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L’era dei producer: intervista a Shablo

Producer, discografico, imprenditore: Shablo è l’uomo giusto, con il suo multiforme ingegno, per capire come funziona la musica oggi. Il 26 ottobre esce il nuovo numero di Link, si intitola: Music Biz. Come reinventare un mercato.

Non è facile introdurre in poche parole chi sia Shablo. Nato Pablo Miguel Lombroni Capalbo a Buenos Aires nel 1980, e poi trasferitosi a Perugia in giovane età, ha passato tutta la vita in mezzo all’hip hop. Oggi che il genere è dominante nel mercato italiano, lui ne è di certo una delle figure centrali: allo stesso tempo producer, discografico e imprenditore, co-fondatore di una factory come Thaurus che ha lanciato e gestisce in tutto e per tutto alcuni dei nomi più forti della discografia contemporanea, e infine manager di artisti di primissimo piano quali Gué Pequeno e Sfera. Traguardi importanti, frutto di un percorso lungo, fatto di alti e bassi e di molta tenacia, di amore per la musica e di una fiducia costante anche quando il successo sembrava improbabile. Un percorso che ci ha raccontato nel dettaglio, insieme a tutte le difficoltà e le soddisfazioni di una professionalità così variegata.

Facendo un bel passo indietro, quand’è che ti sei innamorato della musica?

Credo che siano cose un po’ innate: la sensibilità verso la musica è stimolata da giovanissimi. Ne sono sempre stato affascinato sin da bambino, ho dei ricordi della musica in casa… Sono nato in Argentina dove la musica è dappertutto, anche per strada, c’è un rapporto profondo. Non l’ho mai pensata come un lavoro o come qualcosa che avrebbe potuto fare parte della mia vita, però, fino ai quattordici o quindici anni. Ne ho compiuti quaranta quest’anno e di base dai sedici ai quaranta ho fatto solo questo. 

È quello il periodo in cui hai scoperto l’hip hop?

Sì, anche se la musica già mi piaceva da prima. A dodici anni, emigrato da Buenos Aires a Perugia, ero super appassionato di jazz, e in generale della musica black. E ai tempi feci un accordo con il presidente di Umbria Jazz: mi diede un pass per andare a tutti i concerti gratuitamente, e in cambio accompagnavo una marching band che faceva tutto un giro per il centro di Perugia. Mi dedicarono un articolo sul Corriere dell’Umbria, che ancora conservo, che diceva “Pablo, il balio di Umbria Jazz”. Una cosa fantastica, c’è una foto di me a dodici anni con questi di New Orleans che portavo in giro per Perugia… Con questo pass sono andato a vedere il primo concerto, Guru che presentava Jazzmatazz. Nel 1994 a Perugia, figurati… Io avevo tredici anni, avevo l’accesso al backstage, quindi ebbi modo di parlare con lui, e sono impazzito: da lì ho iniziato a collezionare dischi e tutto il percorso. Per fortuna in pochi sanno che ho iniziato con il rap, che facevo in una maniera scandalosa; però ero molto coinvolto, era stimolante. Il rap ha questo fatto che anche se non hai una formazione musicale importante, anche se non hai fatto il Conservatorio, con un minimo di creatività riesci a produrre delle cose, a comunicare. Spesso i ragazzi non si sentono all’altezza, invece l’arte è un gioco, e l’atteggiamento giocoso del provare, sperimentare, è importantissimo e può far nascere cose importanti. Il rap è stato cruciale in tutto questo. C’è bisogno di fantasia nei ragazzi. Paradossalmente, nonostante oggi sia aumentato esponenzialmente il numero di ragazzi che ci provano, è venuto a mancare l’aspetto magico della fantasia creativa fine a se stessa. Spesso oggi si fa per motivazioni esterne: i soldi, il successo. Fino a forse cinque anni fa io non ho mai neanche pensato di diventare ricco: non lo facevi con questa spinta, lo facevi per passione. Non c’erano neanche modelli in Italia, all’epoca, che potevi dire che ce l’avessero fatta. Per i producer soprattutto, un sacco di gente ha sempre fatto altri lavori nel frattempo.

