani, laureato al Technion, il famoso Israel Institute of Technology di Haifa, Lewin, assieme al suo professore di matematica applicata al MIT, F. Thomson Leighton, aveva progettato uno dei più importanti algoritmi per la “vita” di internet.

Nel 1996 i due, insieme ad altri tre soci, avevano dato vita ad Akamai Technologies, una delle meno note e più importanti aziende coinvolte nella crescita della rete. Lewin aveva trovato la maniera di modellizzare i flussi di bit, i pacchetti che attraversano i nodi della rete, per ottimizzare le loro prestazioni. Ottimizzazione cioè dei carichi di lavoro per i server, i router e gli switch, ovvero gli apparecchi che si occupano di instradare i bit nella loro corsa attraverso l’autostrada dell’informazione. E ottimizzazione dei meccanismi di distribuzione delle informazioni, creando delle “riserve”, copie parcheggiate ai bordi dell’infrastruttura più profonda e potente della rete, per consentire di non sovraccaricare i server centrali quando per esempio una pagina web, una canzone digitale di uno store online, un film o un videogioco sono richiesti da più utenti contemporaneamente in parti diverse del pianeta.

Tuttavia l’algoritmo creato da Lewin faticava a prendere quota. Mancavano i clienti. Quando si facevano i conti della resa tra i guadagni ricavati con fatica e le ingenti spese in ricerca, e soprattutto in macchinari necessari al funzionamento dell’azienda, il saldo era negativo.

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Lewin tutto questo lo sapeva bene: la scommessa della sua azienda avrebbe potuto non pagare mai. Eppure l’imprenditore aveva messo, oltre al suo innegabile talento, anche la determinazione e il coraggio di un uomo che nei suoi tre anni di servizio presso il Sayeret Matkal aveva raggiunto il grado di capitano. Credeva nelle sue idee e aveva la forza di volontà per non arrendersi di fronte alla avversità. Per questo anche la mattina dell’11 settembre del 2001 era in movimento: il volo da Boston a Los Angeles doveva portarlo a una serie di incontri con potenziali clienti della West Coast a cui vendere i servizi di Akamai Technologies. Una parola stava prendendo forma in quel periodo per definire il lavoro di ottimizzazione e organizzazione dei flussi dati fatta per conto terzi: CDN, Content Delivery Network.

Akamai e un pugno di altre aziende avevano infatti intuito che il futuro di internet, basata su protocolli che consentivano la circolazione dei pacchetti di dati in modo quasi schizofrenico, attraverso un continuo zigzagare di percorsi diversi, richiedeva un meccanismo che creasse ordine per ottenere il massimo della velocità ma anche della capacità di trasporto possibile. Anziché ricorrere a un tipo di rete diversa, organizzata in maniera gerarchica, strutturata, l’idea di Lewin era stata quella di costruire ai “bordi” della rete alcuni meccanismi di ottimizzazione, che facessero sia da memoria tampone che da relè del traffico. L’algoritmo, estremamente sofisticato, sceglieva quali pacchetti di bit inviare verso quali blocchi di memoria tampone e poi dove “passarli” e con quali relè.

Secondo il rapporto della commissione di indagine sugli attacchi dell’11 settembre (la National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States, meglio conosciuta come 9/11 Commission), Lewin dev’essere considerato la prima vittima dell’attacco. Sedeva al posto 9B, accanto e davanti ai terroristi imbarcati sul volo 11: Mohamed Atta, Abdulaziz al-Omari e Satam al Suqami. Secondo la ricostruzione, nel tentativo di fermare uno di questi, senza essersi reso conto che almeno un altro era alle sue spalle, sarebbe stato accoltellato a morte prima ancora che l’aereo venisse dirottato.

Quasi per una sorta di terribile omaggio da parte degli dei della tecnologia, nei giorni successivi ci fu il trionfo dell’algoritmo creato da Lewin. Dopo l’11 settembre, infatti, la rete fu sottoposta a uno dei test più duri per quanto riguarda la sua capacità di resistere ai carichi di lavoro: decine, centinaia di milioni di persone nelle ore dopo gli attentati cercarono informazioni sugli eventi, mentre la capacità dei server di base dell’epoca era portata rapidamente al massimo. Ci furono numerose disfunzioni e blackout, incapacità da parte dei nodi della rete di gestire il carico di richieste contemporanee da cui erano tempestate. Ma se l’infrastruttura tecnologica dell’epoca nel complesso ha tenuto il merito è stato certamente di chi ne ha progettato i protocolli di base, ma anche di Akamai e delle tecnologie studiate cinque anni prima da Lewin.

Quasi per una sorta di terribile omaggio da parte degli dei della tecnologia, nei giorni successivi all’11 settembre ci fu il trionfo dell’algoritmo creato da Lewin: la rete fu sottoposta a uno dei test più duri di sempre.

Oggi Akamai è sopravvissuta al suo fondatore, ed è uno dei principali attori nel mercato delle CDN, le reti per la consegna di contenuti, ma non è certamente il solo. Decine di aziende (CDNetworks, CloudFlare, Limelight Networks, MaxCDN ed EdgeCast Networks, oltre alle CDN di Amazon, Google e Microsoft) stanno dando le gambe a uno degli snodi più importanti per la crescita e il funzionamento di internet. Il lavoro che compiono dietro le quinte è fondamentale: gestiscono i flussi di bit che compongono il 90% del traffico della rete. Servono per gestire il traffico della maggior parte dei servizi di cloud computing, permettono di ottimizzare la dimensione dei filmati, dell’audio e delle immagini inviate verso i dispositivi mobili, svolgono un ruolo fondamentale nella sicurezza dei dati attraverso la rete e nella disponibilità dei servizi per gli utenti, senza contare il ruolo strategico che giocano per la televisione. In modo totalmente trasparente per l’utente, dietro le quinte, le CDN si fanno carico di prendere il flusso di bit che compongono le immagini di una partita di calcio e di replicarlo in maniera strategica in decine di punti diversi della rete, reindirizzando a questi relè le richieste da parte degli utenti senza che questi ultimi possano rendersene neanche conto. Il tutto in pochi centesimi di secondo.

