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Estetica dello sguardo in camera

Che sia colpa dell’influenza dei social o solo la nuova tappa di una lunga tradizione, è un fatto che mai come negli ultimi tempi la rottura della quarta parete sia diventata fondamentale in molte narrazioni.

Sono bastate poche settimane di quarantena, per l’emergenza Coronavirus, per stravolgere il nostro modo di relazionarci agli altri. Abitudini, convenzioni sociali e persino censure autoimposte – quelle di prendere parte a una videochiamata su Facetime o una diretta su Instagram – sono improvvisamente scomparse. I social sono diventati il luogo privilegiato per comunicare, la nostra àncora di salvezza per continuare a vederci e sentirci meno soli, per colmare vuoti e distanze e per recuperare la socialità persa, sia pure virtuale. I contenuti si sono allora moltiplicati, le cronache quotidiane e le chiacchiere online anche. Ma il racconto diaristico, con l’interpellazione esplicita del proprio pubblico e la ricerca di una maggiore intimità, non è certo una novità di questi giorni di social distancing.

Dal successo delle stories parlate su Instagram ai video musicali su TikTok, negli ultimi anni chiamare in causa i propri “seguaci”, rivolgersi e parlare direttamente a loro è diventata una tendenza così diffusa da diventare la norma. Non solo per influencer, muser e content creator. Quando si parla di interpellazione diretta, nei film e nelle serie tv, si parla di breaking the fourth wall, di rottura della quarta parete. Della finzione, con lo svelamento dei codici che stanno alla base del cinema narrativo classico. Da Fino all’ultimo respiro e Io e Annie, da Il favoloso mondo di Amélie a Sex and The City, Malcolm In The Middle e House of Cards, lo sguardo in macchina ha una lunga tradizione audiovisiva. Ma negli ultimi mesi di serialità, in particolar modo, la connessione e il dialogo diretto con il pubblico sono diventati un trend. Un tratto distintivo che accomuna tanto i social, quanto alcuni dei titoli più originali e irriverenti realizzati di recente. Perché il bisogno di parlarsi, riconoscersi e specchiarsi non ha origine in questo periodo di quarantena forzata, ma risiede in qualcosa di più profondo e radicato nel nostro tempo.

Faccette da meme

Partiamo dall’interpellazione diretta presente in Euphoria, il primo teen drama di Hbo, creato da Sam Levinson e liberamente adattato da una serie israeliana. La prima stagione segue le vicende di Rue Bennett: un’adolescente nata tre giorni dopo l’11 settembre, depressa, bipolare, tossicodipendente, appena uscita dal rehab ma poco intenzionata a restare sobria. In qualità di “narratrice inaffidabile” (come si definisce da sola) e voice over, la giovane interpretata dall’ex stella di Disney Channel, Zendaya, introduce la propria storia e quella dei suoi coetanei co-protagonisti: ne svela traumi, amori, paure, mentre ammicca e si rivolge direttamente allo spettatore, rompendo la quarta parete. In questo modo, il pubblico è chiamato in causa, coinvolto nei drammi di Rue e delle amiche, nella sua tormentata ricerca di calma e euforia insieme. E non importa quanto diventi meschina e egoista con chi le sta intorno. Noi stiamo dalla sua parte, perché grazie al flusso ininterrotto di confidenze sappiamo quello che pensa e come si sente: emarginata, irrequieta e priva di speranza verso il futuro. Del resto, “il mondo sta per finire”, dice Rue nel pilota, con una scrollata di spalle.

Quando si parla di interpellazione diretta, nei film e nelle serie tv, si parla dibreaking the fourth wall, di rottura della quarta parete. Della finzione, con lo svelamento dei codici che stanno alla base del cinema narrativo classico. Un tratto distintivo che accomuna tanto i social quanto alcuni dei titoli più originali e irriverenti realizzati di recente.

Portando all’estremo il discorso seriale sul disagio giovanile, Euphoria è il manifesto della generazione Z, con una rappresentazione esplicita di temi e questioni difficili come la depressione, la solitudine, l’autolesionismo, il bullismo, il revenge porn e la violenza di genere. Il risultato è una visione nichilista, tragica, ma non mancano momenti più distesi e puramente comici. Ne è esempio la sequenza diventata cult sulle dick pics: con l’aiuto dell’amica Jules, Rue presenta una specie di tutorial sui tipi di foto di falli ricevuti sul telefono dalle ragazze, ironizzando su quanto quelle non richieste siano la quasi totalità. Anche qui, la protagonista parla direttamente in camera, dando vita a uno sketch comico che ricorda quelli in voga su TikTok: l’estetica di certi filtri, l’humour nero, i gesti enfatici, le faccette da meme sono quelli dei video POV, di gag e dialoghi girati nelle camerette, in solitaria, in cui si svelano idiosincrasie, episodi imbarazzanti e gioie quotidiane. Quella dei tiktoker, e di Rue, è una performance, una recita, che unisce elementi di finzione e realismo, e pone ancora una volta al centro chi guarda: interlocutore partecipe e confidente solidale, con cui instaurare una relazione asimmetrica ma amichevole.

