Poche cose in Italia hanno avuto più letture e riletture del cinema dei fratelli Vanzina. Apprezzato, condannato, rivalutato. In un discorso che, come i film, è lo specchio del carattere italiano.
“Devo fare una confessione: io sono nata e cresciuta con l’idea che ‘vanziniano’ fosse sinonimo del peggior cinema. Poi passa del tempo, si cambia idea, e ora sono qui a intervistarla. Certo, non sono diventata un’adepta del culto, come altri colleghi… Ma voi come avete vissuto questo saliscendi di amore e odio?”. Enrico Vanzina riflette un po’ prima di rispondermi. È maggio, sono a Roma, sto preparando lo speciale L’Italia di Carlo Vanzina per Iris. “Quando fai il cinema”, mi dice, “non ti devi assolutamente preoccupare di questo. Devi cercare di andare avanti perché innanzitutto è un lavoro, che fa lavorare anche tantissime altre persone. Io e Carlo guardavamo più al pubblico, meno alla critica, perché da sempre so che il critico più galantuomo è il tempo”.
Certo, il tempo. Il tempo che passa, e fa cambiare modi e mode. Il tempo del cinema, quello del suo racconto e quello del suo pubblico, quello del testo e quello della fruizione. Il tempo dell’Italia, anche, del presente o del passato prossimo raccontato in un film che diventa poi passato prossimo o passato remoto. O anche il tempo immobile, e infine inesorabilmente il tempo nostalgico. “Un giorno un critico mi disse: ma se lei dovesse spiegare cosa avete fatto? Qual era l’argomento che interessava di più? Io risposi: il tempo”, dice Enrico. “Il tempo passa sulle facce dei personaggi, nel cuore dei personaggi, nel dialogo dei personaggi. Confrontarsi con il tempo significa confrontarsi con quello che c’è stato prima e che tu hai già fatto, e lo rifai in un altro modo e cerchi di recuperarlo; in questo il cinema è molto proustiano, ti fa riappropriare della vita, mentre la vita se ne va, la riprendi e la rimodelli”.
Prima di questa nostra strana epoca in cui si odia o si ama, si è hater o si è fan, si è like o si è troll, tra le tante cose a dividerci c’erano i Vanzina. Negli anni vanziniano (non tutti i registi possono rivendicare di avere dato vita a un aggettivo, loro sì) ha mutato forma, ha assunto molteplici significati, ha incarnato un modo di fare cinema ma anche un tipo pubblico e un tipo d’Italia. Quella che leggete è una personale ricostruzione, per suggestioni, di questo saliscendi intellettuale, emotivo e sociale.
Vanziniano nella critica
Al debutto, la critica non è ostile ai due fratelli, eppure con il passare del tempo qualcosa cambia. Lo spiega bene Rocco Moccagatta nel libro Carlo ed Enrico Vanzina. Artigiani del cinema popolare: inizialmente il termine indica una nuova commedia giovanile emergente, ma poi passa a descrivere la frivolezza e la superficialità degli anni Ottanta, una continuità ideologica ed estetica con il craxismo e il berlusconismo, perfino il cinema popolare in senso dispregiativo perché in linea con il gusto mainstream, e soprattutto da sempre la volgarità per antonomasia. Intanto però il tempo passa…
Spiega ancora Moccagatta che qualcosa di muove nel 1992 con Sognando la California e nel 1994 con S.P.Q.R., quando Tullio Kezich rompe “il blocco unico dei denigratori dietro l’alibi dell’ossequio agli attori”. Da allora almeno si inizia a parlare di loro. E poi si muove altro. Nel 1992 Tarantino esordisce con Le Iene e nel 1994 esplode con Pulp Fiction, e quindi ecco l’interesse per il cinema di serie B, ecco Marco Giusti a Venezia nel 2004 con la retrospettiva Italian Kings of the B’s. Nel 1997 Takeshi Kitano vince il Leone d’Oro con Hana-bi, nel 1999 nasce il Far East Film Festival di Udine: il cinema orientale d’autore e popolare è territorio di ri-scoperta. Persino le serie e gli anime, altri tipi di intrattenimento popolare, subiscono una graduale ri-scoperta dal 2000. I Vanzina si inseriscono in questo processo, diventano perfino di culto, grazie anche a nuovi critici e a nuovi giornali. Sono intervistati come cantori dell’Italia. Enrico Vanzina quest’anno è stato oggetto di paginate elogiative sul Foglio e la Repubblica, nell’inserto culturale Robinson. Il termine vanziniano ha perso insomma certe asprezze, è diventato più un sinonimo di una produzione popolare vasta, capace di raccontare l’Italia. Il libro di Moccagatta è il simbolo di come sui Vanzina sia ora possibile uno sguardo critico e storico, senza alcuna sudditanza.
