Alle soglie del finale di Game of Thrones vale la pena fermarsi a riflettere. Per capire le ragioni dell’importanza del titolo Hbo. E quanto lo scenario è cambiato intorno.
L’inverno è arrivato, il Night King pure, e Game of Thrones finirà. Eccomi, sono alla terza puntata mentre scrivo questo pezzo, e sono già nostalgica, rimpiangerò Il trono di spade perfino per il suo doloroso modo di falcidiare i protagonisti. O forse sto rimpiangendo altro, un certo modo di scrivere, produrre, vedere le serie televisive.
Ho intervistato Daenerys, Jaime e Ned, quando ancora non erano Daenerys, Jaime e Ned. Era il 2011, ero al festival della tv di Montecarlo, e gran parte del cast era lì. La serie non era ancora andata in onda, era giugno, mi pregarono di intervistarli. Otto anni dopo, mi ritrovo a Napoli, al Comicon, a intervistare persino un comprimario dei protagonisti citati, Bronn, e ad assistere a un panel per fan con la platea stracolma di persone infervorate. Gli fa una domanda persino uno in cosplay da Night King.
Sì, sono passati otto anni e adesso siamo di fronte al “fenomeno cult”, termine abusato ma corretto. Come abusato e corretto è chiedersi se la fine di tale mondo narrativo non segni anche la fine di una stagione artistica. O quanto meno un suo cambio di passo. La saga televisiva creata da David Benioff e D.B. Weiss dai romanzi di George R.R. Martin è infatti anche uno degli esempi più spettacolari di quella quality tv la cui definizione risale al 1996 e a Robert J. Thompson: “La tv di qualità è meglio definita da quel che non è. Non è la tv normale […] ma la versione televisiva del film d’arte”. Uno stile con proprie caratteristiche, legate a uno specifico contesto fruitivo, produttivo, economico, artistico, nato negli anni Ottanta e diffuso con il passare dei decenni fino a diventare predominante. Non tutte le serie che possiedono le caratteristiche della quality tv sono “film d’arte”, anche perché ormai lo stile è diventato “tv normale”. E poi è minacciato dal moltiplicarsi di piattaforme e titoli, e persino dal binge watching: al mutare del contesto, cambia anche il fare artistico. Game of Thrones potrebbe dunque incarnare uno degli ultimi grandi fenomeni legati all’applicazione più precisa e coerente della quality tv.
Stephen King e la domanda a cui non rispondere mai
Dopo la seconda puntata dell’ottava stagione, Stephen King ha twittato così:
“GoT: As a long-time storyteller, I’m in awe of how perfectly the minds behind this show brought all the major characters together at Winterfell. They made it look easy. Constant Readers, it is not”.
Come dargli torto. Certo, sembra facile aver radunato tutti i personaggi che amiamo a Winterfell (tranne uno, la donna che amiamo odiare, la nuova J.R., Cersei). Sembra facile, e invece no, perché ogni mossa, sguardo, parola dei quei personaggi risuona di mosse, sguardi, parole accadute magari anni fa, stagioni fa (non li ricordiamo proprio tutti, ma per fortuna c’è il web…). La nostra memoria è legata alla memoria dei personaggi e alla memoria del racconto. Ormai ci siamo abituati, ma non è sempre stato così. Sappiamo ormai la differenza tra Il tenente Colombo e ER, e anche tra ER e 24: dagli anni Ottanta, le linee narrative dei telefilm (oh sì, mi piace questo termine, per alcuni vetusto) cominciano ad aprirsi, a esplorare il tempo nella sua evoluzione cronologica, a viaggiare di episodio in episodio, anzi di puntata in puntata. All’inizio il meccanismo si applica solo ai plot personali e sentimentali dei personaggi, poi a tutti i plot: la serialità si fa spinta, nasce l’iperserialità. Il trono di spade, si dice, è in fondo una grande soap. E lo è, certo, come in parte lo sono stati Mad Men o Breaking Bad, proprio perché la scrittura tv inizia ad abbandonare la serie classica, chiusa e conclusa narrativamente in ogni segmento, e a far propri i meccanismi del serial, di cui conosciamo bene un sottogenere, la soap.
