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Flop

Come il format diventa storia

Il direttore di Raidue ci racconta come i confini tra la fiction e l’intrattenimento, tra lo storytelling e il format, siano sempre più sfumati.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 24 - Flop. Il fallimento nell'industria creativa del 03 dicembre 2018

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Il flop è la grande bestia nera dell’industria dello spettacolo. Il modo migliore per esorcizzarlo è presentarsi al giudizio del pubblico e della critica con un prodotto apparentemente nuovo, ma in realtà ipercollaudato, perché affonda le sue radici nell’inconscio collettivo. Negli ultimi anni, due grandi modelli strutturali hanno fatto da supporto alle nuove produzioni, rispettivamente nel campo della fiction e dell’intrattenimento: lo storytelling e il format.

La narrazione

Sullo storytelling si è scritto tantissimo. La comunicazione, non solo la fiction, passa dalla narrazione. Anche Gesù Cristo, per fare proseliti, non ricorreva alle teorie ma alla parabole. E il mito, la narrazione, è presente in tutte le culture primordiali come prima interpretazione umana dell’universo. La narrazione è coinvolgente e convincente, perché fa appello non alla ragione, ma al sentimento che la precede. E noi condividiamo e riviviamo la storia in virtù di un’empatia che colpisce i nostri neuroni specchio. Però lo storytelling non è solo emotività, ma riferimento a strutture narrative comuni. Ci sono archetipi di racconto presenti in tutte le culture. E questi archetipi sono studiati, ben prima che lo storytelling fosse riscoperto da Christian Salmon, fin dalle origini dello spettacolo e della civiltà.

È nota a tutti l’importanza che un testo come la Poetica di Aristotele riveste ancora oggi, a fini pratici, presso gli sceneggiatori di Hollywood. Nel Novecento strutturalisti e formalisti russi hanno analizzato la narrazione in quanto tale, evidenziando costanti come lo schema che Propp illustra ne La morfologia della fiaba. La storia parte sempre con la rottura di un equilibrio precedente che induce l’eroe, prima riluttante, poi sostenuto dall’appoggio di un mentore, a cimentarsi in una serie di prove che lo porteranno a ricostruire un equilibrio di grado superiore: lo stalliere diventa re, la sguattera principessa. Lo schema funziona sia se applicato alle favole di magia russe sia se usato per i film dell’industria hollywoodiana, e funziona perché, pur presentandoci una nuova storia, risveglia in noi la memoria di qualcosa che già conosciamo bene. E il godimento dello spettatore sta nella ripetizione di modelli noti.

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Il format

La comunicazione funziona per ripetizione. E anche la propaganda: per Goebbels qualsiasi assurdità, ripetuta nel tempo, diventava vera. Perché la ripetizione funziona sempre? Spiego questa cosa ai miei studenti commentando un vecchio scritto di Umberto Eco che aveva per tema le canzoni del Festival di Sanremo. Una canzone ha successo per la sua capacità di fissarsi nella memoria, producendo un riflesso condizionato, una ripetizione involontaria del ritmo. “Sarà capitato anche a voi… di avere una musica in testa… sentire una specie di orchestra… suonare suonare…”. Un festival è il posto meno adatto per selezionare una canzone di successo visto che il suo statuto chiede che il brano sia inedito. Come si fa allora a fidelizzare subito pubblico e critica? Con la ripetizione, cioè con il ritornello che è ripetuto più e più volte nel corso della canzone fino a diventare subito ossessivo e familiare. La stessa cosa succede per gli schemi narrativi e per i format, che sono invece l’impalcatura strutturale dell’intrattenimento.

Anche il format è riconoscibile tra le righe dall’inconscio del pubblico che, in realtà, ama sempre e solo quello che già conosce. Le avanguardie artistiche del Novecento avevano bisogno di rigidi codici strutturali per poterli rompere e realizzare il nuovo: non esiste la tabula rasa culturale. Il nuovo colpisce perché argomenta a partire da quello che sappiamo bene e poi, inaspettatamente, lo stravolge. Perché nasca un’avanguardia, ci vuole prima un’accademia. E la televisione, a eccezione della fiction, esprime sempre un immaginario nazional-popolare. Così show, talk, reality e talent non possono essere esportati ma devono essere adattati di volta in volta al contesto nazionale in cui vanno in onda. Ma tutto è più facile se la traduzione in lingua locale si appoggia su un format già sperimentato altrove. C’è un programma nuovo, ma insieme collaudato, che può essere proposto al pubblico con la relativa certezza di fare centro. Il format non è uno schema narrativo, ma una situazione, nel senso situazionista del termine. Sono in uno spazio chiuso inquadrato da una cinepresa che mi riprende giorno e notte (Grande fratello, L’isola dei famosi). Sono in uno studio dove interpello per telefono cavie ignare (Libero). Sono nell’ennesima versione della candid camera (Scherzi a parte). E allora oggi non esiste fiction senza storytelling, così come non esiste intrattenimento senza format.