“Il tempo passa sulle facce dei personaggi, nel cuore dei personaggi, nel dialogo dei personaggi. Confrontarsi con il tempo significa confrontarsi con quello che c’è stato prima e che tu hai già fatto, e lo rifai in un altro modo e cerchi di recuperarlo; in questo il cinema è molto proustiano, ti fa riappropriare della vita, mentre la vita se ne va, la riprendi e la rimodelli”.
È passato del tempo, e la distanza permette una visione più obiettiva (versione nobile). È passato del tempo, i ragazzini che hanno visto i loro film sono diventati adulti e difendono i film del loro passato (versione generazionale). È passato del tempo, e certa critica ideologica ha fatto il suo… tempo, mentre siamo entrati in una fase di forte rivalutazione del popolare, spesso rompendo gerarchie talvolta troppo rigide, talvolta però impossibili da dimenticare (versione storica). Infine, versione culturale, siamo entrati nell’epoca della nostalgia come fattore tanto sentimentale quanto estetico. E chi meglio dei Vanzina che già teorizzavano la nostalgia in Sapore di mare?
È sempre il nodo Totò, spiega Enrico: “L’ho visto sulla pelle di Totò, che era l’idolo a casa nostra e papà era il regista di Totò; se tu hai inciso in maniera popolare, quando poi non ci sei più, ti accorgi quanto sei entrato nella vita delle persone. E questo non te lo leva nessuna critica, anzi, la critica deve fare i conti con questo. Non ho mai avuto dissapori, a parte qualche agguato – ci sono critici che fanno agguati. Gli attori cani sono cani e non mordono, invece il critico cattivo e cane ti morde. A uno dissi, siccome avevo fatto boxe da ragazzo, che l’avrei aspettato sotto casa. Me ne vergogno. Rispetto moltissimo il lavoro del critico, è importante, noi leggevamo le critiche dei nostri film, perché spesso da alcune davvero impari qualcosa. Ti rendi conto dei tuoi limiti, cerchi di migliorare. La critica ideologica invece mi dà fastidio. Questo è un Paese che è stato troppo pervaso da ideologie che hanno distrutto e innalzato cose a vanvera”.
Oggi dunque vanziniano è termine anche positivo. In alcuni casi grazie a una giusta prospettiva storica, in altri a causa di una sorta di culto estremo, anche per una rivalutazione del popolare a tutti i costi che sconfina in uno snobismo opposto e contrario, quello contro il cinema d’autore, gli intellettuali, i critici. Una posa che sconfina nel ridicolo. Ne è cosciente anche Enrico: “Il pubblico ci ha voluto bene quasi subito, e continua a volerci bene; è stato ciclico, nel senso che in un primo momento ci volevano bene anche i critici. Ma come diceva Flaiano ‘nessuno ti perdona il successo’ qua in Italia, per cui gli siamo stati molto sulle palle a un certo punto. E poi è arrivato quel momento terribile, quando diventi di culto. Perché quando diventi di culto dicono di te un sacco di fregnacce”.
