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Voci a San Siro

Percorsi e funzioni della telecronaca sportiva. Dal calcio al tennis, dai pionieri a oggi, un racconto che può diventare epica, spettacolo, o parodia.

“Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!”. Ci sono attimi, nella storia dello sport, che diventano incontrovertibili momenti di unità nazionale e identità condivisa. E con essi, anche le voci che li hanno resi avvenimenti di estasi collettiva si trasformano in pezzi di memoria da consegnare all’immortalità. Quel sussurro strozzato, ripetuto tre volte da Nando Martellini a sancire la vittoria della nazionale italiana di calcio ai Mondiali di Spagna ’82 (campioni, appunto, per la terza volta nella storia), è l’epigrafe di un modo d’essere, prima ancora che la tecnica retorica e narrativa di uno dei più amati telecronisti sportivi nazionali. Talmente mitologico, nella sua popolare semplicità, da essere preso in prestito 24 anni dopo da Fabio Caressa di Sky Sport (un’altra scuola, un altro sistema tv) che nel 2006, in occasione dei mondiali di Germania, riesumò la celebre sequenza, integrandola. Quattro volte “Campioni del mondo!”, come le vittorie degli azzurri. Un omaggio dovuto, persino scontato, ma indubbiamente carico di simbologie, in un contesto in cui per la prima volta un campionato del mondo di calcio non era esclusiva del servizio pubblico.

Perché spesso, vale sempre la pena di sottolinearlo, è stata la voce narrante – il “cantore” come direbbe qualcuno – a fare in modo che una vittoria, un frammento, un gesto sportivo potesse incastonarsi in un ricordo capace di durare nel tempo. Roland Barthes, nel suo saggio sul Tour de France come epopea, ci ha insegnato che le imprese degli atleti hanno connaturato in sé qualcosa di epico e leggendario; altrettanto innegabile, possiamo aggiungere, è che il mito vive e perdura grazie all’intermediazione dei media, delle firme e delle voci che lo hanno raccontato e plasmato. Dal giornalismo alla radio fino alla tv, la cronaca degli eventi sportivi contribuisce a costruire la mitologia e l’eroismo nascosti dietro a un’impresa sportiva. Non solo: il telecronista, con le sue parole e i suoi sentimenti, diventa mito, stipulando con l’evento e il campione “narrato” una sorta di mutua reciprocità. Inscindibili l’un l’altro.

Spesso, vale sempre la pena di sottolinearlo, è stata la voce narrante – il “cantore” come direbbe qualcuno – a fare in modo che una vittoria, un frammento, un gesto sportivo potesse incastonarsi in un ricordo capace di durare nel tempo.

Il filo rosso della telecronaca

Il filo rosso che lega i “Campioni del mondo!” di Martellini e Caressa ci aiuta a dipanare la lunga storia di un genere (del genere) principe della rappresentazione dello sport in tv, che è appunto la telecronaca in diretta dell’evento sportivo. Soprattutto, diventa occasione per misurare – allo stato attuale – salute, difetti, derive dei telecronisti nostrani, in un contesto di elevata frammentazione di canali, pubblici, modalità d’offerta e di rinnovato interesse per molteplici discipline sportive; operazione ancora più utile nel 2017, anno dispari senza mondiali, europei e olimpiadi, ma non per questo privo di spettacoli sportivi a ogni ora e su ogni canale (dal Tour de France a Wimbledon, passando per le sempreverdi e mai in ferie competizioni di motori, fino al nuovo campionato di calcio).

Curiosamente, Aldo Grasso fa coincidere l’evoluzione della telecronaca con le tre fasi salienti dello sviluppo del mezzo televisivo in Italia (e in Europa): alle età della scarsità, della disponibilità e dell’abbondanza individuate da John Ellis, infatti, lo storico e critico televisivo abbina altrettanti momenti d’intendere, concepire e praticare l’accompagnamento vocale di una manifestazione sportiva in onda sugli schermi. Dal monopolio del servizio pubblico, con la narrazione didattica e rassicurante dei vari Carosio, Martellini e Pizzul, al linguaggio meno ingessato e condito di neologismi delle voci Fininvest (da Dan Peterson a Sandro Piccinini), fino alle “telecronache doppie”, ai tecnicismi, alle iperboli delle pay tv, la telecronaca attraversa non senza traumi i momenti di rottura della storia della tv, riflettendo epoche, costumi, ma anche le strutture industriali del sistema e dei singoli broadcaster.

