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Fiction, cattiva scrittura e invenzioni narrative

Dalla fiction al tenente Colombo, da Aristotele a Dickens e ai romanzi francesi, un ragionamento a ruota libera su innovazione e ripetizione, storie e miti.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK - Mondi seriali. Percorsi semiotici nella fiction del 03 marzo 2008

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Sono qui riportate alcune parti di un saggio più ampio (“Invenzione narrativa e tecniche del discorso”),  pubblicato in Mondi seriali. Percorsi semiotici nella fiction, a cura di Maria Pia Pozzato e Giorgio Grignaffini (Link Ricerca, 2008).

Sono un consumatore quotidiano di serial di ogni tipo, i cani poliziotto li adoro, ma da diversi anni non mi occupo di fiction a livello teorico e quindi mi limiterò a riformulare, aggiornandola con esempi recenti, una materia su cui mi ero espresso diverso tempo fa. È curioso che in italiano si chiami “fiction” solo quella televisiva, mentre ciò che in inglese si indica con “fiction” comprende anche Dickens. Tuttavia se c’è la fiction televisiva è perché ci sono stati Omero, Ariosto e Dickens.

La narratologia ha dei padri illustri, il primo e fondamentale dei quali è stato l’Aristotele della Poetica. Non è stato mai più scritto un trattato di narratologia altrettanto approfondito e acuto. E anche per quanto riguarda la fiction televisiva, non è un caso se una cinquantina di anni fa un signore che si chiamava Mortimer Adler sia partito proprio dalla Poetica di Aristotele per elaborare un’estetica del cinema. E funzionava perfettamente. Già in Aristotele, con la differenza tra pragma e mythos, si stabiliva un’opposizione che poi la narratologia dei formalisti russi ha reso popolare sotto le denominazioni di fabula e intreccio. Si profilava un interesse per quello che poi, in ambito semiotico, è stato chiamato il livello discorsivo, quello più vicino al piano dell’espressione di una narrazione: non a caso, proprio nella Poetica, non si analizzavano soltanto mythos e pragma ma, per esempio, le strategie metaforiche. Si faceva attenzione al discorso. In epoche più recenti, invece, la narratologia non solo ha prestato un’attenzione esagerata al solo livello del contenuto, cioè a fabula e intreccio, ma ha portato a tal punto l’attenzione sulle costanti che nel “greimasismo degli stenterelli” – che non è quello di Greimas che leggeva Maupassant – non si riconosce effettivamente più alcuna differenza tra Amleto, il capitano della guardia di finanza visto solo qualche sera fa in televisione e una pubblicità di detersivo. Le strutture profonde sono le stesse – notate che il rapporto tra il capitano di finanza e la sua collaboratrice è simile a quello tra Amleto e Ofelia, lui la vuole ma la respinge, lei va in convento eccetera. Solo che il rapporto incestuoso tra Amleto e la madre nella fiction si sposta tra il capitano e l’amante. Se si applica in modo ingenuo la grammatica narrativa di Greimas, diventa assolutamente vero che la struttura profonda dell’Amleto è uguale a quella del capitano.

Se applicata in maniera non banale, la narratologia ha invece non pochi fondamentali meriti. Uno è di aver scoperto come funziona, narrativamente parlando, una semantica a enciclopedia di cui mi dichiaro seguace e teorico. Per capire il significato di “tigre” bisogna pensare a che cosa risponde una mamma quando il bambino glielo chiede. La mamma in genere risponde: “È un animale fatto così e così, che sembra un gatto ma che vive nella giungla, che ti assale di notte, che ti mangia, e poi c’è un signore chiamato Tremal Naik che invece le cacciava”. Ma ancora una volta si rischia di intorbidare le acque perché, se ogni definizione enciclopedica è fondamentalmente narrativa, qual è la differenza tra la definizione di “tigre”, Le due tigri di Salgari e Tiger, tiger di Blake? Torniamo qui a un problema che forse la narratologia ha abbandonato ma che una volta era ben presente nei discorsi di estetica – la quale estetica non solo intendeva distinguere tra quello che è bello e quello che è brutto, ma anche tra quello che è opera d’arte e quello che non lo è.