Il pubblico vanziniano
Il rapporto Vanzina-pubblico è un rapporto d’amore reciproco, spiega Enrico: “Noi abbiamo dedicato la nostra vita al pubblico, ma non siamo come Sordi che diceva che si era sposato con il cinema. Per fortuna abbiamo amato altre donne, sul serio, il cinema non ci ha rubato la parte sensuale, però noi pensavamo sempre al pubblico. Tutte le volte che iniziavamo un film dicevamo ‘Ma chi ci può andare a vederlo?’. Era il nostro terminale assoluto. E non esisteva un pubblico di serie A e uno di serie B. I film nostri piacciono ai super-intellettuali, quelli oltre, e al popolo, perché il cinema è un’arte popolare, anzi, un artigianato popolare”. Dunque, il pubblico. Entità-massa per eccellenza. Perché dice bene Vanzina: del pubblico fa parte il popolo e “l’intellettuale oltre”. Il pubblico è stratificato socio-culturalmente, e cambia nel tempo, modifica modi e gusti. È però l’amore del pubblico inteso come massa indistinta al ribasso che ti fa campione di incassi a essere messo sotto accusa. Il pubblico vede film con “personaggi senza spessore e ne ride divertito”. Ne ride senza elaborare – l’accusa della critica – perché i Vanzina non deridono mai fino in fondo quel mondo piccolo-medio-alto borghese, anzi. È davvero così?
In parte. O meglio: i loro personaggi sono terribili ma hanno sempre un lato sentimentale e nostalgico che non permette loro di essere condannati in maniera categorica (come certa critica vorrebbe). C’è un’ambivalenza di fondo che, nei film migliori, è quella umana: lo sguardo di Calà alla fine di Sapore di mare è il riconoscimento di una sconfitta, la consapevolezza di essere stato un cazzaro forse amabile ma senza riscatto, è il rimpianto per tutto quello che si poteva essere e non si è stato. I loro personaggi ci fanno e ci sono. Capiscono solo a tratti i loro errori, senza mai superarli: non cambiano, non si svelano come accade in altre commedie, per esempio in certi film americani. E il pubblico? Talvolta coglie l’ambivalenza, certo. In altri casi c’è come una dissociazione. Il Calà cazzaro (prendo come esempio lui per Sapore di mare, Vacanze di Natale, Vacanze in America, ma vale per tanti altri) è insieme oggetto esterno di risate e specchio idealizzato e nostalgico.
Nel primo caso, Calà è oggetto esterno al pubblico come se la sua parte cazzara non rappresentasse uno dei tratti distintivi della sua italianità. Insomma, il pubblico ride di lui ma non si specchia in lui, spiega Vanzina: “Paolo Villaggio sosteneva che il pubblico che andava a vedere i suoi film non capiva mai che erano loro a essere rappresentati, era sempre quello seduto accanto. È un po’ il meccanismo che accade nella fruizione della commedia. Non vediamo mai che siamo noi quelli sullo schermo, e spesso siamo proprio ‘noi’, perché quei difetti erano miei o di Carlo, o quelli dei nostri amici”. Allo stesso tempo, negli anni Ottanta ma soprattutto oggi, Calà è specchio sì del pubblico ma solo nella visione nostalgica, che dimentica la doppia lettura di film come Sapore di mare, e ne conserva lo sguardo finale o la simpatia contagiosa. Si conservano i frammenti per la costruzione del film a sketch e per i video su YouTube. Non si riescono a unire questi Calà in un discorso dialettico (il passato cazzaro che influenza il presente grigio, il presente malinconico che ripensa al passato troppo leggero), ma si idealizzano entrambi. Non abbiamo avuto tutti un amico simpaticissimo (un amico, perché noi non siamo Calà)? Non siamo tutti nostalgici del nostro passato, perché l’adolescenza è sempre il periodo più bello, a prescindere?
L’Italia vanziniana
“Ognuno ha la fortuna e la sfortuna di raccontare l’epoca nella quale vive”, continua Vanzina. “Siamo stati abbastanza fortunati perché quando abbiamo iniziato era un’Italia in totale trasformazione e in più l’abbiamo riagganciata agli anni Sessanta, per cui abbiamo fatto un’operazione sulla memoria proprio all’inizio della nostra carriera. Abbiamo fatto un esame spietato della società italiana dietro la leggerezza apparente. Una critica ideologica pensava che noi raccontando la borghesia e le trasformazioni di un periodo edonista fossimo complici, invece è il contrario. Yuppies è la presa in giro spietata di un gruppo di deficienti. Vacanze di Natale è un film spietato sulla borghesia arricchita. Abbiamo colto il momento in cui la borghesia italiana stava perdendo la bussola; andava verso la società dell’apparire e dell’avere dimenticando che invece suo ruolo è di stare attaccata ai valori diversi, alla cultura. Abbiamo raccontato l’Italia vera, non abbiamo cercato un’analisi sociologica nei film; ci siamo permessi il lusso di non farlo, ma di documentare con una struttura narrativa quello che esisteva effettivamente in quel momento”.