Un genere che, nella tortuosa traversata della televisione italiana, ha saputo trasformarsi e adattarsi in più di un’occasione mescolando, di volta in volta, la funzione più freddamente informativa con il racconto di stampo narrativo, il commento personale con la ricerca dello spettacolo, consapevole che l’evento sportivo in televisione non è mai fenomeno in sé, ma pezzo di un più ampio e complesso meccanismo d’intrattenimento. Quali sono, allora, gli stili che si consolidano come più frequenti nelle telecronache sportive delle diverse fasi storiche e dei diversi canali? Ciascun modello di televisione porta con sé funzioni e modalità differenti d’intendere il genere? Quale rapporto si viene a creare tra l’eroe sportivo e il telecronista che ne racconta le imprese?

Questioni di stile

Lo stile delle origini, didascalico-pedagogico, in cui il telecronista usa un lessico sobrio ed essenziale, sopravvive ormai solo in alcuni epigoni del servizio pubblico (si pensi al misurato Francesco Pancani, attuale voce del Giro d’Italia e del Tour de France); un’impostazione che nel corso degli anni ha saputo raggiungere vette epiche, fatte di pathos, emotività, di una narrazione quasi romanzata che Adriano De Zan ha saputo esaltare nelle sue cronache delle corse a tappe di ciclismo, quasi fossero un flusso di eventi e coscienze con cui guidare lo spettatore fin sulle cime più impervie della gara. Più attratte dalle esigenze di spettacolarizzazione, ma sempre inserite dentro una dimensione di narrazione epica, sono le telecronache di motociclismo di Guido Meda (prima Mediaset, poi Sky), volutamente orientate a un linguaggio mitologico e popolaresco. Non è un caso, peraltro, che De Zan e Meda, così diversi e così uguali, siano forse le due voci che per lungo tempo hanno saputo più legare la propria professionalità alle gesta eroiche di atleti specifici e distintivi: le imprese di Marco Pantani da un lato, e di Valentino Rossi dall’altro, non sarebbero entrate nel mito e nell’immaginario collettivo senza le reiterazioni e gli slanci emotivi di coloro che le hanno raccontate. In icastiche attestazioni quali “Scatto di Pantani!” oppure “Rossi c’è!”, ritroviamo il legame stretto e inestricabile tra il campione e il suo “cantore”, colui che più di altri sa coglierne la natura eroica e raccontarne trionfi e umanità, ascese e declini.

Uno stile che ha preso piede negli ultimi anni è quello tecnico-specialistico, in cui il telecronista s’incarica di svelare meccanismi di natura tecnica, tattica o regolamentare non subito percepibili dallo spettatore. Il modello ha cominciato a proliferare con le telecronache di coppia, “a due voci”, con la voce narrante affiancata da un’altra (spesso, un ex atleta) per spiegare, illustrare, fornire chiarimenti e interpretazioni. Si tratta di un modo di concepire la telecronaca che in Italia segna il suo ingresso (e la sua fortuna) con l’esperienza della tv a pagamento (Telepiù, poi raffinata e perfezionata da Sky), ma che recentemente sembra essere scivolato verso una ricerca eccessiva del tecnicismo, quasi a voler dimostrare che lo sport non sia più solamente un gioco, ma una scienza, come ha sottolineato il linguista Claudio Giovanardi.

Proprio l’aver portato all’eccesso la ricerca di uno stile distintivo e un approccio tecnico e specialistico all’evento sportivo ha trasformato alcune telecronache in autentiche maratone di autoreferenzialità, dove a emergere è il telecronista come personaggio, i suoi tic, la ricerca ossessionata e ossessiva di un sensazionalismo a effetto finalizzato a definire il telecronista prima che l’evento o l’impresa sportiva. Se fino a pochi anni fa lo stile autoreferenziale albergava prevalentemente nel sarcasmo goliardico delle cronache della Gialappa’s Band (volutamente e deliberatamente parodiche), oggi la deriva personalistica sembra essersi impossessata anche delle telecronache classiche. Pur con sfumature e dinamiche che variano a seconda del contesto, voci come la coppia Sky Caressa-Bergomi, i commenti di Vittorio Munari per il rugby (su DMax) o il telecronista Rai dell’atletica leggera Franco Bragagna tendono a scivolare verso una retorica enfatica e spettacolare dove il giudizio tecnico si mescola – e soccombe – a un lessico tendente al parlato quotidiano, a un’atmosfera famigliare e privata.