La memoria della quality prende spunto, ma è diversa da quella della soap. L’abbandono della chiusura di ogni segmento settimanale favorisce infatti la narrazione indeterminata, la complessità dei personaggi, la tematica ambigua. L’iperserialità rende la struttura del telefilm complessa perché prevede una struttura sempre aperta, in evoluzione. Una narrazione che si distacca dallo stile “basso” della soap per forma, contenuti e realizzazione. E che fa a meno della costante ridondanza di quest’ultima, anzi volutamente sfida l’attenzione e la memoria dello spettatore (dobbiamo controllare l’albero genealogico delle famiglie di Westeros più volte a puntata). Il diffondersi dell’iperserialità porta la maggior parte delle serie a fare propria in maniera più o meno evidente una certa sospensione di senso. Il tempo scorre, molto cambia, non abbiamo più di fronte personaggi “fissati una volta per tutte”. Certi titoli portano avanti quella che Matt Hills ha chiamato la “narrazione costantemente differita”: se la soap rilancia di continuo temi e questioni, senza che ve ne sia uno di primaria importanza, il costante differimento della serialità riguarda un sola questione e un insieme di domande a questa relative. È il cosiddetto myth arc di una serie, l’arco mitologico che regge l’impianto narrativo interepisodico.
“Chi salirà sul trono di spade?” è la domanda delle domande, la cui risposta è differita per anni e anni e che si amplifica in tante, tantissime linee narrative portate avanti di puntata in puntata. Alcune si sono esaurite, altre sopravvissute sono arrivate fino a Winterfell, per combattere la battaglia contro il Night King. E adesso si divaricano e si scontrano ancora per la conquista del trono. Sembra facile ora, ma non lo è affatto, ha ragione l’altro King: ci vuole una sapiente costruzione seriale. Ci vuole anche un tocco raffinato, perché la battaglia contro i non morti non era il punto chiave della storia. Lo è diventata nelle ultime due stagioni, e questo ha permesso di differire ancora e ancora il momento in cui qualcuno salirà sul trono. C’è da chiedersi se, risolta tutta questa linea così carica (sì, con un classico trucco del genere “fantastico”: il cavaliere/Arya che uccide il nemico all’ultimo, allentando in un colpo tutta la tensione), adesso ci importi davvero, ancora, del trono…
Siamo tutti Annie Wilkes
Stephen King però fa un’altra cosa nel suo tweet. Chiama i suoi fan, come fa spesso, constant readers. Ebbene, è così che chiama, in Misery non deve morire, anche la folle Annie, lettrice e spettatrice seriale nonché serial killer (un dettaglio, suvvia). È quella che raccontando di Rocket Man, il suo film seriale preferito tra quelli degli anni Trenta e Quaranta, dice: “Mi capitava di ripensarci durante tutta la settimana, nei momenti più strani […]. Per tutta la settimana non ho pensato solo ogni tanto a Rocket Man. Ci ho pensato sempre”. Questo, descritto da Annie, è il principio cardine della serialità così come la conoscevamo prima del binge watching. Che non è un’invenzione di Netflix: ci si sbronzava di telefilm già prima, grazie ai dvd e ai festival. Erano però seconde visioni, mentre da quando si diffondono insieme tutte le puntate si applica anche ai titoli nuovi. Una modalità fruitiva che sta cambiando la serialità: non conta, sembra, l’attesa, ma la velocità di consumo. La scrittura si adegua a nuovi algoritmi di visione, diluendo invece di dilatare, semplificando invece di addensare, senza creare domande iniziali capaci di reggere anni. Perché conta buttar fuori tanti titoli piuttosto che farne durare alcuni a lungo. Come può funzionare il differimento costante della narrazione e il suo moltiplicarsi seriale di settimana in settimana, di anno in anno, se vogliamo “vedere come va a finire in fretta e furia”? Come potremmo gustarci mosse, sguardi e parole dei personaggi se la memoria che questi si portano dietro è schiacciata dal nostro consumo spasmodico? Sì, scusate, sono come Annie.
Il trono di spade dimostra come questo meccanismo classico sia ancora potente a livello sia estetico sia economico. Fa più una fiammata di qualche giorno di binge watching o mesi di ossessione che si ripete uguale per anni? Non solo narrativamente, ma per creare attenzione e curiosità attorno a un titolo, e richiamare spettatori sempre nuovi. La serialità condivisa, sebbene non più così perfettamente sincrona come una volta per via di on demand, + 1 e differite, porta gli spettatori a sentirsi una comunità, come dimostrano le reazioni, addirittura riprese in video, diffusesi online dopo la battaglia di Winterfell. Forse la nostra attenzione non dura uguale per tutta la settimana come accadeva a quella pazza di Annie, ma il gioco di attesa, consumo, attesa calante e poi di nuovo in crescendo è stato per anni uno dei capisaldi della scrittura seriale, che ha permesso proprio quella espansione, quella densità, quella complessità del racconto che tanto di piace. Intendiamoci: non è che non ci potranno più essere serie capolavoro, ma lo stile quality sta subendo forti scossoni, anche per via di altri mutamenti.
