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Totti e Ilary, la royal couple d’Italia

Altro che Windsor, le storie parallele e poi incrociate del calciatore e della conduttrice sono la vera narrazione a lieto fine di cui tutti abbiamo bisogno. Tra stadi, televisione, e ora anche fiction.

Forse non era esattamente ciò che intendeva Nietzsche nella Gaia scienza con “eterno ritorno”, eppure eccoci qua, nel 2021, di nuovo rapiti dal racconto della monarchia britannica. La generazione dei miei genitori ha avuto Carlo e Diana, la mia adolescenza William e Kate, e adesso, come un uroboro tempestato di diamanti su cui scorrono orrendi titoli di tabloid inglesi, anche Harry e Meghan ci regalano un bel pezzo di gossip spacciato per history in the making

Pensare una vicenda simile in Italia è impossibile, prima di tutto perché l’Italia è stata una monarchia breve, sgangherata, discontinua e francamente ridicola, secondo perché Emanuele Filiberto ha già dato fin troppo al nostro Paese, Pupo e gli orchestrali di Sanremo ne sanno qualcosa. No, i nostri reali non sono i Savoia, non sono nemmeno gli Agnelli, divisi tra l’austerità di Susanna e i bagordi crepuscolari di Lapo; non sono i Ferragnez, goffi borghesi vittoriani più che monarchi investiti da Dio stesso. C’è una sola coppia in grado di portare sulle spalle il peso di un potere secolare – ma soprattutto iconografico – esercitato giusto a un passo dalla residenza del Papa: la royal couple dei noantri, Francesco Totti e Ilary Blasi, tanto nobili quanto popolari, il re del pallone lui, la regina della televisione lei.

L’ottavo re di Roma

Quando il Napoli vinse lo scudetto nel 1987, fuori dal cimitero scrissero “Non sapete che vi siete persi”; il giorno dell’ultima partita di Francesco Totti allo stadio Olimpico, trent’anni dopo quello scudetto partenopeo, il 28 maggio 2017, uno striscione dice “Speravo de mori’ prima”. La capacità di sintesi e di ironia malinconica dei tifosi è un dono prezioso per la costruzione popolare dell’identità di una città, e per chi, come me, non segue il calcio ma solo i suoi epifenomeni, le tribune sono come il coro della tragedia greca, un’entità maggiore delle sue singole parti che fa da sfondo al racconto eroico del campo. Uno stormo di storni coordinati e perfetti nel loro insieme, come quelli che si vedono a Roma e che il regista di Mi chiamo Francesco Totti, Alex Infascelli, ha intelligentemente inserito nel suo documentario del 2020 sul Capitano – quello vero, non quello in felpa. Ed è quella frase da striscione così tragicomica che dà il titolo alla serie del 2021 di Luca Ribuoli, Speravo de morì prima, tratta dalla biografia di Totti Un capitano, ennesimo prodotto che riporta l’attenzione su un personaggio che trascende il ruolo dello sportivo: Totti è un mito, un eroe, un anti-eroe, un sovrano, un capitano, un nemico giurato, un simbolo, un santo. Tracciando una linea che parte dalla sua infanzia a Porta Metronia e arriva a quel fatidico giorno di primavera in cui la caput mundi piange lacrime di sgomento, si ricrea una circolarità epica e totale. Nell’epica, secondo Lukács, l’eroe non è un individuo ma il rappresentante di un’intera civiltà; nel romanzo, che infatti non ha una vera e propria fine, l’eroe moderno è frammentato perché la totalità del mondo attorno a lui si è interrotta. 

La fine della carriera di Francesco Totti, come in un poema epico, chiude la narrazione condivisa del popolo che rappresenta: Totti è Roma, ma Roma è l’Italia, l’antichità, il caos, la bellezza – quella grande di Sorrentino, quella misera di Pasolini, quella onirica di Fellini, quella sorniona di Alberto Sordi, quella della pax di Ottaviano Augusto – e il suo racconto non può essere slegato da tutto ciò che lo circonda, compresa la proverbiale monnezza. Non è mai andato via da una squadra che più che la gloria sportiva gli ha dato l’immortalità simbolica, depurando il calcio, seppur da un punto di vista superficiale, delle sovrastrutture terrene fatte di compravendite e scambi. Neppure il Real Madrid lo ha sedotto, e sebbene i premi non siano nemmeno così tanti nella carriera rispetto alla portata della sua essenza calcistica, quest’anno ricorre il quindicesimo e il ventesimo anniversario di due eventi fondamentali: il Mondiale del 2006, con quel rigore all’Australia dato prima con gli occhi e poi coi piedi, lo scudetto del 2001, quando il tifo ha rischiato di sovrastare la razionalità e annullare tutto, invadendo il campo prima ancora della fine della partita. Francesco Totti però, non è solo il simbolo di una squadra e di una città nella quale non ha più potuto mettere piede da quando ne è diventato re per investitura popolare – un dono che, paradossalmente, gli ha fatto il Covid, quello di poter di nuovo passeggiare in centro, bardato sotto la mascherina, ma togliendogli il padre, colonna portante della sua formazione, “lo sceriffo”. 