È il problema della differenza fra “narrare” tout court e “narrare con arte”. Una fabula: Mario uccide Maria. Un intreccio: Filippo è un detective che arriva dopo che Maria è morta e cerca di capire se è Mario che l’ha uccisa. Sono da prendere in considerazione, oltre alla storia pura e semplice, anche le tecniche di discorso. A parte la diversa scelta delle parole con cui si può raccontare questa storia (con due frasi, o con un romanzo di seicento pagine), ci sono altre tecniche che pertengono al livello discorsivo: per esempio, una componente fondamentale di una storia gialla è la tecnica volta a creare suspense. Ora, la tecnica di suspense era un fatto artistico quando fu inventata per la prima volta: l’Edipo Re è totalmente basato su un suspense che dura per tutto l’arco della vicenda. Ci voleva un grande coraggio, all’epoca, per immaginare una situazione del genere. Ma in seguito il suspense divenne una tecnica artigianale, come quella per fare i vasi. Immagino che il primo vasaio sia stato uno dei più grandi geni dell’umanità, ma tutti i vasai successivi sono stati al più degli artigiani, e lo stesso si può dire dei costruttori di ruote. Dopo che la creazione di suspense è diventata una tecnica normale, che ciascuno sapeva ormai adattare alle diverse situazioni, si sono verificati ancora casi rarissimi di uso geniale di questa tecnica: Hitchcock, per esempio, inventa nuove possibilità tecniche di creazione di suspense. Ma dopo è di nuovo routine, si torna al suspense normale. Tanto che a un certo punto persino la fiction poliziesca la abbandona e oggi sembra appannaggio solo del film horror.

Se consideriamo, per esempio, la celebre serie del tenente Colombo, che per me rimane il capolavoro dei serial televisivi, lì non c’è suspense, perché l’assassino lo conosciamo subito dall’inizio, né Colombo fa scoperte vere e proprie, perché per qualche ragione intuisce subito chi possa essere l’assassino e poi, attraverso una serie di ricatti psicologici, riesce a portarlo alla confessione. Il fatto che le repliche di Colombo continuino ancora oggi, dopo tanti anni, e che io me le riveda ancora tutte anche se conosco a memoria le trame, vuol dire che qualche cosa lì funziona sul piano del discorso, senza una vera carica di suspense. E non è un caso che ogni puntata di Colombo sia assegnata a un regista diverso e, quando il regista è abile, è il piano del discorso che acquista rilevanza, non quello della storia. La trama segue infatti uno schema che è sempre lo stesso, rigidamente prefissato. Per dire, Colombo non ha mai investigato sull’omicidio commesso da un povero, da un ragioniere o da un barbone: l’assassino deve essere sempre e solo un ricco pieno di hybris, abitante a Los Angeles. Quindi sul piano dell’invenzione narrativa siamo a zero, e anche sul piano delle piccole trovate, che sono godibili ma molto ripetitive, alla fin fine abbiamo Colombo che torna indietro, che dice “dimenticavo” eccetera. Eppure sul piano del discorso ogni volta c’è, cinematograficamente parlando, qualche cosa di nuovo.

Possiamo dire che si potrebbe fare un’analisi della narratività in genere, e non solo di quella televisiva, tornando a rivedere con attenzione le differenze tra contenuti (fabula, intreccio) e discorso, perché anche l’idea del serial come prodotto ripetitivo può essere messa in questione. Come abbiamo visto nel caso di Colombo, infatti, si possono avere serie ripetitive sul piano del contenuto ma non sul piano discorsivo. Quando c’è novità sul piano del contenuto si ha una categoria sulla quale vorrei intrattenermi adesso, che è l’invenzione narrativa. Che cos’è l’invenzione narrativa?

Faccio un esempio di grandi opere d’arte prive di invenzioni narrative. Una è la Recherche di Proust. Non vi succede granché: il protagonista incontra dei signori, delle signore eccetera. Tutto l’interesse dell’opera nasce dal piano del discorso, dove si crea anche l’approfondimento psicologico. L’altro esempio letterario che si potrebbe fare è l’Ulisse di Joyce. Non vi succede assolutamente niente: una giornata uguale a tutte le altre. Se l’incontro dell’uomo del Macintosh, invece che nel cimitero, fosse avvenuto in una cattedrale, l’intreccio avrebbe funzionato ugualmente. Non c’è invenzione narrativa. Invece c’è invenzione sul piano discorsivo – in questo caso il piano discorsivo comprende anche la strutturazione dell’intreccio, poiché vi sono casi in cui la strutturazione dell’intreccio va a far parte anche del piano discorsivo.