Un ritratto spietato dell’Italia, e della sua borghesia che “non ha fatto neanche in tempo a comparire in scena che subito entra in crisi, fregata dal benessere”, scrive Moccagatta. Eppure non c’è mai condanna severa, talvolta il ritratto pare alla fine assolutorio… I Vanzina ci fanno o ci sono? Da un punto di vista di poetica vanziniana è ovvio che tutto appaia sfumato, perché il racconto è venato di sentimentalismo: i personaggi hanno le loro ragioni, prendono coscienza di certi errori ma non li superano, possono al massimo avere rimpianti. Forse si chiede loro un didascalismo inutile. Lo sguardo è compassionevole perché quella borghesia è la loro classe sociale. Forse è il pubblico stesso a respingere la parte più critica e sarcastica, come descritto prima. La verità è che anche l’Italia è vanziniana, soprattutto lo è diventata. I due fratelli hanno colto un periodo di trasformazione e smarrimento raccontandone gli eccessi, che poi sono diventati normalità. Si sono cristallizzati. L’effetto straniante nel rivedere Sapore di mare o Vacanze di Natale è che niente oggi pare cambiato. È come se il tempo si fosse fermato, come se l’Italia fosse in preda a una paralisi. Le motivazioni politiche ed economiche sono molte. Forse c’era una ricchezza maggiore che pareva allora alla portata di tutti. Scomparso quest’ultimo sogno, però, gli atteggiamenti legati a quel momento e dipinti dai Vanzina come eccessivi, grotteschi e pittoreschi non sono mutati. Anzi, la torsione tipica che la commedia compie sul reale è diventata la nostra realtà.
“Gli attori cani sono cani e non mordono, invece il critico cattivo e cane ti morde. A uno dissi, siccome avevo fatto boxe da ragazzo, che l’avrei aspettato sotto casa. Me ne vergogno. Rispetto il lavoro del critico, è importante, noi leggevamo le critiche dei nostri film, perché spesso da alcune davvero impari qualcosa. Ti rendi conto dei tuoi limiti, cerchi di migliorare. La critica ideologica invece mi dà fastidio. Questo è un Paese che troppo pervaso da ideologie che hanno distrutto e innalzato cose a vanvera”.
Continua Enrico: “Abbiamo descritto da vicino l’Italia, anticipando molte cose. A un certo punto i giornali dicevano ‘sembra un film dei Vanzina’ sulla politica, sull’economia. Tutto questo passava con divertimento, però per me c’è un fondo di grande attenzione nostra nel non aver mai aderito a questo degrado dell’Italia. Il problema è che siamo rimasti lì. Erano più simpatici prima, adesso lo sono meno”. Attraverso la commedia, i Vanzina hanno dipinto in maniera deforme l’Italia del loro presente, che ha finito per essere una fotografia realistica di quella futura. Oggi Calà non mostrerebbe alcun sguardo nostalgico a fine film. Perché oggi il pubblico di Fantozzi rivendicherebbe di essere Fantozzi per narcisismo supremo, secondo la regola dei reality, delle dirette Facebook, dell’essere “se stessi”.
