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Lo sport globalizzato

Tra le conseguenze della pandemia, c’è anche l’accentuarsi di apparenti paradossi intorno allo sport globalizzato. Una vecchia storia intrecciata con i flussi del prodotto, che vale la pena recuperare.

Il protagonista della recente sport-comedy Ted Lasso è un allenatore di football americano che è stato invitato ad allenare una squadra di calcio inglese, senza alcuna esperienza pregressa di quello che oltreoceano chiamano soccer. Le conseguenze si possono immaginare: dalla completa ignoranza sull’annosa regola del fuorigioco alla difficile comprensione di promozioni e retrocessioni delle squadre nei campionati di calcio (lì dove in America vige invece il sistema statico delle franchigie). Ma lo stesso personaggio di Ted Lasso – anche qui interpretato dal medesimo attore, Jason Sudeikis – nasceva già qualche anno fa come protagonista di un paio di divertenti promo prodotti dal network americano Nbc Sport per lanciare il ritorno della Premier League inglese negli Stati Uniti (Premier League on Nbc). Una parodia che può ricordare, a un pubblico italiano, il mitico Oronzo Canà e la sua formidabile Bizona 5-5-5 nel film culto L’allenatore nel pallone. Qui Ted Lasso diventa lo specchio di quell’atteggiamento – un mix tra frainteso e divertito – che uno spettatore americano medio potrebbe provare nei confronti di un prodotto sportivo, il calcio appunto, percepito ancora come “esotico”. 

Eppure, se questo cliché di equivoci tra soccer e football sembra ancora funzionare bene per la costruzione di gag divertenti in una comedy o per un promo autoironico, bisogna ammettere che da tempo il calcio negli Stati Uniti è qualcos’altro. La nazionale statunitense di calcio femminile è un vero e proprio all-star team pluricampione del mondo e particolarmente influente. Sulla spinta della crescente comunità di latinos, il fútbol sudamericano e i maggiori campionati di calcio europei fanno la parte del leone nella programmazione dei canali cable Espn Deportes e BeIn Sports Español. Al di qua dell’oceano – e senza voler scomodare il fin troppo bistrattato “villaggio globale” di McLuhan – la festa del Super Bowl ha subìto da qualche anno quel processo incipiente di appropriazione nel discorso collettivo nostrano. Ma se ancora in Italia in pochi sanno effettivamente che cosa faccia il nose guard di una squadra di football americano (compreso il sottoscritto), molti di noi, qualche anno fa, hanno visto Marco Belinelli da San Giovanni in Persiceto diventare il primo italiano campione di basket Nba con i San Antonio Spurs. E d’altra parte la stessa Nba – da monopolio prettamente americano – si sta trasformando in una lega con protagonisti giocatori sempre più internazionali. Con la recente pandemia e il suo blocco su flussi e spostamenti, probabilmente uno degli effetti più eclatanti è stato anche quello di aver reso visibile – come mai prima – questa accentuata globalizzazione dello sport, evidentemente fomentata anche dall’ascesa di piattaforme streaming sports-oriented quali nuovi potenziali player transnazionali.

Ma queste stesse sfide transnazionali del prodotto-sport, in parte, si sono storicamente e strettamente intrecciate con la più classica televisione – compresa anche e soprattutto la cara e vecchia tv generalista. Ora che il panorama sportivo appare spinto da forze contraddittorie e complesse, recuperare la storia (spesso anche aneddotica e casuale) circa il successo o insuccesso di alcuni sport e campionati – in determinati sconfinamenti televisivi stranieri – può aiutare a dare qualche spunto ulteriore. E perché no, tracciare anche un percorso di continuità nella novità che stiamo tutti vivendo.

La scoperta dell’America

L’ingresso dello sport oltre confine nella televisione italiana, come prevedibile, non poteva non avvenire che attraverso i grandi eventi sportivi internazionali. Con l’inaugurazione dell’eurovisione Rai alle Olimpiadi invernali di Cortina del ’56 (e con la prima diretta nazionale di un evento sportivo), la tv si fece sentire in modo forse anche “inaspettato”. Nel momento clou della cerimonia di inaugurazione, infatti, lo sciatore italiano e ultimo tedoforo Guido Caroli cadde proprio a causa di un cavo televisivo maldestramente lasciato sulla pista ghiacciata dello stadio. Con questo imprevisto capitombolo del povero Caroli – nella migliore tradizione fantozziana – fu per così dire “varata” la diretta sportiva internazionale in Italia. A parte Olimpiadi, Mondiali e sparute partite internazionali di calcio, un approdo semi-clandestino di competizioni sportive straniere arrivava dalle frequenze dei ripetitori televisivi d’oltralpe tra la metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Con la monegasca Telemontecarlo e la svizzera Rtsi, il pubblico italiano poté familiarizzare, per esempio, con il Nottingham Forrest F.C. di Brian Clough e le finali della FA Cup inglese. La slovena Tele Capodistria – con uno dei suoi leggendari telecronisti, Sergio Tavčar – aiutò invece a far conoscere, tra le altre, anche le fortissime squadre di basket jugoslave. In questo quadro avventuroso, era abbastanza chiaro un fatto: esisteva in Italia una forte di domanda di sport televisivo ancora largamente insoddisfatta.