Neuroni specchio

Per anni i social – su tutti Instagram – sono stati dipinti come luoghi tossici che alimentano la FOMO, l’alienazione sociale, il distacco dalla realtà e le malattie mentali, specie tra gli adolescenti. Molto meno, però, si è discusso degli aspetti positivi dell’iper-connessione: creazione di community, espressione di sé, supporto emotivo, identificazione. Citando uno studio del 2014, Kaitlyn Tiffany su The Atlantic scrive che su Instagram “le persone amano guardare i volti”, e questo le spinge a interagire di più quando si postano foto di persone. Allo stesso modo, in piena quarantena, si affacciano alle finestre per guardarsi e sopperire al bisogno di intimità. Su The Conversation, invece, si è provato a spiegare il successo di TikTok da un punto di vista psicologico, attraverso il concetto di neuroni specchio, che spingono le persone a un’imitazione inconscia e producono una “spinta di simpatia”, un sentimento di solidarietà, quando assistono a un’azione o un movimento umano. 

In una sorta di flusso di coscienza costante, nella prima stagione Fleabag parla con noi di continuo: quando è mollata dal fidanzato, mentre flirta con qualcuno o ci racconta in modo schietto e sincero il bisogno fisico di essere desiderata. Persino durante il sesso con estranei non risparmia occhiolini, smorfie complici e commenti sarcastici rivolti in camera. Come un amico immaginario, la donna a tratti ci interpella e coinvolge, a tratti ci respinge e ci nega il suo segreto più grande.

Del resto, Euphoria non condanna l’uso intensivo degli smartphone da parte dei protagonisti. Non c’è alcuno sguardo paternalistico nel raccontare Rue e gli altri mentre si scambiano foto di nudo o fanno sexting; nella serie il disagio degli adolescenti non deriva dal troppo uso dei social, ma è strettamente connesso alla società in cui vivono, violenta, cinica e allo sbando. “Lo so che potrebbe sembrare tutto triste, ma sai cosa? Non ho costruito io questo sistema. Né l’ho mandato io a puttane”, dice Rue, tra consapevolezza e pessimismo di fondo. Ma anche rivelando un particolare modo di sentire comune ai teenager, diventati la generazione più sola, depressa e ansiosa, ma anche quella meno propensa a fare uso di alcool e droghe, perché preoccupata per la situazione economica, la minaccia del global warming e le disuguaglianze sociali. I social diventano il loro habitat naturale, a volte un rifugio che permette di esprimersi, tessere relazioni e persino sensibilizzare e informare chi guarda. La protagonista di Euphoria ci spiega il cat calling o parla con noi del suo malessere perché non ha nessun altro con cui farlo.

Dialogo continuo

La rottura della quarta parte è ancora più pervasiva in Gentleman Jack, serie tv Hbo-Bbc che racconta la storia vera di Anne Lister: avventuriera e proprietaria terriera vissuta nell’Inghilterra dell’Ottocento, meglio conosciuta come la “prima lesbica moderna”. Creata da Sally Wainwright, la serie si basa sui diari personali che la donna scrisse in codice, raccontando avventure e relazioni. Il ritratto che ne emerge è di una figura a dir poco insolita per l’epoca: veste sempre di nero, in privato si fa chiamare Fred; è caparbia, fiera, una seduttrice mascolina e romantica, decisa a sposare solo la donna amata. A raccontarcelo è lei stessa, mentre guarda in camera, fa l’occhiolino (pure nel mezzo della conversazione) e intrattiene un dialogo continuo con il pubblico, che ha accesso diretto ai suoi segreti e pensieri più privati. Che si tratti di scongiurare complotti ai danni della sua tenuta di Shibden Hall o di conquistare l’amata Ann Walker. “Intendo vivere assolutamente con chi amo”, dice la protagonista in un episodio, “Ho intenzione assolutamente di spendere le mie ore serali con qualcuno che mi ama”.

