Nella canzone rap e pop degli ultimi anni, la politica passa sullo sfondo, stemperata in un più vago impegno sociale. E il conflitto diventa allora quello con genitori assenti e lontani.
Il tema dei conflitti lambisce quello della gioventù, e spesso vi si sovrappone. Oltre a essere un valore, la gioventù può infatti portare alla luce contraddizioni e crisi di certe istituzioni. Sulle istituzioni politiche, curiosamente, è sceso il silenzio, o quanto meno si è molto attenuato il volume, dopo che a metà decennio il rap (da Fabri Fibra a Fedez), ma anche esponenti di altri generi come Fiorella Mannoia e Lo Stato Sociale, avevano lanciato i loro strali contro bersagli governativi. Tenuto conto che le aperte simpatie di un congruo numero di rapper andavano al movimento che ha vinto le elezioni del 2018, un buon motivo per la quiete del periodo più recente può ravvisarsi nel rischio di essere attaccati con altrettanta virulenza da politici e social media manager che hanno fatto proprie alcune delle capacità di “dissing” dell’hip-hop. Un ministro famoso per i selfie ha aizzato la sua ampia fandom contro Gemitaiz, Ghali e Salmo. Così Mahmood, pur sobillato a sua volta contro di lui dall’opposizione, ha pensato bene di stringergli la mano davanti a Maurizio Costanzo. Evidentemente non è un sostenitore del partito del Ministro, ma la ricerca di un conflitto contro un avversario più forte di ogni rapper consiglia prudenza non solo a lui, ma anche a chi nelle canzoni si dichiara trasgressivo. Così Sfera Ebbasta: “Io di politica non so un c***o. Tanto, capirci o non capirci, mi sembra solo che alla fine la prendano tutti nel c**o. Serve davvero che mi interessi di politica? Che dica che i politici ci rubano i soldi?”.
Conflitto sociale
Il conflitto politico diventa quindi conflitto etico, come quello delle prese di posizione di Emma Marrone, Francesca Michielin o Alessandra Amoroso in difesa della comunità LGBT, o di Ermal Meta per i rifugiati, che mettono in discussione alcune politiche estremiste senza apertamente criticare tutto il governo. Prese di posizione pubbliche che – immaginiamo – saranno state sconsigliate fino all’ultimo dai manager. Del resto il clima è arroventato, e un tweet incauto di Anastasio su Casa Pound o di Daniele Silvestri sul Presidente della Repubblica possono scatenare entrambe le fazioni. I vecchi saggi, saggiamente tacciono: Vasco Rossi, Ligabue, Jovanotti danno lavoro a tanta gente e non intendono lasciarla per strada per un virgolettato. Anche loro hanno i propri sondaggisti.
“Io di politica non so un c***o. Tanto, capirci o non capirci, mi sembra solo che alla fine la prendano tutti nel c**o. Serve davvero che mi interessi di politica? Che dica che i politici ci rubano i soldi?”.
Interessante però che molto rancore verso le élite si diriga, più che verso quelle politiche ed economiche, verso quelle intellettuali. O quantomeno verso chi riceve un’istruzione superiore. Ultimo “in classe non era presente” e ha preferito imparare all’università della vita, che resta la migliore (“Avessi avuto solo un briciolo di dignità ti avrei mandata a fare in culo un anno fa, quand’ho capito che hai il cervello di una zanzara e vuoi fare la colta universitaria”). Lazza in 2 cellulari proclama: “Non è obbligatorio avere un diploma per fare storia; ho un paio di iPhone, vuoi dimostrazioni?”. Gianni Bismark ridacchia: “T’accompagno a vede’ ’l voto all’università – devi scusarmi, ma qua dentro ce vendevo er fumo”. Irama intitola un brano Non ho fatto l’università e rivendica: “Fra’ per ridere non serve mica un laureato, tanto il mondo in tasca mica ce lo siam comprato”.
Conflitto con i padri
Domanda: c’è perlomeno un conflitto con i padri, vuoi nel senso ampio di generazione, vuoi in quello più letterale di insofferenza per le dinamiche familiari come noi, più o meno, le conosciamo? Sì e no. I rapporti con la famiglia sono, forse con scarso preavviso pensando agli anni precedenti, uno dei filoni più presenti nel corpus canzonettistico italiano di questo biennio. E quasi sempre è inserita nello storytelling in rima dei nuovi protagonisti. Non è ovviamente una novità: senza risalire a Mia Martini e Fabrizio De André e ai loro problemi con la figura paterna, il rap ha consacrato in Eminem uno dei più disillusi demolitori di quella materna. Nel rap italiano le vicende familiari sono state portate da Fabri Fibra, con la sua faida con la madre e il fratello Nesli, da Mondo Marcio nel racconto del divorzio dei genitori, da Jake La Furia che risponde a chi lo accusa di essere figlio di un benestante raccontandone nel brano Serpi le umili origini, da Salmo nel suo profondo rapporto e confronto con il padre (…quanto a J-Ax e Fedez, i rispettivi genitori sono anche i loro contabili).