Come si fa a tenere insieme tre cose impegnative come fare il producer, il discografico e il manager ad alto livello?

Le giornate sono lunghissime, dormo sempre meno e vorrei avere giornate di 45 ore. La risposta più semplice è “con una grande passione”: sono innamorato di quello che faccio, non mi obbliga nessuno, lo faccio per il piacere di farlo. Paradossalmente tutti pensano che uno come me sia uno squalo della discografia, che sta sempre a pensare al margine economico… Pochi ci credono ma fondamentalmente a me non frega niente di quanti soldi faccio e non so neanche quanti soldi ho sul conto, te lo giuro. Faccio cose perché sono appassionato, sono una persona curiosa, per me è una sfida personale. È un momento super stimolante di trasformazione, in cui finalmente dopo anni di gavetta in cui il genere è stato bistrattato e non calcolato, e ora si trova in prima linea. E quindi mi piace, stiamo facendo una piccola rivoluzione. D’altra parte sento che la nostra generazione è fortunata perché ha vissuto quello che era prima e quello che è diventato dopo, quindi ha anche il know how e la conoscenza per guidare i più giovani. In più si fa con un’evoluzione personale su cui ho lavorato tanto nel tempo. Non sono nato pronto e preparato, ci arrivo dopo tanti errori. Oggi emerge il mio lato di successo ma per tanto tempo ci sono stati tanti fallimenti, che per fortuna allora magari non erano così visibili a tutti proprio perché non c’era un mercato, ma se sono arrivato oggi a vincere è perché ho perso tanto nel tempo. Per anni ho provato a fare, a creare delle strutture: i primi eventi li ho organizzati nel 2002, 2003, poi le prime società… con Marra abbiamo fatto Roccia Music in anni pionieristici, poi Avantguardia… Tante cose non sono andate, ma mi hanno insegnato cosa non rifare, che è una lezione fondamentale.

“Faccio cose perché sono appassionato, sono una persona curiosa, per me è una sfida personale. È un momento super stimolante di trasformazione. Dopo anni di gavetta in cui il genere è stato bistrattato e non calcolato, e ora si trova in prima linea. E quindi mi piace, stiamo facendo una piccola rivoluzione”.

Pensando al successo che arriva da giovani, un problema è anche che bisogna passare a una visione professionale a un certo punto, quando si è inseriti in una struttura per cui anche altre persone campano su quello che fai.

Oggi a vent’anni ti ritrovi nel pieno del ciclone, molto più di prima, perché noi a vent’anni non eravamo nessuno, forse giusto Tormento dei Sottotono. E comunque quei pochi l’hanno pagata. Quella fama lì quando sei un ragazzino è fantastica ma con il tempo ti rovina. Oggi ancor di più: sei ovunque, sempre, sotto lo sguardo di tutti, sui social, su internet, la gente commenta, giudica… Sono cose che possono creare problemi veri. È uscito un documentario molto bello su J Balvin che si chiama El nino de Medellin, lui è una persona adulta, e ancora si vede quanto soffre per il giudizio costante: ha avuto una pesante depressione, poi ha iniziato a parlarne. È una delle superstar più importanti al mondo e soffre di ansia per situazioni legate al suo lavoro, a quello che rappresenta… Bisogna stare molto attenti. Uno di sedici o diciassette anni è normale che non abbia la struttura mentale per sopportare tutto questo. Noi abbiamo avuto la “fortuna” di arrivare a questo tipo di successo in maniera graduale, non è successo a diciott’anni. A diciotto niente, a venti neanche, a venticinque nemmeno, a trenta neanche… (ride, nda). Io poi sono anche arrivato un po’ dopo perché ero nelle retrovie, non essendo un frontman, non mettendoci la faccia, però almeno ho avuto tutto il tempo per imparare certe cose. 

A funzionare sono anche personaggi sempre più estremi: è possibile coniugare le due cose? Artisti sempre più estremi, provocatori, che però per funzionare devono anche avere la testa sulle spalle.