Gentleman Jack racconta perlopiù una love story, un amore proibito tra due donne in lotta contro una società bigotta e intollerante, che le concepisce solo come madri e mogli. In modo simile a Rue, anche Anne Lister è una donna che si sente sola, diversa e persino sbagliata, perché costretta a vivere in un mondo che rifiuta e condanna la sua natura, impedendole di essere se stessa. Il suo rifugio, il suo porto sicuro diventano allora i diari, nei quali la donna scrisse 4 milioni di parole (in un misto di algebra e greco antico); e di conseguenza lo diventano gli spettatori, con cui si instaura quella connessione e complicità tanto ricercata nella vita reale. Come ha detto la showrunner Wainwright, la rottura della quarta parete “riguarda principalmente la creazione di un rapporto intimo tra Anne Lister e il pubblico, nello stesso modo in cui tu senti un’intimità tra te e lei quando leggi il diario vero”.

Qualcosa di simile avviene sui social, con le stories, attraverso cui si sviluppa una narrazione diaristica giornaliera, basata sull’interpellazione continua di chi guarda. Ne è un esempio il profilo di Francesca Crescentini, nota come Tegamini: “Il blog è sempre stato un diario di bordo, per me. Un contenitore felice che mi è servito a catalogare curiosità, pezzetti di vita quotidiana, riflessioni e entusiasmi vari – dai libri ai film, dai viaggi alla moda”, racconta. “Oggi su Instagram continuo a fare esattamente quello, anche se il pubblico che si è creato è diventato molto più vasto”. In questo modo si costruisce una community, un safe space in cui ci si mostra con filtri simpatici, senza trucco o in vestaglia, perché fatto da amici virtuali uniti da interessi comuni e dalla voglia di tenersi compagnia. “Chi ha la pazienza di seguirmi, di parlarmi, di commentare e di interagire è per me una fonte solidissima di incoraggiamento e anche di divertimento. Mi pigliano come sono e questo mi permette, contemporaneamente, di essere molto trasparente e serena quando si tratta di lavorare, anche”, prosegue Crescentini.

Doppia rottura

Guardare in camera, o verso la fotocamera del proprio telefono, significa raccontarsi in prima persona e avere quindi il controllo della propria narrazione. Di essere padrone di sé. Come ha scritto la scrittrice e book influencer Carolina Capria, molte donne hanno trovato nei social nuovi spazi per autodeterminarsi ed esprimere la loro voce, creatività e passione, facendone un lavoro. Allo stesso modo, molte serie tv, spesso create e interpretate da donne come Crazy Ex-Girlfriend o I Love Dick, fino alla più recente High Fidelity – usano l’espediente della rottura della quarta parete per raccontare protagoniste trasgressive, libere e impegnate nella propria ricerca di sé, tanto che nessun altro potrebbe parlare per loro, se non loro stesse. Fleabag – ideata, scritta e interpretata da Phoebe Waller-Bridge – è un caso esemplare. La serie segue le vicende di una millennial che si autodefinisce “avida, perversa, egoista, apatica, cinica, depravata, moralmente in bancarotta, che non può nemmeno definirsi femminista”. Il personaggio (in italiano “sacco di pulci”) è una broken woman senza nome, in lutto per la morte della migliore amica, che usa il sesso per colmare la solitudine che sente, al pari dello spettatore: l’unico in grado di ascoltarla.

In una sorta di flusso di coscienza costante, nella prima stagione Fleabag parla con noi di continuo: quando è mollata dal fidanzato, mentre flirta con qualcuno o ci racconta in modo schietto e sincero il bisogno fisico di essere desiderata. Persino durante il sesso con estranei non risparmia occhiolini, smorfie complici e commenti sarcastici rivolti in camera. Come un amico immaginario, la donna a tratti ci interpella e coinvolge, a tratti ci respinge e ci nega il suo segreto più grande: l’aver tradito Boo (andando a letto con il fidanzato) e causandone, indirettamente, la morte incidentale. Waller-Bridge ha spiegato che la rottura della quarta parete è un espediente utile alla protagonista per confessare il senso di colpa, e anche per “distrarre se stessa e il pubblico dalla sua infelicità”, in una performance incessante. Nella seconda stagione, la sua interpellazione è così invadente che la nostra presenza diventa palese al prete: il primo personaggio capace di vederla nel profondo e del quale si innamora, ricambiata. “Cos’è quella cosa? Quella cosa che stai facendo? È come se sparissi”, chiede l’uomo, che guarda lui stesso più volte in camera. In quel momento il pubblico diventa parte integrante della narrazione diegetica, e si attua una doppia rottura della quarta parete, che simboleggia la caduta del muro innalzato da Fleabag e della maschera di cinismo e invulnerabilità costruita per tenere a distanza tutti. Ma si sgretola anche la relazione speciale che si era instaurata tra noi e lei. “Credo di volere semplicemente qualcuno che mi dica come vivere la mia vita, Padre. Perché finora credo di aver sbagliato tutto”, ammette per la prima volta la donna. Come in Gentleman Jack, la seconda stagione inscena il forbidden love tra due persone sole, che faticano a trovare un posto nel mondo e quindi trovano rifugio l’uno nell’altro. Così, più Fleabag e il prete diventano intimi, più noi veniamo messi da parte, esclusi nel momento in cui fanno sesso, fino al saluto finale che segna la definitiva ricostruzione e guarigione della protagonista. Perché ormai ha imparato ad amare, e lasciarsi amare, e quindi non ha più bisogno della sua secret camera friend”.