Quando l’opinione personale è portata all’estremo, si scivola poi in uno stile partigiano, nel quale il coinvolgimento emotivo travalica il confine dell’obiettività e imparzialità. È il caso, naturalmente, dei cronisti-tifosi che affollano le tv locali (come pure i canali tematici legati a una singola squadra di calcio presenti nei pacchetti pay), ma che si ritrova anche in esponenti di altre scuole – più rigorose e istituzionali – nel momento di competizioni con protagonisti atleti o compagini nazionali. In questi casi, anche professionisti puntuti e sobri del servizio pubblico rischiano di essere catturati dal tifo scomposto ed esagitato; si ricordano per esempio, autorevoli telecronisti del passato travolti dal sentimento di appartenenza, come Paolo Rosi e il suo “Cova! Cova! Cova!” urlato a più riprese ad accompagnare l’italiano Alberto Cova sul traguardo dei 10mila metri ai mondiali di atletica del 1983. O come Aldo Giordani, storica voce del basket, con quel celebre “e adesso voglio proprio vedere questa medaglia d’oro chi può portarcela via”, che tradiva emozione e commozione, nei secondi conclusivi della finale dei campionati europei di Nantes del 1983; senza dimenticare, naturalmente, le appassionate cronache di Giampiero Galeazzi e le sue narrazioni delle imprese dei fratelli Abbagnale nel canottaggio.

Sempre più spesso, inoltre, alla dimensione classica della telecronaca si coniuga il ricorso allo spettacolo, funzionale a rendere il racconto dell’evento qualcosa di straordinariamente unico e distintivo nel panorama mediale contemporaneo. Ecco allora che la telecronaca sembra rispondere a imprescindibili esigenze di intrattenimento, con neologismi, reiterazioni capaci di trasformarla in un’esperienza esclusiva e riconoscibile, tendente ora verso la raffinata divulgazione tecnico-specialistica (si pensi alle telecronache di basket di Flavio Tranquillo), ora verso un racconto emozionale, come nella tradizione Mediaset di Sandro Piccinini e, più recentemente, Pierluigi Pardo, o ancora nell’inedita coppia Alessandro Antinelli e Andrea Lucchetta, con le loro telecronache del volley nel corso delle Olimpiadi brasiliane del 2016. Tutte voci (e linguaggi) che, in qualche modo, sono debitrici della storica accoppiata formata da Gianni Clerici e Rino Tommasi, portatori con le loro telecronache del tennis di uno stile originale riconosciuto anche al di fuori dei confini nazionali, capace di fondere racconto e fantasia, rigore e commento.

La questione della telecronaca come entertainment è, in alcuni casi, una sorta di debito pagato all’invasione di discipline e competizioni internazionali. Senza scomodare le spettacolari telecronache statunitensi dell’NBA e dell’NFL o le urla folkloristiche e interminabili dei commentatori sudamericani, basti ricordare la lezione della Bbc: “They think it’s all over”, la sentenza del leggendario cronista Kenneth Wolstenholme in occasione della vittoria degli inglesi ai mondiali di calcio del 1966, è divenuta nel tempo patrimonio collettivo della nazione al punto da essere utilizzata come titolo di un panel game sportivo in onda su Bbc1 negli anni Novanta e Duemila. La contaminazione tra sport e intrattenimento tocca il vertice con l’assegnazione del commento delle gare olimpiche di ginnastica a Matt Baker, popolare presentatore di show e magazine del servizio pubblico inglese: da Pechino 2008 a Rio 2016, passando per Londra 2012, Baker è riuscito a diventare una delle voci sportive più apprezzate, grazie anche al suo passato di ginnasta durante gli anni giovanili, mescolando passione, competenza e un’inevitabile conoscenza dei meccanismi e dei tempi del mezzo televisivo.

