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I post-millennials non sono la generazione del selfie

Non ci sono più i giovani di una volta, questo è sicuro. Ma dietro le apparenze quella nata nel nuovo millennio è una generazione piuttosto interessante. Ecco qualche ragione.

Nel 1985, l’allora quindicenne Luis Miguel cantava Noi, ragazzi di oggi sul palco del Festival di Sanremo. I “ragazzi di oggi” di allora erano gli Xennials, che non è il nome di un ansiolitico, ma quello degli ultimi nati della Generazione X prima dei Millennials. Quelli che guardavano i Goonies e parlavano con il walkie-talkie. I loro omologhi di oggi sono i post-millennials o linksters, appartenenti alla cosiddetta Gen Z, i nati tra gli anni 1997 e 2012, che si nutrono principalmente di Netflix, a cui non serve un palco per diventare famosi, ma che possono guadagnare popolarità con le stories su Instagram o un video virale su YouTube. Le loro foto da piccoli erano pubblicate su Facebook dai genitori prima ancora che sapessero cosa fosse un social, magari con il viso coperto da un adesivo sorridente. Quando fu lanciato il primo iPhone sul mercato, i più vecchi dei giovanissimi di oggi non arrivavano ai dieci anni. Sono madrelingua del digitale, e se le precedenti generazioni hanno dovuto fare un salto dall’analogico, i baby post-millennials hanno imparato a usare il tablet prima ancora di camminare. Vivono immersi nella tecnologia, se entrano in un locale la prima cosa che ordinano è la password del wi-fi.

Il 45% dei teenager americani è sempre connesso (nel 2015 erano meno del 24%), ovviamente sui social network. Ma quale social? Un obsoleto ragazzo del 1995 come me risponderebbe “Facebook!”, e invece no, la piattaforma di Zuckerberg ha completamente perso appeal sulla nuova generazione. L’habitat naturale dei post-millennials è quello dei social che fanno dei contenuti visivi la loro colonna portante: YouTube è il più gettonato, poi Instagram e Snapchat. Il motivo è che i video danno più facilmente la possibilità di esprimersi, di diffondere le proprie idee, e soprattutto hanno un linguaggio universale rispetto alla comunicazione statica e prevalentemente testuale di Facebook e Twitter. Per definizione i post-millennials poi sono poco fedeli, pronti a migrare rapidamente verso nuove app, e il podio dei social più utilizzati potrebbe cambiare molto presto, con TikTok, ex Musical.ly, esploso negli ultimi mesi, che permette di creare e condividere brevi video di pochi secondi, sui quali i ragazzini ballano, cantano in playback, o recitano scenette comedy. Solo in Italia l’app conta quasi 3 milioni di utenti.

Da questo quadro può sembrare che stiamo parlando di una generazione distaccata dalla realtà, dove la Z di Gen Z sta per Zombie, con lo smartphone come prolungamento del braccio, intenta a riprendersi in ridicole coreografie. Ma un’analisi più attenta rivela uno scenario diverso. I post-millennials sono i più sensibili alle problematiche sociali: i teenager di oggi infatti si mostrano aperti alla diversità, e temi come l’omosessualità, la differenza etnica o l’uguaglianza di genere sono questioni già metabolizzate. Questo li rende la generazione più tollerante di sempre, anche grazie ai social che consentono di confrontarsi con diverse realtà. La serie tv norvegese SKAM rappresenta perfettamente gli adolescenti di ultima generazione: il teen drama dei post-millennials affronta a ogni stagione un tema controverso, come la violenza sessuale, l’islamofobia, la malattia mentale o il cyberbullismo, così come la difficoltà nel fare coming out. Non è certamente la prima serie in cui vengono trattati tali argomenti, ma la novità sta nelle modalità di storytelling: le puntate, condensate in brevi clip, sono caricate sul sito nel momento in cui gli eventi stanno accadendo, in real time. Tra note vocali e messaggi su Whatsapp, il racconto offline si intreccia con la dimensione online, dove i protagonisti interagiscono tra di loro. Inoltre, ogni attore ha un suo profilo Instagram che i fan della webseries possono seguire per attingere informazioni in più sul personaggio e sulla storia. La serie si muove nel terreno post-millennial, sfrutta l’iper-connessione sia dei giovani protagonisti sia dei fan che li seguono. Ed è proprio grazie a questo efficace realismo, alla naturalezza del racconto adolescenziale, lontano dai cliché e dalla consueta superficialità che di solito delinea la fisonomia dei teenager altrove, che SKAM è diventata un fenomeno di culto mondiale (adattata in più di 15 paesi), compresa l’Italia con l’adattamento più riuscito e apprezzato a livello internazionale, come segnalato da BuzzFeed.