Ma nella generazione attuale, il contesto familiare è decisamente enfatizzato, e meno personalizzato: quando Mahmood in Soldi parla del padre assente, quando Ghali in Mamma (ma anche in Ricchi dentro) proclama il suo amore filiale con lo stesso trasporto di Laïoung in Papà (“I tuoi insegnamenti mi hanno portato a trofei, non sei come gli altri padri, mai e poi mai ti cambierei”), lo fanno in modo che sia condivisibile. Nell’intimo, ma anche – ovviamente – sui social. Del resto le storie personali delle nuove rapstar sono spesso contraddistinte da un abbandono, non sempre volontario. Nel caso di Sfera Ebbasta e Gemitaiz, il padre è deceduto; Rkomi non lo ha mai conosciuto; Tedua all’età di tre anni è stato affidato a una famiglia per qualche tempo, poi è stato cresciuto dalla nonna materna; Izi dopo il divorzio dei suoi è scappato di casa e ha vissuto per strada.
Ma di padri parla tantissimo anche il pop. Lo fa con una certa frequenza Ultimo: “Lei che dice vorrei render fiero mio padre, tu invece piangevi per averlo incontrato”, oppure “Mi parli di tuo padre, quanto è stronzo a cena, che quando parli non ti guarda e non pone il problema”, o anche “Io lo capisco che a volte ti manca tuo padre, io nei tuoi occhi lo leggo, vorresti avere avuto un Natale”. Non è da meno Irama, che ostenta un rapporto risolto col proprio padre: “Mi rivedo in te, noi sempre in ritardo, ti rivedi in me, forse dallo sguardo. Quante volte ti ho deluso? Ma è da te che ho imparato l’ho imparato di puntare in alto, realizzare i propri sogni, non quelli di un altro”. Viceversa, è atterrito dai padri delle sue ragazze. Dal video di Non ho fatto l’università, in cui il padre di lei fatica ad accettarne l’inesauribile freschezza giovanile, a quello di Bella e rovinata che pare all’ultimo stadio del puritanesimo, a quello violento che abusa de La ragazza col cuore di latta: “A scuola nascondeva i lividi, a volte la picchiava e le gridava: soddisfatta? Linda sentiva i brividi quando quel verme entrava in casa sbronzo”. Cosa pensino intanto le ragazze stesse dei propri padri o delle proprie madri, perlomeno le ragazze che cantano, è difficile dire. Un po’ perché non ne parlano, un po’ perché l’Italia non pare interessata ad ascoltarle.
Dovendo fare un nome: Mahmood
La vicenda familiare di Alessandro Mahmoud ha vinto Sanremo grazie a un ritornello esemplare e a un titolo accattivante, che profuma dell’ossessione denaro: Soldi. Dall’oggi al domani, mezza Italia si è ritrovata a dibattere sul suo essere italiano (nato in Sardegna e cresciuto a Milano dalla madre nativa di Orosei, provincia di Nuoro) oppure no, perché figlio di un egiziano, e quindi migrante ad honorem.
Nella generazione attuale, il contesto familiare è enfatizzato, e meno personalizzato: quando Mahmood in Soldi parla del padre assente, quando Ghali in Mamma (ma anche in Ricchi dentro) proclama il suo amore filiale, lo fanno in modo che sia condivisibile. Nell’intimo, ma anche – ovviamente – sui social.
Tutto questo ha fatto passare in secondo piano la qualità sinceramente addolorata del racconto del proprio conflitto con il padre, stigmatizzato per i suoi difetti, ma non con il rancore del rapper: casomai con il tono del ragazzo deluso, e una malinconia che ha una vena intimista quasi cantautorale. Questa emerge anche in altri brani del suo album di debutto, che insistono sul suo senso di abbandono e lo approfondiscono. Ne Il Nilo sul Naviglio canta “La maglia Lacoste è l’unica cosa che di te mi resta, ma ora dimentichi i miei modi di fare da bambino, quando la notte confondevamo sempre il Naviglio con il Nilo […]. Dove vado se non ci sei tu più qui vicino… Se non c’è più il Nilo”. In Mai figlio unico, racconta “Ho una sorella e un fratello dall’altra parte del mondo. Forse di me, forse di te manco lo sanno. Ho tanti amici. Lo ammetto, è una ricerca d’affetto”. Potrebbe avere la stessa ispirazione anche l’addio dal balcone di Asia Occidente, ma con gli esempi si può fermare qui. E volendo, meditare sul fatto che quella uccisione freudiana del padre che nel rock’n’roll aveva trovato il suo propugnatore esplicito in Jim Morrison dei Doors, forse per i ragazzi del 2018 non è più un’opzione.
Perché nella maggior parte dei casi il padre non c’è. Oppure, se c’è, sta ascoltando Lo zoo di 105, o si sta fotografando le parti intime per mandarle alla tipa che gli fa i tatuaggi, o sta andando al concerto di Vasco Rossi, o sta insultando su Facebook una candidata di un partito malsopportato. O magari, a far fuori il figlio, ci sta già pensando lui.
Paolo Madeddu
È di Milano. Collabora con aMargine, Rolling Stone, HvsR e TRX Radio. Possiede una televisione.
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