Se Magic Johnson, Larry Byrd ma poi soprattutto Michael Jordan più o meno in quegli stessi anni di fatto stavano aprendo al mondo il grande circo dell’Nba, qui da noi probabilmente un po’ di merito lo si deve anche all’esuberante Dan Peterson, e al “ponte” che mise in piedi tra il basket a stelle e strisce e il pubblico italiano che subito si affezionò al suo personaggio.

E proprio una competizione apparentemente anonima tra nazionali di calcio vincitrici della Coppa del Mondo, il cosiddetto Mundialito del 1980, segnò una prima svolta nel panorama televisivo nazionale. Inserendosi nella trattativa per la trasmissione della competizione in Italia, la neonata Canale 5 riuscì a strappare la diretta per la Lombardia e la differita nel resto dello Stivale per alcune partite. Il tutto condito da lunghi pre- e post-partita presentati da Mike Bongiorno. Scoperto un possibile bengodi, a questo punto non si inseguirono solo le grandi manifestazioni, ma si cercava uno spettacolo sportivo che potesse diventare un programma “quasi pronto” in grado di riempire i palinsesti. E dove trovarlo se non negli Stati Uniti, con le stesse competizioni d’oltreoceano che potevano essere trasmesse tranquillamente in differita (il web, d’altronde, era ancora in là da venire). 

“Mamma, butta la pasta!”

Proprio il Super Bowl XV (con il disclaimer “evento” già contenuto nella consuetudine di utilizzare i numeri romani per differenziarne le edizioni…) divenne il primo del suo genere ad approdare in Italia sulle reti Fininvest. Seguirono a ruota la NFL Week Review commentata da un giovane Guido Bagatta, ma soprattutto le partite di basket Nba. Era tuttavia necessario cercare una possibile sponda Italia-Stati Uniti che riuscisse a contestualizzare e incasellare questi nuovi sport nella cornice nazionale, ma che allo stesso tempo potesse divertire il pubblico italiano. La partita sarebbe diventata anche e soprattutto uno spettacolo nello spettacolo animato e “confezionato” dagli stessi telecronisti e presentatori. 

Proprio a supporto delle partite Nba si scommise su un coach vulcanico che allenava le squadre di basket della Virtus Bologna e Olimpia Milano nelle serie A italiana. Questi rispondeva al nome di Dan Peterson, della cittadina di Evanston, Illinois. Sebbene l’età di chi scrive non consenta un’esperienza diretta di quegli anni, è comunque difficile contestarne il mito. Per chi ha una seppur vaga passione per il gioco del basket, frasi celebri pronunciate dallo stesso coach – come “mamma butta la pasta” o “passi tutta la vita” – sono rimaste nel gergo degli appassionati. Se Magic Johnson, Larry Byrd ma poi soprattutto Michael Jordan – nelle vesti di nuove icone e superstar – più o meno in quegli stessi anni di fatto stavano aprendo al mondo il grande circo dell’Nba, qui da noi probabilmente un po’ di merito lo si deve anche all’esuberante Dan Peterson, e al “ponte” che mise in piedi tra il basket a stelle e strisce e il pubblico italiano che subito si affezionò al suo personaggio.

D’altronde – seguendo questo stessa scia fino a oggi – non è un caso che sempre in quegli anni abbia fatto il suo esordio televisivo – nel ruolo di delegato di produzione degli sport americani presso Fininvest – un mostro sacro della telecronaca baskettara odierna come Flavio Tranquillo. Qualche anno più tardi, ma già sulla pay-tv satellitare, la “telecronaca a due voci” – che purtroppo non è l’imitazione di una seconda voce da parte dello stesso telecronista sportivo – cominciava a essere istituzionalizzata e, in un certo senso, spettacolarizzata anche da noi. E proprio Tranquillo andrà infatti a comporre insieme a Federico Buffa – ora nuovo Omero dello storytelling sportivo – quel duo maravilla che ha commentato l’Nba negli anni della sua definitiva espansione. 