Totti è un personaggio della cultura nazionalpopolare, un volto amico persino per i nemici, rispettato dagli avversari e venerato dai discepoli, che va oltre il suo ruolo sportivo: libri, serie tv, documentari, programmi tv, spot pubblicitari, barzellette. Il Forrest Gump del calcio italiano, tutt’altro che scemo ma perfettamente in grado di farlo credere, con quella parlata laconica, il sorriso a metà e le gaffe che se fossero scritte non sarebbero mai così divertenti – come quando a Sanremo disse “sciopè” leggendo “Cheope”, subito rincuorato dalla mano materna di Maria De Filippi sulla spalla e da un suo classico “Nun se vede niente” – Totti sembra aver seguito inconsapevolmente il consiglio di Robert Downey Jr. in Tropic Thunder per diventare un comico di altissimo livello: “Never go full retarded”, il segreto della comicità sta proprio in quell’essere in bilico tra il ci è e il ci fa. E se non bastano i libri di freddure e le interviste per dare prova del genio comico del Pupone, basti guardare gli sketch con Del Piero, capolavoro di autoironia, un talento di cui purtroppo non sono in molti a essere dotati nel calcio. Pochi sportivi riescono a farsi notare da tutti fuori dal terreno di gioco, Totti ci è riuscito così bene da essere forse più vivo ora di quanto non lo fosse in campo.

6 unica

La vulgata ormai obsoleta della “grande donna” dietro al “grande uomo” crolla rovinosamente se guardiamo la storia di Ilary Blasi, first lady in casa Totti che, semmai, rimanendo in tema dimensioni umane, si trova più a suo agio a schiacciare “piccoli uomini” con precisione da spadaccina – così definì l’allenatore della Roma, tanto da indurre Spalletti a regalarle un LP della celebre canzone di Mia Martini. Definirla “la moglie del Capitano” è miope, nonostante lo status le conferisca un rispetto nella comunità dei romanisti che in confronto un gruppo di autocoscienza femminista anni Settanta è misogino: Ilary Blasi, che già nel nome insolito porta con sé il destino dello spettacolo – il padre è appassionato di film western –, è una enfant prodige della tv. Comincia da bambina con le pubblicità – che continua a girare, storico il suo spot per Bilboa –, approda a vent’anni su Canale 5 in qualità di letterina, al fianco di papà Gerry e di colleghe e amiche storiche, in anni in cui il ruolo della valletta aveva ben altri significati, ma è troppo brava e magnetica per limitarsi a quegli stacchetti a suon di “uh-la-la-là”. 

Diventa annunciatrice di Fabio Fazio, da cui poi rivela la sua prima gravidanza in un momento per il conduttore di rara spontaneità, presenta Sanremo e il Festivalbar, diventa un simbolo di quella moda anni Zero tutta vita bassa, meches e sopracciglia finissime. Poi Le iene, Grande fratello vip e ora L’isola dei famosi, Blasi è una matrona della tv italiana, vendicativa, furba, divertente, goffa dove serve, spigliata. Abbaglia tutti con quei tratti che sembrano disegnati da Milo Manara, un’Ornella Muti in chiave Mediaset. Quando Totti la vide in tv, narra la leggenda del ratto della letterina, disse “Quella me la sposo”, poi la maglia in campo che a caratteri cubitali urlava “6 UNICA”, da lì un’unione di sensi e di obiettivi che nemmeno il più perfido Iago, lo scaltro Corona, ha scalfito con i suoi pettegolezzi. Un’affaire, quello Vento-Totti-Blasi, che gli si è ritorto contro nel più shakespeariano dei finali: Ilary aspetta pazientemente 13 lunghi anni, poi lo incastra come un topo in gabbia, lo tiene con il volume basso in collegamento dalla casa del Grande fratello vip solo per ricordargli di che piccolo uomo sia, altro crollo sotto al tacco pungente della regina. Se lo sport di Totti è il calcio, quello di Ilary è far cadere a pezzi chi contraddice e minaccia la sua egemonia, e ci riesce con maestria, tanto da farti tifare istintivamente per lei; diciamo, quando capita, anche lei gli fa er cucchiaio

Né Ilary né Totti poi muovono un dito fuori dal loro regno, e Blasi ha avvertito tutti in vista di possibili prolungamenti della sua nuova avventura televisiva, in caso di un destino simile all’esperimento in stile “Non si uccidono così anche i cavalli?” che è stata la quinta edizione del Grande fratello vip. Blasi ha avvertito: “Io resto tre mesi, poi a giugno vado a Sabaudia”, e se non è empowering un’uscita del genere mi domando cosa dovrebbe esserlo. Altro che stakanovisti e crumiri del servizio pubblico, se la regina è stanca va a riposarsi quando e dove le pare, contro ogni principio lavorista di colleghe e colleghi. 