È molto difficile. Ma non è impossibile. Intanto stiamo parlando di artisti, De Niro spara nei film ma poi quando torna a casa non spara alla moglie, quello è un personaggio. Il problema più grande è che spesso il personaggio e la persona si mischiano, ed è difficile riuscire a togliersi questa maschera da personaggio nella vita di tutti i giorni. Soprattutto se la popolarità è grossa. Però fare musica estrema o essere personaggi estremi non significano necessariamente che nella tua persona tu sia estremo, in teoria sono cose separate. In teoria. In pratica non è semplice, perché poi le persone si fanno molto condizionare dal personaggio, da come li vede la gente. È un lavoro mantenersi stabili ed equilibrati. 

Non hai ancora assunto uno psicologo nel team?

Sono figlio di psicologi: mia madre era psicologa. Ho quella formazione lì. Ho fatto analisi da quando avevo sei anni, poi a un certo punto ho smesso perché ho trovato delle falle, soprattutto nell’approccio freudiano ci sono dei grandi miti ormai superati, però conosco bene il discorso introspettivo e il farsi delle domande e lavorare su se stessi. Nessun essere umano può prescindere da questo. Nessuno. E in particolar modo un artista. Ha veramente tutto a che fare con chi sei tu, la vera domanda fondamentale che uno deve porsi: chi sono veramente? Sono quello che gli altri pensano, o sono qualcos’altro? Ci ho messo più di trent’anni per capire chi ero. Ci sono le proiezioni della famiglia, quelle della società, degli amici, della fidanzata… Immagina per un artista che oltre a tutto questo ha pure un mondo intorno fatto di milioni di persone che vogliono fargli sapere la loro opinione in continuazione. 

Parliamo di rap. Fino a pochi anni fa era sempre considerato la musica dei ragazzini, è vero però che ormai anche in Italia c’è gente di quarant’anni che è cresciuta ascoltandolo. Si sta sviluppando anche un rap più maturo? Siamo pronti a questa sfida in cui come in altri Paesi del mondo diventa una musica per tutti, anche per gli adulti?

Grazie al cielo mi sento di dire di sì. Lo hanno dimostrato i dischi di Marra prima e di Gué adesso, lui si trova nel periodo migliore della sua carriera a livello di numeri. Fastlife 4 non è neanche un disco ufficiale e ha fatto numeri pazzeschi, lui è in splendida forma e ha ancora tantissimo da dire. Ci siamo conosciuti a ventidue anni e di certo non ci aspettavamo di fare rap a quaranta… Già ci sono esempi mondiali che hanno dimostrato per fortuna che si può fare, come Jay-Z. Sicuramente non è da tutti. A un certo livello di maturità ci sono arrivati Marra e Gué, ma non sono tanti della nostra generazione ad avere continuato a questi livelli. Quelli precedenti a noi hanno smesso anche prima, anche perché loro a vedere un mercato che fioriva non ci sono neanche arrivati. Quando c’è una wave nuova, inizialmente c’è un grandissimo entusiasmo, però l’ho sempre detto, anche nel 2016: sono stato criticato, ma ho sempre detto “voglio vedere di tutti questi della trap quanti rimarranno”, ne sono ancora convinto. Lo vedo già dai numeri, senza augurare niente di male a nessuno, ma l’omologazione è evidente e se c’è uno Sfera poi ci sono cento copie di Sfera che sono destinate a finire. È normale, non può esserci spazio per tutti alla lunga, dopo l’entusiasmo iniziale. Dopo la trap adesso è la drill che sembra chissà quale rivoluzione… ma quanto durerà? Ne rimarrà qualcuno, chi ha davvero sostanza dietro.

Nel pubblico italiano comunque per te ormai il rap ha fatto davvero breccia per restare? Io ho sempre visto il rap come una cosa molto distante dal gusto italiano, le barre sputate sul boom bap… Infatti non a caso ha sfondato davvero quando è arrivata la trap con la sua melodicità vocale più vicina alla canzone italiana.