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Greta Thunberg durante una manifestazione

We Are Not Here For Selfies

Prima si è parlato di migrazione da un’app a un’altra. Ecco, l’aspetto positivo dei social network sta proprio nel social, nella possibilità di far parte di un gruppo, una community. Se segui un cantante, un influencer, automaticamente diventi parte di un collettivo, della cerchia dei follower di quel personaggio. E con il passaparola è più facile accendere i riflettori su determinate tematiche, e unire persone intorno a una causa. Lo sa bene l’attivista sedicenne Greta Thunberg, che è riuscita a smuovere le coscienze di milioni di teenager in tutto il mondo per protestare contro il disinteresse per il cambiamento climatico. È diventata il simbolo di questa generazione, ribattezzata dai media come “Generazione Green” o persino “Generazione Greta”. A colpi di stories, tweet e hashtag la protesta di Greta è diventata virale proprio lì, nell’habitat dei post-millennials, grazie all’hashtag #fridaysforfuture, coinvolgendo molti gruppi di studenti di tutto il mondo e dimostrando che questa non è solo la generazione dei selfie, ma una generazione che “sa in cosa credere”, parafrasando sempre Luis Miguel. Certo, il problema del cambiamento climatico non è una novità, ma c’era bisogno di una sedicenne “rompiballe”, Libero dixit, che urlasse “ci state rubando il futuro” per prendere davvero coscienza del problema.

A colpi di stories, tweet e hashtag la protesta di Greta Thurnberg è diventata virale proprio lì, nell’habitat dei post-millennials, grazie all’hashtag #fridaysforfuture, coinvolgendo molti gruppi di studenti di tutto il mondo e dimostrando che questa non è solo la generazione dei selfie, ma una generazione che “sa in cosa credere”.

Prova a prendermi

I post-millennials sono gioia e dolore per i brand. Sono un target schizofrenico, iper-connesso e quindi iper-informato, cresciuto sotto un bombardamento di campagne pubblicitarie sia offline sia online che l’ha reso anche iper-selettivo. Riescono a fare slalom e a rimanere indifferenti alle pubblicità come si fa con i venditori ambulanti. Intercettarli quindi è complesso, e ovviamente lo si deve fare sui social, su Instagram, dove i ricavi pubblicitari nel 2019 potrebbero toccare i 14 miliardi di dollari, quasi il doppio rispetto al 2018, segno dell’attenzione crescente delle aziende verso la piattaforma. L’importante non è solo esserci, ma esserci nella maniera giusta. Per questo il rischio per il brand è quello di utilizzare un linguaggio sbagliato e di risultare ridicoli, e generare l’effetto “Mr. Burns che fa il giovane”.