Adesso prendiamo invece tre casi di grande invenzione narrativa, tanto che hanno fatto epoca: I tre moschettieri, Il conte di Montecristo e I misteri di Parigi. Analisi sul piano valoriale o attanziale di tipo greimasiano non ci troverebbero niente di davvero interessante: bene contro male, più o meno sempre le stesse strutture attanziali, percorsi narrativi, ruoli tematici assodati come quello del delinquente, che nei romanzi citati fa esattamente quello che è inscritto nella definizione dizionariale di “delinquente”. Però tutte e tre queste opere sono modelli di grande invenzione narrativa: quella dei gioielli della regina è una grandissima idea, la storia di Athos e Milady è una grandissima idea, senza parlare del Conte di Montecristo. Il suo schema è quello di tutto il romanzo ottocentesco: c’è un superuomo vendicatore che piace e soddisfa il lettore perché risolve i problemi che i malvagi hanno creato ai buoni. Se, in questo senso, lo schema è vecchissimo, nel Conte di Montecristo vi sono però, come aveva già capito Gramsci, veri colpi di genio quanto a invenzione narrativa: c’è lo Chateau d’If, la vendetta sui tre compagni, e poi l’improvvisa ricchezza che è una trovata magnifica per creare identificazione nel lettore.

Il conte di Montecristo è un libro di grande invenzione narrativa e di modestissime strutture discorsive, dove però, per ragioni misteriose e miracolose, la bruttezza del discorso contribuisce al fascino dell’intreccio.

Se passiamo ora al confronto fra I misteri di Parigi e I tre moschettieri, in entrambi c’è un’enorme e complessa invenzione narrativa ma solo nei Tre moschettieri anche il livello discorsivo è superbo. Benedetto Croce, che critica aspramente persino Manzoni, per non dire di Mallarmé, diceva che I tre moschettieri erano appassionanti, anche se naturalmente li metteva nella letteratura e non nell’arte (ma questo è un problema suo). Il motivo di questo apprezzamento nasce, secondo me, dal fatto che questo romanzo, oltre a presentare grandi invenzioni narrative, è anche scritto molto bene, con un ritmo jazzistico insuperato e insuperabile. Invece per Il conte di Montecristo non possiamo dire altrettanto, perché in realtà è scritto malissimo. Evidentemente l’autore teneva conto del fatto che veniva pagato un tanto alla riga. Ho osservato per esempio che scrive sempre: “si alzò dalla sedia su cui era seduto”. Ma da quale altra sedia dovrebbe alzarsi? Questa tendenza è propria di tutto il romanzo che appare così lutulento, e tuttavia questa lutulenza discorsiva, in qualche modo misterioso, contribuisce a sostenere la struttura dell’intreccio. Anni fa, su invito di Giulio Einaudi, tentai di fare una nuova traduzione del Conte di Montecristo e avevo calcolato che, in infiniti casi del genere, se avessi tradotto “si alzò” eliminando “dalla sedia in cui era seduto”, avrei ridotto del venticinque per cento il romanzo, rendendolo fra l’altro più facilmente leggibile. Ma, dopo aver tradotto le prime cento pagine, mi accorsi che invece era proprio la lutulenza che, ritardando continuamente l’evento, creava suspense. Quindi abbiamo un libro di grande invenzione narrativa, di modestissime strutture discorsive, dove però, ripeto, per ragioni misteriose e miracolose, la bruttezza del discorso contribuisce al fascino dell’intreccio.