La cultura di oggi è ad alto grado di ibridazione. Non rispetta barriere e steccati, dilaga ovunque modificando le certezze iniziali. Questo, a maggior ragione, nel campo della comunicazione. E allora il programma televisivo si appoggia su un format, ma introduce anche la narrazione tramite il cast.

Confini ibridi

Ma la cultura di oggi è ad alto grado di ibridazione. Non rispetta barriere e steccati, dilaga ovunque modificando anche le certezze iniziali. Questo, a maggior ragione, nel campo della comunicazione. È da tempo che gli autori delle trasmissioni di intrattenimento hanno intuito la forza e l’impatto dello storytelling. E allora il programma si appoggia su un format, ma introduce la narrazione tramite il cast. Servono concorrenti che simboleggino storie. Il loro vissuto, la loro biografia precedente e la storia che sono in grado di mettere in scena nella trasmissione (reality soap) sono il succedaneo attuale dei romanzi di appendice ottocenteschi. Non vince il migliore: il più bello, il più bravo, il più intelligente. Vince chi riesce a costruire e condividere con il pubblico una storia. Raz Degan ha vinto L’isola dei famosi di due anni fa perché ha saputo ricostruire, momentaneamente, la sua storia con Paola Barale. Bossari ha vinto nella scorsa stagione perché ha posto lì le premesse del suo recente matrimonio con Filippa Lagerback. Più forte e coinvolgente del fotoromanzo delle nostre madri e nonne, l’ibridazione del reality con la fiction è vissuta come un genere ultrapopolare, contrapposto a un altro prodotto, la fiction pura, che invece in questa fase sta riacquistando dignità di opera artistica.

È il caso dei telefilm americani contemporanei, che hanno superato il cinema per complessità narrativa. Ed è il caso della nuova fiction italiana che tenta di costruirsi un’identità esportabile e riconoscibile, dopo l’appiattimento edificante degli sceneggiati generalisti sulle vicende di poliziotti, preti e famiglie. Ma anche la fiction, in modo meno eclatante, subisce una forma di ibridazione con l’intrattenimento. Accanto allo schema narrativo tradizionale emerge sempre più, a livello di sceneggiatura, lo schema del format. Nelle commedie, l’evoluzione della storia non passa più dalle peripezie dello schema di Propp, ma prende spunto dall’immersione in una situazione: cosa tipica dell’intrattenimento, e già collaudata, a livello teatrale, dalla commedia dell’arte. Molti film oggi sono format, e questo permette di replicare il successo del prototipo con piccole varianti. Pensiamo a una situazione come il trasferimento. Funziona come matrice di bestseller successivi: al nord, al sud, secondo i relativi stereotipi. Pensiamo a quando è il telefono a svelare i nostri tratti segreti: Perfetti sconosciuti. Persino la fiction seriale si allinea al format. Il recente Il miracolo di Ammaniti, se si esclude il soggetto strepitosamente nuovo, non segue schemi narrativi classici, ma spia la reazione di diversi personaggi di fronte al miracolo. Il format è questo: “come reagirebbero di fronte ad un miracolo: a) un presidente del consiglio impegnato in un cruciale referendum; b) un prete che ha perso la fede; c) un mafioso che ha perso la figlia; d) un generale che deve garantire l’ordine; e) una biologa laica abituata ad affrontare il mistero dal lato scientifico”.

Un autore che incarna bene l’esempio di creatore di format per la sceneggiatura è J.J. Abrams. Pensiamo all’esordio folgorante di Lost, che resta il suo capolavoro: il format è quello de L’isola dei famosi, in cui i personaggi sono spiati nelle più sottili sfumature psicologiche e in cui le vite passate si riconvertono in una nuova identità; mentre la storia in senso tradizionale, con il tentativo di spiegazione causale degli eventi, risulta il punto più fragile della serie. Una fiction che parte da un format, da una “situazione”, può paradossalmente essere declinata in chiave sia di successo popolare sia d’autore. Anche in Twin Peaks c’è un format di partenza, il paesino che nasconde oscuri delitti, e poi la storia si ingarbuglia su se stessa per riportare continuamente alla situazione iniziale. In casi come questi, l’autore, uscito dalla porta della serialità perchè superato dalla ripetitività dello schema narrativo, rientra dalla finestra come inventore di situazioni stranianti. E allora scrivere un format di narrazione rischia di diventare la nuova sfida.


Carlo Freccero

Nella sua lunga carriera televisiva, è stato responsabile del palinsesto di Canale 5 dal 1979 al 1983, quando è passato a Italia 1 e poi a Retequattro. Nel 1985 assume la direzione di La Cinq. È direttore di Italia 1 dal 1987 al 1992, poi torna in Francia come responsabile di France 2 e France 3. Nel 1996 dirige Raidue e poi lancia Rai 4; infine torna a Raidue nel 2018. È stato consigliere d'amministrazione della Rai dal 2015 al 2019.  Insegna presso l’Università di Genova.

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