Burattino sì, burattino no: Pinocchio
Il 19 dicembre esce nelle sale il Pinocchio firmato da Matteo Garrone, con Roberto Benigni nel ruolo di Geppetto. In realtà di Pinocchi sul grande schermo ne abbiamo avuti molti, anche quando non erano un adattamento diretto del capolavoro di Collodi. Perché Pinocchio è forse il libro che più racconta noi italiani. Non solo perché il burattino dice le bugie, non solo perché crede al gatto e alla volpe, ma soprattutto perché non si assume nessuna responsabilità. È un gran birichino ma è buono fin dalle prime pagine (pronto a morire al posto di Arlecchino davanti a Mangiafoco). È un burattino, ma senza burattinaio. Possibile? È ambiguo: ci è e ci fa. È in continuo movimento, irrequieto, corre. Non è automa però: come può muoversi senza fili? O forse questi fili ci sono, e lui non lo sa? Pinocchio è libero o crede di essere libero? È il suo paradosso. La sua identità è sfuggente, persino quella finale: Pinocchio non si trasforma in un bambino (quello è il film di Disney, è l’America, è un arco narrativo compiuto), ma il burattino è sostituito da un bambino (a fine libro ci sono insomma due Pinocchi). Il burattino di legno resta lì, un “residuo” superato eppure impossibile da superare. Anche in quanto libro Pinocchio è ambiguo, molteplice, dalle infinite letture. Un romanzo di formazione o forse no, come spiega Suzanne Stewart-Steinberg ne L’effetto Pinocchio, in cui esamina il tentativo di costruzione dell’altrettanto ambigua e molteplice identità italiana tra la fondazione del Regno d’Italia (1861) e l’ascesa del fascismo (1922). Afferma la studiosa: “Il libro è allo stesso tempo fin troppo leggibile e profondamente illeggibile. Con questo intendo sostenere che nessun significato può essergli attribuito in modo definitivo. Può essere letto come un racconto morale secondo il quale il burattino cattivo impara la lezione e quindi, come ricompensa, guadagna la soggettività. In questo scenario, Pinocchio passa dall’influenza, dalla direzione data dall’esterno, all’autonomia. Ma il libro può anche essere letto così come appare, in cui Pinocchio è libero, corre selvaggio e viene catturato nella rete ideologica di obbedienza e di etica del lavoro e, accecato da tale cattura, non riconosce più i benefici guadagnati di recente dal proprio essere libero. La traiettoria di Pinocchio, in questa lettura, è dall’autonomia all’influenza. Entrambe le letture mi sembrano essere perfettamente legittime. Infatti, entrambi presuppongono la modernità del testo: o Pinocchio diventa un liberale, un soggetto consenziente, la cui prima essenza di legno viene sostituita con una soggettività moderna, o egli è colto in strutture ideologiche che sono indipendenti dalla sua volontà […]. L’effetto Pinocchio è la capacità di produrre una qualsiasi lettura del testo di Collodi. Tutti si vedono nel testo, tutti si trovano indirizzati al livello della loro fantasia, e questo portandoci dentro la loro storia personale: Totò, come Benigni, come tutti gli altri. Per questo, non esiste una ‘corretta’ lettura di Pinocchio. Esistono solo letture del testo che riflettono i tempi e le questioni del lettore. In questo senso, Pinocchio è un testo vuoto, senza messaggio, oltre quello che i suoi lettori ne vogliono trarre. È una specie di schermo bianco su cui i suoi lettori proiettano tutte le loro fantasie”.
Pinocchio (libro e burattino), come gli italiani, è troppo leggibile e profondamente illeggibile. Ci è e ci fa. Forse vale lo stesso per i film dei Vanzina, che raccontano molti Pinocchi degli anni Ottanta e poi Novanta? E come può un Pinocchio-pubblico prendere coscienza dei suoi doppi, di quei Pinocchi cinematografici? Al massimo li guarderà come se non facessero parte di sé. Ce lo racconta Collodi quando descrive a fine libro il bambino Pinocchio che guarda il burattino Pinocchio appoggiato in un angolo: “Pinocchio si voltò a guardarlo, e dopo che l’ebbe guardando un poco disse dentro di sé con grandissima compiacenza: ‘Com’ero buffo quando ero burattino!’” (corsivi miei). E perfino la Pinocchio-critica, cosa volete possa sapere dei Vanzina! Tutti vi leggeranno quel che vorranno, a seconda di quel che farà più comodo. L’ho fatto pure io, adesso.
Stefania Carini
Si occupa di cultura, media e brand. Collabora con il Post, la Radio Svizzera Italiana, il Corriere della Sera. Ha realizzato podcast (Da Vermicino in poi per il Post) e documentari per la tv (Televisori, Galassia Nerd, L’Italia di Carlo Vanzina). Ha scritto Il testo espanso (Vita e Pensiero, 2009), I misteri de Les Revenants (Sperling&Kupfer, 2015), Ogni canzone mi parla di te (Rizzoli, 2018), Le ragazze di Mister Jo (Mondadori, 2022). Il suo ultimo libro è Il coraggio di Oscar (Mondadori, 2024).
Vedi tutti gli articoli di Stefania Carini