Infine, I misteri di Parigi: questo romanzo è scritto male, è lento, è di una noia insopportabile, e infatti nessuno lo legge più, mentre il Montecristo lo si legge ancora. I misteri lo si leggeva perché usciva a puntate, e quindi a piccole dosi. So che adesso lo stanno ripubblicando, ma non riesco a prevedere chi lo leggerà, mi sembra ormai un libro illeggibile anche se di grande invenzione narrativa: Sue è stato il primo a immaginare che la prostituta fosse figlia del duca, anche se è talmente mal scritto che, non facendocela a tenere il suspense fino alla fine, lo svela a metà. Dice: “avrete già capito che Fleur de Marie era la figlia del duca, ma adesso occupiamoci di un’altra storia”. Insomma, rovina tutto pur di tirarla lunga. Ma all’epoca quest’opera ebbe più importanza e più successo, anche politico, del Montecristo o de I tre moschettieri, perché ne I Misteri di Parigi c’è dentro, malgrado la lutulenza discorsiva, una grande invenzione narrativa.

L’invenzione narrativa può essere soffocata da un pessimo discorso, come si è appena visto, o ridotta a una forma semplice come la fiaba. La fiaba può essere raccontata in modi diversi – da Fedro o da La Fontaine, da Grimm o da Perrault – ma ha sempre una forma analoga, è cioè incentrata su una vicenda minima, quella per esempio della volpe che non riesce a raggiungere l’uva, che diventa però mitica. Ed ecco che abbiamo introdotto una nuova nozione, tra l’altro non proprio recente: quella di “mito”. Sono mito Ercole e Icaro, è mito Cappuccetto Rosso, ma sono diventati miti anche i personaggi del Conte di Montecristo. E si avvia o si avvierà a diventarlo anche Il tenente Colombo. I personaggi mitici, che sono prodotti dall’invenzione narrativa, indipendentemente dalle forme discorsive, sono i personaggi più memorabili e citabili. Chi era Starbuck, oltre che un signore che vende del caffè un po’ in tutto il mondo? In che romanzo appare? Nella Balena bianca. Però ricordiamo tutti la balena, che è diventata mito, mentre Starbuck no. Come si chiamava l’amante di Carla e della di lei madre negli Indifferenti di Moravia? Musumeci. Chi era Carlo Altoviti? Il protagonista delle Confessioni di un italiano. Chi era il signor Cosini? (Qui però, forse, più lettori se lo ricorderanno). In che romanzo appare il conte Mosca? In compenso ricordiamo moltissimo Athos, Porthos, D’Artagnan, il conte di Montecristo, Cappuccetto Rosso, il tenente Colombo, don Matteo, il maresciallo Rocca; forse non ancora il capitano della finanza, perché è troppo giovane e in questa fiction recitano tutti talmente male che verranno dimenticati.

In un saggio del 1964, avevo tratteggiato le differenze tra tipo e topos. L’estetica marxista dell’epoca diceva che un grande romanzo produce dei tipi e io replicavo: certo, un grande romanzo produce dei tipi, però bisogna tener conto anche di quest’altro aspetto, che qui ho chiamato dell’invenzione narrativa, che invece produce dei topoi. E il vantaggio dei topoi è che sono immediatamente citabili. Effetto di invenzione narrativa, lo schema mitico è indipendente dalla gabbia discorsiva. Talora se ne può avvantaggiare, come nel caso del Montecristo. Talora no, ne è anzi quasi soffocato, come nel caso dei Misteri di Parigi. E ha poco a che vedere con l’arte del raccontare. Perché si ha invenzione narrativa e produzione di miti anche con storie raccontate malissimo e che non sono opera d’arte, mentre opere d’arte squisite non hanno invenzione narrativa e non hanno prodotto miti, se non per coloro che telefonano ogni giorno a Fahrenheit, ma si tratta di una nicchia estremamente ridotta.

Anche sapersi o meno avvalere di un repertorio di situazioni topiche può spiegare il successo o la dimenticabilità della fiction televisiva. Abbiamo visto come Il tenente Colombo sia basato su schemi ripetuti e tuttavia possa eccellere perché ogni volta possiede qualcosa discorsivamente nuovo. Si può anche ipotizzare che non ci sia più affatto invenzione narrativa negli attuali prodotti seriali televisivi, e che quindi si usino solo invenzioni narrative preesistenti. In questo caso, eventuali critiche alla serialità non andrebbero mosse a una sua presunta modestia discorsiva – perché talora abbiamo visto che a livello di discorso la cosa funziona benissimo – ma alla sua eventuale modestia inventiva, e cioè all’incapacità di produrre miti del nostro tempo.


Umberto Eco

È stato presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici presso l'Università di Bologna.

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