Spazi mancanti

La seconda stagione di Fleabag è stata definita dalla critica un capolavoro devastante: sia per la capacità di raccontare una storia molto umana sul piacere femminile, sulla solitudine, sul dolore, sull’amore, in modo brillante; sia per la capacità di coinvolgere e sconvolgere il pubblico. “Com’è lusinghiero essere scelti da lei, essere l’interlocutore di una persona così spudorata, perversa e ferita”, scrive Parul Sehgal sul New York Times, di una donna che flirta con tutti, noi compresi, e poi ci molla, lasciandoci tristi e soli. Questa sindrome di abbandono è molto comune anche nel mondo dei social, quando influencer, tiktoker o youtuber decidono di sottrarsi agli schermi e prendersi una pausa dall’incessante performare. Per tornare a grande richiesta del pubblico affezionato, che ne sente la mancanza – così è accaduto anche a Phoebe Waller-Bridge, con la seconda stagione di Fleabag, inizialmente non prevista. 

In questo modo, la comunicazione diretta e colloquiale, lo scambio reciproco e il sentimento di vicinanza, tra content creator e audience, finiscono per assottigliare il confine tra virtuale e reale, specie quando il mondo online sostituisce e colma spazi mancanti dell’offline. Alice Orrù, meglio conosciuta come AliceTrentaEQualcosa, afferma: “parlo dei temi che voglio, nei modi in cui voglio. Mi piace creare momenti di domanda e risposta, in cui si intavolano discussioni con tante persone. Ma penso che offline non mi sentirei ugualmente sicura di aprire conversazioni su certe questioni così personali, come la maternità, il sessismo sul lavoro… Anche in circoli ristretti e più familiari”. E se da un lato siamo tutti performer, in qualche modo, e scindere tra espressione di sé ed esibizione di sé è sempre più difficile, è vero anche che internet è sempre stato uno spazio per connettersi con gli altri. Socializzare è parte del nostro essere: “Non è narcisismo, è voyeurismo”, sostiene Joanne McNeil, autrice del libro Lurking. “È bello ricevere mi piace e cuori dai tuoi seguaci, ma l’esperienza centrale dei social è riuscire a vedere gli altri”. Per confrontarsi, identificarsi, supportarsi, e supplire alla paura della solitudine.

Iper-condivisione

Ora che siamo costretti a stare in casa, in isolamento, la voglia di umanità e solidarietà si è amplificata all’estremo, con un’ipertrofia di contenuti che, ancora, puntano a creare momenti di aggregazione e mettono al centro l’interpellazione diretta di chi guarda. “Quello che sta succedendo ci mette davanti all’importanza di recuperare la visualità nella comunicazione. Vedersi in faccia, vedere le espressioni, è insostituibile”, prosegue Alice Orrù, ideatrice delle Cene da Remoto. “Le Cene da Remoto nascono dal vedere che le persone avevano bisogno di comunicare, di socializzare… di ricreare un momento di convivialità in video. Chi partecipa conosce solo me e ha voglia di chiacchierare con altre persone”. Del resto, secondo uno studio del 2018, la videochat contribuisce a ridurre il rischio di depressione nelle persone più anziane, tra le più colpite negli Stati Uniti – con i giovani sotto i 25 anni – anche dalla solitudine (da noi ne soffre un italiano su otto). Secondo Josh Constine di TechCrunch, i social non sono mai stati così social: ora tutto ruota intorno alle persone e a quello che provano; e persino la paura della FOMO è scomparsa, con il senso di colpa di stare troppo ore online, rimpiazzato dal desiderio urgente di reinventarsi una nuova intimità. “Lo schermo ha vinto”, titola il New York Times, quasi a porre fine al lungo dibattito sugli effetti dei device digitali. La verità è che aveva vinto già da tempo, come dimostra il successo dello sguardo in camera e dell’iper-condivisione con l’altro da sé, sui social e nelle serie tv. Parafrasando una battuta di Fleabag, le persone a volte fanno schifo ma sono l’unica cosa che abbiamo, e quindi non possiamo fare a meno di cercarne un contatto diretto. Anche se mediato da uno schermo.


Manuela Stacca

Laureata presso l'Università di Sassari, si occupa di critica cinematografica e televisiva per alcune testate online.

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