Tanti della nostra generazione che ha visto il rap duro criticano tantissimo la trap. C’è ancora molta divisione, purtroppo, perché a mio parere in un mondo ideale un quarantenne può sentire il rap duro come sentire Sfera o anche thaSupreme. Nella mia testa è comunque musica: io ascolto il reggaeton, ascolto il funk, ascolto il jazz, perché sono appassionato di musica e a seconda della situazione ascolto roba diversa. Gli italiani spesso si legano ai generi come fosse politica, anzi più di quanto si accalorino per la politica oggi, al massimo lo fanno per le squadre di calcio. 

Quindi tu non vedi una parabola discendente, il successo del rap in Italia come una bolla destinata a esplodere.

Si assesterà. Non credo che finirà, anche perché al momento non vedo alternative. Non c’è niente che lo stia mettendo in difficoltà. Diventerà un genere stabile come lo sono diventati il rock o il pop, molto rap poi ormai è pop. È entrato nella cultura, ha la dignità di ogni altro genere. Si assesterà, caleranno certi numeri, si sgonfieranno certi fenomeni, però di base rimarrà.

Una volta per cambiare genere, uscire dal rap (penso a Neffa, agli Articolo 31), ci mettevi dieci anni. Adesso la parabola è un disco rap e poi già cominciare subito ad allontanarsene, sempre più in fretta.

Credo che in generale non il rap ma la musica andrà sempre più verso una fusione generale, i generi apparterranno sempre più al passato. I veri e propri generi fatti in modo “puro” saranno sempre più una nicchia, il futuro sta nella fusione. È una cosa di cui sono convintissimo, si vede già adesso nelle cose di maggior successo: hanno elementi hip hop, utilizzano suoni rock, melodie pop, è tutto un miscuglio. Per fortuna oggi chi ascolta musica passa anche da un genere all’altro con più tranquillità, e una volta non era così. Neffa è stato criticato tantissimo quando ha lasciato il rap: sembrava che avesse tradito, ucciso, ammazzato. Voleva semplicemente fare qualcosa di diverso. Oggi guarda Rkomi: cinque anni fa faceva una cosa super rap come Dasein Sollen, mentre il disco nuovo, che ho prodotto io, è tutto chitarre acustiche. E con ogni disco migliora, il cambiamento è stato visto come un plus, giustamente. Perché lui si esprime e porta se stesso verso nuove strade.

Dal 2016 abbiamo visto questo cambio di sistema per cui gli artisti diventano famosi da soli e poi arrivano alle etichette, mentre prima erano le etichette a provare a lanciare gli artisti da zero: un bel cambio di paradigma. Questo ha anche portato a lasciare agli artisti maggiore libertà, rispetto all’idea dell’etichetta che ti dice tutto quello che devi fare?