Non è un caso allora, credo, che il primo e soprattutto il secondo episodio dell’ottava stagione del Trono siano un gioco sulla memoria degli spettatori e dei personaggi, che si trovano cambiati negli anni e si guardano e si parlano portandosi dietro un vissuto profondo. Il Night King, dice Bran, vuole cancellare la memoria del mondo, perché la Morte, spiega Sam, è l’oblio, è non avere memoria di chi eravamo: ricordare serve a noi spettatori, serve ai personaggi, e allora il tempo va vissuto e non consumato. La battaglia è differita in maniera palese, la notte della vigilia è un lungo esercizio sull’occupare il tempo in attesa di qualcosa di grande, del nostro Rocket Man. Tyrion, Jaime, Davos, Brienne, Tormund, Podrick che attendono di fronte al fuoco la battaglia siamo noi. Vogliamo che l’attesa finisca, e allo stesso tempo non vogliamo che finisca. Sarà pure l’era del binge watching, ma in questo 2019 non solo aspettiamo la fine di Game of Thrones, iniziato nel 2011, ma anche quella degli Avengers, cominciata nel 2008…
Come può funzionare il differimento costante della narrazione e il suo moltiplicarsi seriale di settimana in settimana, di anno in anno, se vogliamo “vedere come va a finire in fretta e furia”? Come potremmo gustarci mosse, sguardi e parole dei personaggi se la memoria che questi si portano dietro è schiacciata dal nostro consumo spasmodico?
Densità e complessità: la tridimensionalità
L’iperserialità apre allo scorrere del tempo, alla memoria, al differimento. Apre la scrittura tv a una prima stratificazione, favorendo e poi legandosi ad altri mutamenti del telefilm: il cast corale e la moltiplicazione dei plot. Ogni personaggio in questo “viaggio nel tempo” si porta appresso la sua linea esterna (il fare, il plot) e la sua linea interna (le emozioni, il subplot, che ha pari dignità del fare, e anzi è più importante, ha un impatto maggiore sugli spettatori). Plot e subplot non si esauriscono come prima in una puntata, ma durano più puntate (diventano running). Non solo: ogni personaggio può variare i suoi plot e subplot all’interno del running plot generale, legato alla narrazione differita.
Moltiplicate tutto questo per il numero dei personaggi, e capirete che quando Sansa guarda o parla con Daenerys, Jon o Theon si porta dietro in una sola scena una stratificazione narrativa abnorme, un reticolo articolato che lega tutti i personaggi, e che rende in questo senso, sì, la tv “meglio del cinema”. Nelle sue migliori espressioni, più densa e complessa a livello di struttura drammaturgica: la quantità di tempo diventa qualità del racconto. Non si procede più solo per linee verticali e orizzontali. Quello che conta è come tutte queste linee creino un intreccio che va esplorato non solo in superficie ma anche nel suo spessore. Il disegno della trama non è solo bidimensionale, ma tridimensionale.
La struttura narrativa ha linee narrative multiple, disgiunte e frammentate, e il ritmo cresce perché ci sono più fili da gestire. È come esaminare le stratificazioni geologiche. Il telefilm si fa denso. Questa stratificazione necessita temi forti, non esauribili in un singolo episodio, e viceversa. E di personaggi a tutto tondo e ambigui, e viceversa. Personaggi passibili di costanti mutamenti nel corso della storia: il tempo scorre, ci muta o ci svela. Ecco perché Il trono di spade può essere un trattato sul potere in tutte le sue forme. Ecco i personaggi lontani dagli eroismi per investitura tipici del fantasy, o il mutamento estremo quanto giustificato dei personaggi femminili. Se non c’è chiusura, se i fili narrativi sono tanti, allora questi vanno sospesi sempre, a livello drammatico come di significato: il vagare dei personaggi per molte stagioni, la sospensione del giudizio sulle gesta di molti protagonisti, il cambio di prospettiva di puntata in puntata. Anche certe scene che parevano ridondanti o inutili adesso hanno peso e senso: se Daenerys non avesse ucciso il padre e il fratello di Sam Tarly, quest’ultimo avrebbe dichiarato in modo così violento a Jon la verità sulla sua identità?