Casa Totti

Intervistata dalla sua storica amica Silvia Toffanin, Ilary Blasi dice che la cosa più dolce che può dire di suo marito è che la guarda ancora come se fosse il primo giorno, tanto da farle pensare che forse “s’è impallato”. Se dovessi trovare un senso alle favole sui principi e sulle principesse, sarebbe esattamente questo: cosa succede dopo che la bella addormentata Aurora e Filippo si sposano? Come trascorrono il tempo Belle e la Bestia una volta portata a termine la transizione da mostro peloso ad aitante umano? L’unico royal wedding italiano degno di questo nome, quello celebrato al Campidoglio con tanto di Andreotti e i diritti venduti a Sky – devoluti in beneficenza, sulla filantropia i coniugi sono impeccabili – è anche la storia di cui conosciamo sia il principio che lo svolgimento, ciò che succede nel fatidico happily ever after, il primo bacio in macchina vinto per una scommessa, la fiancata della Ferrari sbriciolata da Ilary con un colpo al muretto, il brand di coppia Never Without You, magliette di lycra, scritte di strass, capelli ingellati. Nel suo articolarsi anno dopo anno, infatti, il matrimonio tra Ilary e Francesco diventa sempre più bello agli occhi di noi sognatori, anche quelli più cinici, perché sembra la prova di un’idea di ideale, dove né soldi né successo interferiscono con un principio platonico di complementarità tra i due che supera il topos, facile alla corruzione, del binomio calciatore e velina per consacrarsi all’eternità. 

Casa Totti, dunque, è una sitcom divertente perché è sincera: Totti che mangia le mozzarelle di nascosto, Ilary che insegue il topo di casa, la gatta sfinge che si chiama Paola mentre ai figli, da bravi reali del popolo, sono dati nomi eccentrici e ben vengano le costanti prese in giro da tutto il mondo dello spettacolo, “Cocò Tottì” diceva Luciana Littizzetto, a proposito della secondogenita Chanel. E poi, come dimenticare le origini dell’amore, i Montecchi e Capuleti del Grande Raccordo Anulare, lei di famiglia biancoceleste, lui princeps giallorosso, una contrapposizione che si mantiene in tutto l’arco narrativo della storia attraverso due caratteri opposti, tanto pungente e logorroica lei, quanto taciturno e bonaccione lui. La verità è che i Totti sono così accattivanti perché sembrano aver compiuto un’opera di stravolgimento dei codici principeschi, un po’ come avviene nel famoso cartone animato Shrek dove la principessa Fiona preferisce rimanere orco piuttosto che rinunciare alla felicità dell’amore vero: invece di innalzarsi loro sul trono, ereditando codici e stilemi della nobiltà, hanno portato la corona per strada, come dicono gli inglesi, appunto, che di aristocrazia ne sanno qualcosa, down-to-earth.

Sebbene la loro vita sia a tutti gli effetti quella di una casata reale, congelati in un universo parallelo in cui il contatto con la realtà è ridotto a nulla, sebbene Totti non possa mettere piede nella sua città senza essere sommerso dall’adorazione dei suoi concittadini e sebbene la loro immagine sia a tutti gli effetti la cosa più vicina al dipinto di un re e una regina, nessuno direbbe mai che Ilary e Francesco azzardano un qualsivoglia vezzo aristocratico. Sia che si tratti di programmi come Celebrity Hunted che di stories su Instagram pubblicate senza troppa cura formale, ogni stralcio di quotidianità nel loro castello è un concentrato di comicità spontanea. Forse l’unico vero ingrediente che rende qualsiasi racconto, anche il più surreale come quello di personaggi che vivono ad anni luce dalla realtà dei comuni mortali, una favola a lieto fine. Perché per quanto si possa ricercare la vicinanza con il popolo facendosi intervistare in un pollaio, non c’è niente di più posticcio e artefatto di volersi rappresentare come qualcosa che non si è. La classe non è acqua, certo, ma la simpatia nemmeno. 


Alice Valeria Oliveri

Autrice e musicista, si è laureata alla Sapienza in anglistica con una tesi di teoria della letteratura. Scrive su diverse testate online di cinema, tv, serie televisive, musica e attualità. Ha collaborato con Dude Mag, VICE, Noisey, Motherboard, Prismo, The Towner e The Vision, dove è stata redattrice.

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