Quello cui fai riferimento è stato un cambiamento importantissimo, il più importante nella discografia italiana contemporanea. Detto questo, il mito dell’etichetta che ti dice cosa devi fare è appunto un mito. Nella mia esperienza non ho mai visto un’etichetta che ti dicesse cosa dovevi fare. Un’etichetta ti può guidare, e penso che ce ne sia tanto bisogno. Gli artisti arrivano ad avere un successo effimero, una hit, o un disco di successo, ma non sanno come fare a prolungare questa cosa. Hanno bisogno di una guida, di un aiuto nel percorso. È sbagliato pensare che gli artisti debbano fare tutto da soli. Hanno delle idee creative che solo loro possono avere, e devono avere tutta la libertà di poterle esprimere, di proporre la loro visione, però spesso nella mia esperienza il confronto con il management, o con la struttura di un’etichetta, fa veramente la differenza. Ci sono esempi come Sfera, che è arrivato in un modo così dirompente che non c’era bisogno che nessuno gli dicesse niente: ha fatto la sua cosa. Io e Marra per lui ci siamo stati dal giorno uno, ma gli abbiamo detto per il primo disco di andare avanti da solo, di fare per conto suo. Poi siamo comparsi successivamente, ma già eravamo presenti a dare una mano con la distribuzione e alcune cose. Loro avevano già le idee chiarissime, e quindi sono andati avanti. Se una roba funziona, vai. Ma questo è un esempio molto raro. Sfera stesso dopo un po’ ha avuto bisogno a un certo punto che entrasse una struttura che gli dicesse “ok, facciamo il next step”, portiamola a un livello più alto. E quindi c’è un grande, grande lavoro di team. Nessuno gli dice quello che deve fare, è sempre lui il capo di se stesso, però c’è un confronto per esempio sulla scelta dei singoli, sulle produzioni, su cosa è più forte. C’è un confronto ma nessuno dirà mai “devi fare questo”. Può invece succedere che uno creda nella visione di un artista, ma che questo pur provandoci faccia fatica a emergere, e allora lì c’è un altro tipo di confronto: gli dici “guarda forse stai sbagliando questo, forse invece che provare con questo pezzo prova con quest’altra cosa”, ci sta. Il lavoro di talent scout invece come dicevi tu è una cosa veramente retrò, che non si fa più, ma abbiamo ricominciato a farlo in indipendenza come Thaurus-Bhmg. Non a caso Sfera ha fatto un post chiedendo di mandare cose perché vorremmo firmare nuovi talenti. In ventiquattro ore sono arrivate quindicimila mail. Non per dire un numero a caso, proprio quindicimila. Si è bloccato il server, ho dovuto ricomprare altri 200 giga di spazio e si è ribloccato lo stesso… Ho messo tre persone lì fisse a fare selezione tutto il giorno. Per farti capire quanta gente vuole essere scoperta. Noi facciamo scouting, con Thaurus Music abbiamo firmato un sacco di artisti: io personalmente artisti come Rkomi, Sfera, Charlie, Izi ai tempi, Ernia… È tutta gente cui ai tempi nessuno dava un soldo di fiducia e io li firmai facendo scouting personalmente, addirittura li proposi alle multinazionali e nessuno li voleva. Poi dopo che hanno fatto i risultati con me, hanno aperto gli occhi tutti. Per me fare scouting è sempre stato importante: con Roccia Music, insieme a Marra, l’abbiamo fatto, firmammo Achille Lauro in tempi non sospetti, Fred De Palma… Poi quell’esperienza è andata come è andata, però loro hanno fatto la loro strada, diversa da quella che avevamo impostato insieme, ma hanno dimostrato che avevano qualcosa da dire. Ci avevamo visto lungo.

“Quando c’è una wave nuova, inizialmente c’è un grandissimo entusiasmo, però l’ho sempre detto, anche nel 2016: sono stato criticato, ma ho sempre detto ‘voglio vedere di tutti questi della trap quanti rimarranno’, ne sono ancora convinto. Lo vedo già dai numeri, l’omologazione è evidente e se c’è uno Sfera poi ci sono cento copie di Sfera che sono destinate a finire. È normale, non può esserci spazio per tutti alla lunga, dopo l’entusiasmo iniziale. Dopo la trap adesso è la drill che sembra chissà quale rivoluzione… ma quanto durerà? Ne rimarrà qualcuno, chi ha davvero sostanza dietro”.

Qual è il segreto per capire che cosa funzionerà?

Le potenzialità le posso vedere non perché sono un mago ma semplicemente perché sono da talmente tanto tempo dentro a questo mondo che riesco a percepire prima di un discografico magari sessantenne di una multinazionale che cosa può avere successo. Non sono un genio, la mia bravura è semplicemente quella. Per fortuna le case discografiche si sono accorte di questa cosa e tramite noi, che abbiamo dei rapporti di licenza, c’è questo lavoro di scouting, su cui arriviamo prima di loro. Anche se oggi è molto difficile farlo rispetto a prima, perché adesso si è proprio tutto ribaltato rispetto al passato: appena fai qualsiasi cosa, la metti su internet e fai due views, hai già dieci proposte di contratti. Da una parte per gli artisti è bello, dall’altra non hanno neanche il tempo di poter sperimentare facendo un demo per gli affari loro, che sono già dentro la macchina. Non c’è neanche il tempo di sbagliare. Hai subito addosso enormi aspettative, e quindi grande ansia. 