La soluzione è di ingaggiare come testimonial un giovane della Gen Z: Calvin Klein, Burberry, EA Games, Moncler e Converse hanno scelto la quindicenne Millie Bobby Brown per le loro campagne pubblicitarie. Unica star lanciata da Netflix, Millie è l’attrice che interpreta Eleven in Stranger Things, ruolo che le ha permesso di ottenere una nomination agli Emmy, l’attrice più giovane della storia a ricevere la candidatura. Perché i brand impazziscono per lei? Perché conta circa 20 milioni di follower su Instagram, perché è la più giovane di sempre inserita nella lista delle 100 persone più influenti al mondo secondo Time e perché è impegnata nel sociale, essendo la più giovane ambasciatrice Unicef della storia. Il suo profilo Instagram è un alternarsi di messaggi d’amore e messaggi promozionali, di giubbotti Moncler e di smielati inviti ad essere sempre se stessi e a non arrendersi mai.

Pur essendo molto giovane, Millie è ben consapevole della sua influenza, e non perde occasione per battersi per una giusta causa. Si è scagliata contro il bullismo durante gli Mtv Awards (“Se hai bisogno di qualcuno che ti ricordi che vali scrivimi su Instagram!”), e ancora ha protestato ai Kid’s Choice Awards contro la libertà di possedere un’arma in America, indossando un vestito (Calvin Klein) con i nomi dei 17 ragazzi morti durante la sparatoria nel liceo di Parkland. Dietro i selfie di Millie, mascherati con musi di gatto e orecchie da coniglio, c’è un’idea e una straordinaria capacità di comunicare e diffondere quell’idea a milioni di persone. Questi enfant terrible, dunque, possono diventare un incredibile attrattore commerciale grazie alla popolarità sui nuovi canali di comunicazione. Una lezione per i brand, che devono imparare l’attualità del vecchio motto: “Se non puoi batterli, unisciti a loro”.

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Millie Bobby Brown ai Kid’s Choice Awards

Post Star

Un’analisi dei gusti musicali dei giovanissimi offre altri spunti di riflessione per delineare la camaleontica fisionomia dei “ragazzi di oggi”. I post-millennials sono cresciuti in un mondo dove il cd è una specie in via d’estinzione e l’accesso alla musica è sempre stato gratuito. Questo ha permesso loro di nutrirsi liberamente delle infinite librerie delle piattaforme streaming, senza i filtri di radio e tv. Per il report Gen Z Music Consumption & Spending Report, il 78% degli appartenenti alla generazione afferma, infatti, di ascoltare più generi musicali e il 95% ne ascolta almeno 5. Scontato dire che ascoltano musica soprattutto su Spotify, mentre YouTube è più utilizzato per la scoperta di nuovi artisti.

Questa facilità e questa libertà d’accesso hanno formato una generazione dal complesso background musicale, come testimoniano i nuovi protagonisti del mercato discografico. Partiamo dai teen idol. Quando i primi post-millennials nascevano, in vetta alle classifiche c’era la diciannovenne Britney Spears; quando gli stessi compivano dieci anni c’era il sedicenne Justin Bieber che cantava “Baby”. Ora, invece, a dominare le classifiche mondiali c’è una 2001, Billie Eilish, la prima nata nel nuovo millennio a raggiungere la vetta americana. Incarna le mode e le speranze della cultura online giovanile, al punto da sembrare prodotta a tavolino da un algoritmo: look streetwear androgino, fan di Justin Bieber e Ariana Grande, sguardo assente e assonnato, atteggiamento da I don’t give a fuck arricchito da un linguaggio fatto di slang, fuck, bro e duh, come mostra spesso nelle sue stories su Instagram. Nei suoi testi ci sono ansie, amori non corrisposti e difficoltà giovanili, sussurrate e rumoreggiate come nei video ASMR, molto in voga tra gli adolescenti. E il successo lo deve a una piattaforma streaming, Soundcloud, dove ha caricato il suo primo brano, come fanno molti suoi coetanei americani.

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Billie Eilish

Se i Post-millennials fossero una band, poi, questa sarebbe i Brockhampton. Meno famosi di Eilish, sono una boy band anticonvenzionale, composta da 14 ventenni, di ogni etnia, religione e orientamento sessuale. Si sono conosciuti tutti sul web, su una fan page di Kanye West. Spesso si dipingono il corpo di blu, per sottolineare la loro idea di uguaglianza, evitando distinzioni di pelle. Mescolano background e influenze differenti, fanno della diversità il loro punto di forza, e ciò traspare nei loro testi che incoraggiano l’essere, appunto, un outsider. O ancora c’è Khalid, che dà voce alla generazione nell’album American Teen, uno spaccato della difficile vita dei teenager americani di oggi.