Tutti i mondi possibili in un mondo
Complessità significa un testo denso, saturo, ricco. Un testo iperdiegetico, a creare un vasto e dettagliato spazio narrativo di cui è esplorata solo una frazione nel testo principale. Un universo coerente, ricco, continuo e profondo: Westeros, che abbiamo attraversato e perlustrato, un mondo tanto fisico quanto dello spirito, di cui conosciamo i dettagli, dai ricami di un abito ai sentimenti di un personaggio. Certo, da alcune stagioni questo mondo ci pare più chiuso e prevedibile, non tanto (e non solo) perché non ci sono più i romanzi di Martin a guidare gli sceneggiatori, ma perché ci stiamo avvicinando alla fine e l’espansione deve ridursi, ahinoi, perché il mondo ricreato in fiction non è mai infinito come il nostro.
È per questo che le azioni dei personaggi ci paiono più “scontate” e prevedibili. Quello che fino a qualche stagione fa era caos di possibilità, ora diventa due o tre opzioni, fino a diventare un’unica soluzione, e dunque destino (no, non citerò Lost… vabbè, l’ho fatto). È il motivo per cui in queste puntate ritroviamo citati molti oggetti, mosse e parole delle prime puntate, ben diversi però per senso e carica emotiva. È il motivo per cui Bran ripete a Jamie e Theon di non scusarsi del passato, perché è quello che hanno fatto prima ad averli condotti lì, alla battaglia contro il Male. È il motivo per cui Arya che uccide il Night King ci appare una scelta ovvia. È vero: possiamo (la memoria!) rintracciare tutti gli indizi precedenti di questa predestinazione nel suo passato (“Not today”). Ma lo possiamo fare solo adesso, a posteriori, tirando un preciso filo narrativo nel marasma di eventi precedenti. Non avremmo mai potuto pensarlo prima. Sembra facile, costant readers, ma non lo è.
Non a caso il titolo originale è Game of Thrones: questo è un gioco che potrebbe estendersi all’infinito, un gioco di mondi possibili. Lo spiegano bene due personaggi, nella stessa puntata, la terza della settima stagione. Così dice Lady Olenna a Jamie Lannister: “Whatever I imagined necessary for the safety of House Tyrell, I did. But your sister has done things I wasn’t capable of imagining. That was my prize mistake. A failure of imagination. She’s a monster, you do know that?”. E così dice Ditocorto a Sansa: “Don’t fight in the North or the South. Fight every battle everywhere, always, in your mind. Everyone is your enemy, everyone is your friend. Every possible series of events is happening all at once. Live that way and nothing will surprise you. Everything that happens will be something that you’ve seen before”. Pensare a tutti gli eventi possibili e non mancare di immaginazione. Vale nella vita, vale quando si scrive un romanzo-serie-mondo come Il trono di spade. Forse questo è il senso ultimo del lavoro di Martin, Benioff e Weiss. Solo che alla fine alcuni punti fermi li devi pur mettere, e così è la parte emotiva dei tuoi personaggi e dei tuoi spettatori che andrai a privilegiare. È la regola dell’Endgame (sì, sto giocando con altri riferimenti…).
Il fantasy realistico (e il gioco dei generi) che ti ha fregato
A partire dagli anni Ottanta, la tv, cosciente delle sue possibilità visive, ha dato il via a una progressiva rivoluzione, piegandosi alla televisuality, secondo la definizione di John T. Caldwell nel libro omonimo. Con la quality, lo stile visivo diventa un fattore fondamentale, non più un vezzo. Accade anche con Il trono di spade. A dispetto del genere, il fantasy, la serie sceglie la via del realismo. E proprio per questo fa un enorme favore al fantasy. Il problema principale quando Game of Thrones va in onda è poter reggere il confronto visivo con quanto finora si era visto al cinema, con l’ultima grande esperienza di fantasy collettivo tratta dal classico dei classici, Il signore degli anelli. Così all’inizio Il trono di spade vuole racconto più che spettacolo. Westeros può essere percepito come un doppio di un lontano passato dell’Occidente e una metafora di tanti, troppi turbamenti attuali. Fotografia, regia, costumi, tono: vince il realismo, il più vero del vero, anche il più esplicito e crudele se si tratta di scene di sesso e morte, in linea però con lo stile Hbo. Ogni tanto il realismo diventa iper-realismo, nel momento in cui ogni singolo frammento del mondo di Westeros si carica di particolari, fin dalla celebrata sigla.