La televisione è un’area altamente strategica perché il video in alta definizione soffre del problema della capacità di trasmissione: le reti si saturano facilmente e i server possono rispondere alla richiesta da parte degli utenti anche con dieci, venti, trenta secondi di ritardo. Le conseguenze commerciali sono terribili. La clessidra che gira e il pallone da spiaggia che ruota con i colori dell’arcobaleno sono metafore visive trovate dagli informatici per indicare che “il servizio richiede tempo per essere erogato”. Vengono interpretate dai consumatori come un segnale di poca banda passante, di “lentezza”, ma in realtà rappresentano un problema completamente diverso: un eccesso di carico di lavoro, che satura la capacità di risposta del server centrale. Un “rifiuto di prestare il servizio” (denial of service) che è alla base di moltissimi dei problemi informatici di internet, anche di sicurezza.

Per questo la distribuzione capillare e automatica su una decine, centinaia di punti strategici consente di ovviare il problema e ridurre il tempo di attesa, quella che con un gioco di parole gli americani chiamano la spinning beach ball of death, l’attesa mortale (mortale perché spesso il sistema dà l’idea che non si avvierà mai più) capace di sterminare la presenza di utenti attivi. Dieci secondi di attesa scoraggiano infatti due terzi degli utenti, venti rendono praticamente deserto il servizio. Le CDN mirano ad abbattere le attese e a ricondurre i sovraccarichi a tempi più accettabili, attorno al secondo.

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Dopotutto, il picco è sempre stato uno dei grandi problemi della tecnologia; problemi che però hanno potuto generare anche insospettabili opportunità. Un esempio: Amazon, che ha costruito il suo modello di business sulla capacità logistica delle sue consegne e anche sulla capacità di calcolo dei suoi server, ha dovuto configurare la sua dotazione tecnologica in modo che potesse resistere ai picchi più estremi di richieste di acquisti online, tipicamente per il Black Friday e il periodo natalizio. Picchi che comportano una extra-capacità poi inutilizzata per tutto il resto dell’anno. Per questo l’azienda, e in particolare il suo responsabile della tecnologia Werner Vogels, è considerata la “madre” del cloud computing. Cioè di un modello di distribuzione delle risorse di calcolo intese come servizio e non più come prodotto.

L’idea di Amazon è stata di affittare la capacità di calcolo e la memoria dei suoi server nei periodi di scarso utilizzo. Un’idea talmente buona che ha poi preso piede, consentendo a Jeff Bezos di fondare Amazon Web Services (AWS), divisione autonoma del colosso dell’e-commerce che è la capofila di una serie di aziende che stanno dando fiato a questo modello complesso ma estremamente completo di fornitura dei servizi informatici. Per le aziende clienti questo ha voluto dire poter utilizzare una grande capacità di calcolo senza dovere fare i relativi investimenti. Niente spese di capitale, dunque, ma solo il pagamento di un servizio “a consumo”, che sono contabilizzati oltretutto come spese operative. Il passaggio da Capex a Open, oltre alla minore entità della spesa, ha comportato il vero cambiamento per le grandi aziende.

Il minor costo e la maggiore flessibilità si pagano però con il rischio che il servizio non sia sempre disponibile: sia per cattivo funzionamento dei server sia per problemi di “intasamento” della rete. Per servizi relativamente secondari e a basso impatto come la posta elettronica (solitamente per le grandi aziende in cima alla lista delle attività da esternalizzare) lo stop di qualche minuto può non essere un problema. Per chi, come ad esempio le startup nel settore dello streaming di contenuti, vive di risposte in tempo reale, fa la differenza tra la capacità di restare in piedi oppure il fallimento.

Ecco perché negli ultimi due anni il ruolo dei fornitori di servizi di CDN è diventato sempre più strategico. E neanche i big del settore riescono a ovviare a questo problema facendo da soli. Sia perché gli algoritmi altamente ottimizzati e testati da anni sul campo da parte degli specialisti sono impossibili da replicare con la medesima efficienza, sia perché lo sviluppo di centinaia di punti di accesso che facciano da relè al traffico di rete è semplicemente troppo e troppo costoso da realizzare. Per questo aziende come Akamai hanno clienti del calibro di Apple, Microsoft, la Bbc con il suo iPlayer, network televisivi in tutto il mondo (da Mtv alla Espn, dalla Nbc sport alla Cina Central Television), catene alberghiere come Hilton, la Nasa, colossi hi-tech come Adobe, Ibm, Yahoo e decine di altre aziende grandi e piccole. In settori eterogenei: Trend Micro utilizza la CDN di Akamai per i suoi servizi antivirus, mentre la Casa Bianca la usa per fare da strumento che resista alle mareggiate di richieste dei video del presidente Barack Obama dopo i suoi discorsi pubblici (ritrasmessi anche su YouTube).
È difficile immaginare un contributo alla tecnologia del nostro tempo più netto e riconoscibile di quello di Daniel Lewin. Un contributo che non solo è sopravvissuto alla tragica scomparsa del suo ideatore, ma che non cessa, giorno dopo giorno, di crescere e diventare sempre più necessario per la vita “normale” della rete e dei suoi servizi.


Antonio Dini

Giornalista e saggista. Scrive di informatica e negli ultimi anni ha pubblicato libri e articoli sia per la carta stampata sia online. Dal 2002 ha un blog, Il posto di Antonio.

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