In direzione (ostinata) e contraria

Altrettanto interessante è scoprire una direzione contraria di questo flusso, ovvero quando un prodotto sportivo italiano – ma bisogna ammettere, per meriti più altrui che propri – è stato capace di generare anche un certo, insperato, successo. Non è accaduto molto spesso, ma un esempio su tutti forse vale la pena che sia raccontato. Bisogna allora riallacciare le fila di un’altra stagione tv altrettanto decisiva. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, l’australiano Murdoch e la sua pay-tv approdarono finalmente nel Regno Unito. Pian piano prese dunque forma quelle che è stata ribattezzata – non senza note di biasimo – la “sky-ification” del calcio inglese dal giornalista Martin Kelner nel suo libro Sit Down and Cheer. Quello stesso anno, però, si era appena concluso l’acquisto dell’istrionico e burrascoso Paul Gascoigne, meglio noto come Gazza, da parte della Lazio di Sergio Cragnotti. D’altra parte, la Serie A stava vivendo la sua (breve) luna di miele. La casa di produzione inglese Crysalis Television, che aveva appena lavorato a un documentario su Gazza dopo il Mondiale italiano del ’90, capì che era un peccato farsi sfuggire Gazza, e con lui l’intera Serie A. Di fronte a questa prospettiva, Channel 4 – una rete free-to-air che fino ad allora aveva trattato poco o nulla di sport – colse quell’intuizione: colmare il vuoto di calcio della televisione in chiaro e generalista. Nell’indifferenza di Sky, tutta la Serie A poté sbarcare in chiaro su Channel 4 alla cifra – già allora ridicola – di 1,5 milioni di sterline. Nacque così il contenitore Football Italia, con la striscia di partite alla domenica pomeriggio commentate da Peter Brackley. Ma soprattutto un formidabile magazine televisivo, La Gazzetta, in onda al sabato mattina alle 10 in punto, e in grado così di colmare il vuoto di calcio all’inizio del weekend.

Nel suo recente libro – verosimilmente intitolato Golazzo – il produttore dello show Jonathan Grade racconta divertito il primo compito che gli diedero come teenager appena assunto dalla Crysalis per Football Italia: studiarsi intere cassette di Novantesimo minuto e descrivere tutte le azioni di gioco contenute in quelle centinaia di highlights di massimo tre minuti. Ironicamente, il futuro programma televisivo che avrebbe raccontato e scolpito il calcio italiano nell’immaginario del Regno Unito stava apprendendo i cori e le tifoserie italiane, i giocatori e il “catenaccio” attraverso la decisiva mediazione e montaggio di un’altra storica trasmissione televisiva italiana. 

I gelati di Richardson, i gol di Gazza

La celebre intro della trasmissione – che vagamente sembra ricordare il tormentone del comico tedesco sul calciatore Luca Toni – è tuttora rimasta nei ricordi di intere generazioni di inglesi. La vera star del programma, nonché presentatore, doveva essere Gazza. A lui si deve anche il titolo del magazine televisivo La Gazzetta (oltre al più scontato riferimento al quotidiano sportivo). Tuttavia, dopo diverse comparsate a vuoto dello stesso Gazza, da rimpiazzo del calciatore inglese fu scelto James Richardson (allora semplice produttore del programma), che divenne ben presto il simbolo indiscusso e inamovibile di Football Italia. Ogni volta di fronte a un bel gelato in qualche bar all’aperto di Roma, Firenze o Cagliari, Richardson commentava i risultati della Serie A come fosse in vacanza nel Bel Paese. Al breve sommario si aggiungevano interviste-cult anche con calciatori italiani, o più semplicemente si decideva di seguire Gazza in qualche città. Non mancavano, poi, tanti riferimenti alla cultura e al glamour modaiolo dell’Italia di quegli anni. Grazie all’abilità di Richardson, tutto questo veniva confezionato con uno spiccato e inconfondibile humour inglese che giocava proprio con gli stessi cliché italiani. Non senza provocare qualche problema con i tifosi italiani, di tanto in tanto.

Il successo del programma andò oltre le aspettative, e la formula venne ripetuta di stagione in stagione. Football Italia riuscì a totalizzare circa 3 milioni di fedelissimi telespettatori, posizionandosi ben oltre la media del canale. Come scrive James Horncastle, Football Italia e il suo magazine mattutino La Gazzetta hanno avuto un impatto formidabile per intere generazioni di spettatori e appassionati, cambiando lo stesso modo di parlare e vedere il calcio nel Regno Unito. E non si stenta a crederci. Si può immaginare cosa possa esser stato, per un presentatore o telecronista sportivo britannico, raccontare della “folle corsa” di un Carletto Mazzone in versione berserk, a quei tempi allenatore del Brescia, in direzione ostinata e contraria(ta) verso la curva atalantina al momento del pareggio di Roberto Baggio, in quegli iconici minuti finali del derby lombardo. Tutto ciò, inoltre, riferito a una platea di appassionati spettatori – magari attempati residenti in qualche sobborgo nei pressi di Birmingham – che non solo sapeva riconoscere Carlo Mazzone, ma che probabilmente – proprio grazie ad anni e anni di Football Italia – iniziava ad avere familiarità di quella archetipica rivalità campanilistica, affondata nella notte dei tempi, tra bresciani e bergamaschi. Miracoli del tubo catodico, verrebbe da dire.