E a riscuotere più successo tra i nativi digitali, come in Italia, è tutto il filone della trap e delle sue sfumature, che ha trovato terreno fertile su Soundcloud, dando vita all’ondata della cosiddetta “Soundcloud Rap”: il controverso diciottenne Lil Pump e Smokepurpp vengono da lì, così come Juice WRLD e il compianto XXXTentacion, nuove star del volubile mondo adolescenziale. Infine, data la popolarità della già citata TikTok, giovani rapper apparsi dal nulla hanno raggiunto i vertici delle classifiche mondiali, come Lil Nas X, diventato virale per il brano trap-country “Old Town Road”, colonna sonora di molti balletti imbarazzanti sul social. TikTok sarà il nuovo Soundcloud?

L’iper-connessione non ha portato a un’alienazione e un distacco dalla realtà, ma, al contrario, ha creato una rete di relazioni e condivisioni che non isola ma unisce, che accomuna per difendere una giusta causa, che non massifica perché aperta a molteplici stimoli, che riesce a superare la diversità nel senso più pieno.

Inclusione

Quello che sorprende di più dei post-millennials è il rapporto con la diversità. Anche la malattia o l’handicap sono affrontati in maniera diversa dalle generazioni precedenti: se prima si dibatteva sull’accettazione della malattia, per i giovani questa è percepita come condizione di normalità. O diventa addirittura emblema della propria unicità. Millie Bobby Brown è sorda a un orecchio, Greta è affetta dalla sindrome di Asperger, Billie Eilish ha la sindrome di Tourette. E tutti sono comunque riusciti a raggiungere il loro obiettivo, senza strumentalizzare le loro debolezze e il loro disagio. In seguito a una denigrante compilation di tutti i suoi tic diventata virale sui social, Eilish ha deciso di parlare per la prima volta della malattia che le è stata diagnostica, e in un’intervista da Ellen ha affermato che questa è da considerarsi un tratto caratterizzante la sua persona. Non intende però enfatizzarlo per non essere etichettata come “la cantante con la Tourette”. Ancora più significativo è David Aguilar, conosciuto come Hand Solo, nato senza avambraccio destro, che si è costruito una protesi funzionante utilizzando i mattoncini LEGO. David si serve del web per essere d’esempio e aiuto per chi ha lo stesso handicap, e, come per i tutorial di make up, nel suo canale mostra con disinvoltura come ha realizzato le protesi, con una batteria che funge da bicipite e un cavo da pesca che permette di chiudere e aprire il braccio.

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David Aguilar

Questa nuova, positiva lettura del complesso panorama del mondo digital degli adolescenti aiuta a trovare la parola chiave per descrivere questa generazione: inclusione. L’iper-connessione non ha portato a un’alienazione e un distacco dalla realtà, ma, al contrario, ha creato una rete di relazioni e condivisioni che non isola ma unisce, che accomuna per difendere una giusta causa, che non massifica perché aperta a molteplici stimoli, che riesce a superare la diversità nel senso più pieno perché la accetta percependola finalmente come normale. E che è strumento per comunicare, diffondere, socializzare, sensibilizzare e orientare, informare e formare. Potenza del web e di una generazione che, a dispetto delle apparenze, ha qualcosa da insegnarci.


Alessandro Laborano

Dall'ombra del Vesuvio a quella della Madunina. Laureato in Economia Aziendale, si è specializzato in Marketing Management presso l'Università Cattolica Del Sacro Cuore. Ha lavorato al Marketing Strategico di Mediaset prima e, oggi, in Warner Bros. Discovery.

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