In icastiche attestazioni quali “Scatto di Pantani!” oppure “Rossi c’è!”, ritroviamo il legame stretto e inestricabile tra il campione e il suo “cantore”, colui che più di altri sa coglierne la natura eroica e raccontarne trionfi e umanità, ascese e declini.

Da “cantore” a star televisiva: il telecronista oggi

La telecronaca sportiva è ancora lo spazio privilegiato per raccontare l’impresa sportiva, trasformare l’atleta in eroe sedimentandolo nella cultura e nella memoria collettiva di una nazione o di una comunità; la logica riproduttiva dei media, inoltre, favorisce e consolida la figura del telecronista come parte essenziale e complementare dell’evento in questione. Negli anni più recenti, tuttavia, soggetta alla ricerca del tecnicismo specialistico o dell’intrattenimento spettacolarizzante, e allo stesso tempo compressa dentro la “colonizzazione” dei palinsesti da parte di un’offerta sportiva sempre più variegata e multiforme, la telecronaca pare aver smarrito la sua funzione esclusiva di racconto e rappresentazione dell’epica sportiva, migrata progressivamente verso altri generi come gli archivi, i documentari, lo storytelling di Sfide o degli speciali di Federico Buffa.

D’altro canto, è innegabile che telecronaca e telecronista hanno vissuto una trasformazione che li ha condotti lungo percorsi per certi versi antitetici e contradditori. Mentre la cronaca dell’evento sportivo si allontanava dallo stile asettico e informativo degli esordi per avvicinarsi al modello iper-specialistico, fatto di telecronache “scientifiche” ormai incapaci di leggerezza e orientate a prendersi troppo sul serio, allo stesso modo i telecronisti – in particolare quelli dei network commerciali e a pagamento, ma non solo – sono diventati personaggi popolari, in alcuni casi sempre più assimilabili a veri showmen, sia personalizzando e travisando il proprio ruolo, sia divenendo figure televisive e mediali a tutto tondo. Come spiegare altrimenti l’evoluzione di voci (e volti) quali Fabio Caressa e le sue ospitate nei programmi di cucina della moglie Benedetta Parodi, o la duttilità di un Pierluigi Pardo, mattatore di Tiki Taka con cui ha riscritto a modo suo l’antico genere del “calcio parlato”, chiamato nel 2016 a condurre un talent show di politica e attualità come Maggioranza assoluta? Personaggi che ridisegnano l’immagine del telecronista, curiosamente abile a presidiare generi più larghi e trasversali, a spopolare con successo oltre il piccolo schermo, dalla radio ai social network. Parabole che segnano un ulteriore momento di rottura nella lunga storia di reciproca interdipendenza tra lo sport e la sua rappresentazione televisiva, di evoluzione di un genere insostituibile nel raccontare in presa diretta la storia (sportiva) mentre si compie, di un tentativo costante del mito sportivo di consolidarsi, tra epica e tragedia, presso il pubblico frammentato e disorientato nell’epoca dei media globali e digitali.

Rimane, tuttavia, il fascino indiscusso di un mestiere che nei decenni ha popolato l’immaginario di milioni di appassionati, producendo decine di professionisti indimenticati. E come una ruota che gira, è forse nelle giovani voci di Fox Sports (coordinate da Marco Foroni, inconfondibile ex telecronista Sky), che oggi si può ritrovare l’essenza della telecronaca moderna, il gusto del “passo indietro” di fronte all’icona sportiva, al suo gesto tecnico o alla sua impresa, l’equilibrio non facile tra informazione, divulgazione tecnica e coinvolgimento emotivo. Nella certezza, o almeno nella convinzione che, alla fine, basti un “Campioni del mondo!” che trasudi passione e autorevolezza per entrare nel mito.


Paolo Carelli

Svolge attività di ricerca presso il Ce.R.T.A. (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi) ed è coordinatore didattico del Master “Fare TV. Gestione, sviluppo, comunicazione” dell’Università Cattolica di Milano. Tiene corsi sui media presso lo stesso ateneo e l’Università di Bergamo.

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