Ogni volta di fronte a un bel gelato in qualche bar all’aperto di Roma, Firenze o Cagliari, Richardson commentava i risultati della Serie A come fosse in vacanza nel Bel Paese. Al breve sommario si aggiungevano interviste-cult anche con calciatori italiani, o più semplicemente si decideva di seguire Gazza in qualche città. Non mancavano, poi, tanti riferimenti alla cultura e al glamour modaiolo dell’Italia di quegli anni. Grazie all’abilità di Richardson, tutto questo veniva confezionato con uno spiccato e inconfondibile humour inglese che giocava proprio con gli stessi cliché italiani.

Al termine della stagione 2001/02, e quasi in contemporanea alla perdita di appeal della stessa serie A, il programma chiuse i battenti, non senza un breve ritorno di fiamma su Five nella stagione 2007/08. Ma come confessa sempre Jonathan Grade, capita ancora di imbattersi in gruppetti di appassionati che vogliono risentire quelle storie e quei racconti di una stagione televisiva che ha lasciato il segno. 

I know you, stranger

Tra i suggerimenti che questi esempi accendono, il primo – e forse più evidente – è la propensione costante verso la ricerca di una partita o competizione sportiva “oltre il proprio giardino”. Quando questa non è offerta al pubblico, non è stata subito compresa o semplicemente ritardata, qualcun altro lo ha fatto e, nei casi raccontati, con discreto successo. Questa tendenza, con la complicità di televisioni e adesso piattaforme streaming, ha rapidamente condotto i maggiori campionati sportivi – nazionali e/o continentali – a diventare importanti e ricchissimi “centri di smistamento e affollamento” di flussi globali che interessano sia i pubblici sia gli stessi atleti e giocatori. E qui si torna alla pandemia. Se da un lato il Covid-19 ha esposto, come un Re Nudo, l’interdipendenza globale che ormai accompagna tutte le maggiori competizioni sportive, al riparo da confortevoli nostalgie è altrettanto lecito domandarsi se esista un pulsante da pigiare, con cui si possa tornare magicamente indietro nel tempo. Soprattutto, ci si chiede se poi in questo passato non ci si troverebbe nella stessa condizione, in un eterno ritorno: chi cerca qualcosa altrove, e finalmente una tv – o magari, oggi, un portale streaming – che li accontenta. La pandemia ha semmai rinforzato l’idea di un’evoluzione all’interno di questa stessa interdipendenza globale ormai data per acquisita. E con quest’ultima che – sempre nel caso del prodotto-sport – andrebbe semmai condotta a nuovi stadi di evoluzione anziché di semplice regressione. 
La seconda e altrettanto importante impressione è la centralità che ha rivestito il confezionamento editoriale e il posizionamento di un prodotto straniero sportivo, trasposto in una cornice nazionale e locale. Una sfida che continua in modi e forme certamente differenti anche nei recenti portali streaming sports-oriented, ma forse ancora non pienamente accolta. La confezione, dunque. La serie A italiana, per essere raccontata con successo agli inglesi, ha trovato i gelati di James Richardson. Il basket Nba, senza i commenti “fenomenali” di Dan Peterson, forse sarebbe stato guardato sì, ma probabilmente non verrebbe ancora ricordato e citato. E poi il posizionamento in canali televisivi, guarda caso, entrambi generalisti. In questo senso, il caro vecchio palinsesto ha avuto il ruolo fondamentale di portare il basket Nba anche a un pubblico magari non appassionato di sport, ma semplicemente divertito da Dan Peterson. Incontrare lo straniero. D’altronde, sempre il palinsesto ha fatto sì che un programma sul calcio italiano, La Gazzetta, avesse enorme visibilità perché posizionato in un momento della settimana strategico e lasciato colpevolmente libero: il sabato domattina, ovvero quando i lavoratori erano sì a casa, ma non c’era ancora nessuno sport da vedere in tv. Pubblici magari solo sulla carta estranei a un prodotto altrettanto estraneo e “straniero” hanno potuto incontrarlo e, perché no, decidere di seguirlo e apprezzarlo. E forse proprio in questo doppio passo, ossia una lettura trasversale del passato ma allo stesso tempo non banalmente nostalgica, si trovano utili chiavi di lettura per le nuove sfide dello sport nella sua interdipendenza globale, sempre più necessaria.


Danilo Callea

Dottorando in Visual and Media Studies presso l’Università IULM. Si occupa principalmente di studi su media, televisione e piattaforme streaming, con un focus sui contenuti sportivi digitali.

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