Il ruolo delle etichette resta importante insomma.

Credo che, nonostante oggi uno possa caricare da solo i pezzi sulle piattaforme e potenzialmente arrivare anche a un grande pubblico, le case discografiche avranno sempre un ruolo. Magari si trasformerà, non sarà più il ruolo della vera e propria distribuzione, che tanto è sempre più immateriale; non la produzione economica, ma guidare artisticamente un lavoro. A livello creativo ci sono tante cose da fare su un progetto, che vanno oltre lo scrivere una rima. Guarda Drake: oggi è un’industria, ha sessanta autori, però gli hanno dato un premio come artista del decennio ed è un personaggio super rilevante. Ormai c’è un lavoro di team grossissimo, e le case discografiche sempre più dovrebbero cercare di assumere persone che abbiano capacità creative, che possano dare una mano all’artista. 

Per te, nel tuo lavoro, conta di più quello che ti piace o quello che funziona? Riesci a trovare un accordo?

Eh, trovare quel mix è l’obiettivo. Fare delle cose belle e basta, fini a se stesse, non ha senso per il mio lavoro perché a quel punto me le ascolto per i fatti miei, o le faccio come hobby la sera. Invito due musicisti a casa, facciamo una jam session e mi diverto. Per fare il mio lavoro devo essere rilevante sul mercato. Sono una persona ambiziosa. Però per me è anche fondamentale che la roba sia bella. Dipende a cosa punti. Oggi, lo so, sono sempre di più un supermercato: Universal è l’ipermercato, noi siamo un supermercato, un po’ più piccolo, ma la proposta deve essere ampia, diversificata. Trovo stimolante e divertente lavorare su tutto, alcuni ti dicono “ma come, fai i pezzi di Rkomi super poetici e poi FSK, o Elettra”, che per alcuni sono il male della musica… Ma per me è proprio divertente. È divertente variare, è divertente lavorare su cose super radiofoniche e anche su cose super violente. Gli FSK hanno portato qualcosa, hanno un’identità… A me piacciono da impazzire, tutti e tre, anche le cose che faranno singolarmente sono incredibili. Poi certo qualcuno li criticherà, ma di certo non sono una cosa che può piacere a tutti.

Mi sembra che sia necessaria anche una certa tenacia.

Se fai il lavoro che facciamo noi non puoi essere troppo schizzinoso o avere troppa puzza sotto il naso, perché se no non campi, non ci stai in un mercato come quello di oggi. Devi provare, sperimentare, capire cosa vuole il mercato e darglielo. Però per me l’obiettivo, detto questo, è farlo con qualcosa che sia figo, creativo, che abbia una visione e un immaginario… Questo cerchiamo di portare. La differenza nostra rispetto a un management normale, essendo in primis artista io, che è un percorso che ancora porto avanti, è che quando parlo con un artista oltre a parlargli del marketing, del business, delle copie, delle vendite, dico anche “confrontiamoci sui pezzi, sull’immaginario, proviamo a mettere insieme idee creative, proviamo a fare un video visionario pazzo, sperimentiamo questa idea”. E loro sentono che sì, parliamo di soldi, perché sono loro i primi che ne vogliono parlare (questo sia chiaro), però possono anche confrontarsi su altro e sentirsi compresi su un discorso artistico più ampio. La paura più grande che fanno le multinazionali è quella di andare a snaturare quel discorso. Per la mia generazione arrivare in multinazionale era il Successo, “finalmente ci hanno cagato”; a loro non gliene frega niente, vogliono firmare con un’indipendente, vogliono rimanere indipendenti. Il fatto che ci sia anche la multinazionale è una cosa in più, ma non hanno la fascinazione che avevamo noi perché sanno che su un’indipendente sono più liberi. Il mix tra le due cose è la formula vincente: fare cose fighe che funzionino.


Federico Sardo

Federico Sardo, giornalista culturale, ha collaborato con molte testate, tra cui per anni Resident Advisor. Oggi scrive soprattutto per Esquire, Il Tascabile, Rolling Stone e Vice, ed è una delle voci principali di Radio Raheem.

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