Il realismo però è anche ricerca, grazie alla complessità narrativa, di sottigliezze psicologiche. Il dramma familiare si fa più stratificato e le scene di dialogo prendono il sopravvento. La serie è anche un atipico political drama, che esaminando un passato lontano senza democrazia diretta pare più abile nel mostrare le varie forme di potere e di gestione del presente, ben più di House of Cards. Il realismo si adatta al romanzo di Martin e permette alla serie di differenziarsi dal cinema, di non sfidarlo sulla spettacolarità. E soprattutto il fantasy si mostra (e si comunica) come diverso dagli “altri”. Più adulto. E frega così tutti quelli che “il fantasy no, che palle, dai, non è credibile”. Basta poi, una volta creata la trappola, inserire poco per volta gli elementi magici, fino a farli diventare grandi come i tre draghi. Sei avvinto da quel mondo, e indietro non torni. Lo stesso vale per l’esercito del Night King, temibile come un’armata ma allo stesso tempo magica. Zombie, in fondo, che svelano la loro identità quando un’altra serie sul tema è al suo apice creativo, The Walking Dead. Due generi di nicchia diventano mainstream. Paradosso della quality. Paradosso di genere: credi all’armata dei non-morti perché quell’immaginario ti è più familiare di quello delle fate. E lo spettatore che odia (odiava?) il fantasy si ritrova ora ad assistere con tormento alla battaglia tra due draghi e il loro fratello zombie. A dirglielo otto anni fa, vi avrebbe riso in faccia.
Il realismo crudele però torna, prepotente, nelle scene di guerra, altro elemento de Il trono di spade. La Battaglia dei Bastardi smarca il fantasy televisivo dal confronto con il cinema. I due media possono lottare ad armi pari. L’ultima stagione porta con sé la Battaglia di Winterfell. Colossale per numeri, budget e durata. Il regista ha parlato di riferimenti quali Il signore degli anelli e i survival horror. Non può essere che così, dato che si tratta della lotta contro un essere magico, il Night King. È una battaglia che usa tutti gli artifici spettacolari, del fuoco e del ghiaccio, dei draghi e degli zombie, soprattutto nel finale con Arya. Eppure, ancora, c’è il realismo di una guerra vista come mischia, concitazione, confusione in cui perdersi. E dunque quel buio quasi totale come scelta visiva, così fuori dagli schemi che per alcuni è parso fin troppo (complici forse problemi di settaggio tv e compressione video). È però una scelta di stile, perché anche in televisione ora lo stile fa il racconto. Stile. Sta tutto qui.
Aspettando la fine
Non so come finirà il Trono di spade. Chiudo questo articolo prima della quarta puntata. Bronn, anzi l’attore Jerome Flynn, mi ha detto che sarà difficile accontentare tutti, perché quando una serie è così amata il pubblico ha aspettative altissime. Lo si è già visto: la battaglia di Winterfell non ha convinto tutti. Sarà che il fantasy prende il sopravvento, e quelli fregati dal realismo iniziale alzano il sopracciglio. Molti si aspettavano qualcosa di diverso: c’è chi è rimasto deluso perfino dalla piccola Lyanna, che ha “solo” ucciso un gigante. C’è chi voleva più morti tra i personaggi maggiori perché eravamo abituati così: cari constant readers, mai darvi quello che vi aspettate, darvi sempre invece quello che desiderate ma non ammettereste mai. Gli autori hanno giocato con le emozioni, perché quello conta adesso.
No, non so come finirà, ma non è la fine che mi interessa quanto il come ci si arriverà. So che qualcosa mi deluderà comunque, perché non posso pretendere di avere tutto come voglio io: dovrei rapire gli sceneggiatori e Martin, legarli a un letto, far loro del male per costringerli a scrivere come voglio io… Ma cosa voglio io? Alla fine non voglio davvero decidere, che siano gli autori a farlo! La tv ci ha insegnato che possiamo assistere alla puntata finale di una serie, ma il suo mondo così creato rimane lì, ancora per noi, esplorabile sempre e per sempre. Un finale non finale, in cui forse avremmo dato una risposta alla domanda “Chi salirà sul trono?”, ma per forza di cose tale risposta ci sembrerà sempre e comunque precaria. Intanto la serialità attorno cambia, e dove sta andando ancora bene non si sa.
Stefania Carini
Si occupa di cultura, media e brand. Collabora con il Post, la Radio Svizzera Italiana, il Corriere della Sera. Ha realizzato podcast (Da Vermicino in poi per il Post) e documentari per la tv (Televisori, Galassia Nerd, L’Italia di Carlo Vanzina). Ha scritto Il testo espanso (Vita e Pensiero, 2009), I misteri de Les Revenants (Sperling&Kupfer, 2015), Ogni canzone mi parla di te (Rizzoli, 2018), Le ragazze di Mister Jo (Mondadori, 2022). Il suo ultimo libro è Il coraggio di Oscar (Mondadori, 2024).
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