A partire da Checco Zalone e Tolo Tolo, dal successo e dalle polemiche, una riflessione sui comici che diventano autori e sulle possibilità di insuccesso del cinema italiano contemporaneo.
C’è oggi nel cinema italiano qualcuno di più atteso di Checco Zalone quando fa un nuovo film? Atteso, si intende, amorevolmente dal suo pubblico appassionato e che per lui stravede, ma anche da chi lo ghettizza e disprezza, con le baionette puntate (e con la segreta speranza che finalmente gli vada male; basta anche un solo euro in meno dell’ultima volta per poterlo affermare…). E poi pure da chi è abbastanza agnostico, curioso ma senza eccessi, interessato senza essere un pasdaran in un senso o nell’altro e non può appunto fare a meno di parlarne. In tutta onestà, è possibile affermare che succede qualcosa di simile per i nuovi film di Sorrentino, Garrone (pure Pinocchio, un altro film che era atteso più con malanimo che altro da tanti “amici” del cinema italiano), Bellocchio, Moretti, Ozpetek, Muccino, etc. (e non si scende oltre, perché lì sarebbe vincere facile)? La risposta, in termini anche solo quantitativi, è, oltre i gusti personali e i feticismi privati più o meno legittimi, probabilmente negativa (e nasconde un’altra domanda ben più radicale, che un po’ ci spaventa: ci sono davvero film italiani attesi dal pubblico italiano?). Ancora, c’è qualcuno oggi nel cinema italiano che a ogni nuovo film è altrettanto interpretato, scandagliato, sovrascritto, impossessato, fatto proprio, più ancora che dal pubblico, da critici, giornalisti, politici, sociologi, e chi più ne ha più ne metta?
C’è un solo autore oggi nel cinema italiano ed è un comico
Com’era prevedibile, dunque, Tolo Tolo – approdato finalmente in sala a quattro anni dalla performance fenomeno del precedente Quo vado? (più di 60 milioni di euro!) – dimostra senza tema di smentita ciò che abbiamo appena detto. Addirittura fin da prima della sua stessa uscita in sala, con la canea – un po’ indecorosa – scatenatasi attorno al videoclip-promo web Immigrato, al centro di un fuoco incrociato di accuse di razzismo e di prese di posizione evidentemente prevenute. Nell’attesa di capire come finirà (al botteghino: supererà o no il precedente record d’incassi stabilito da sé medesimo?), c’è giusto lo spazio per un paio di veloci noterelle, senza pretesa di esaustività, su alcuni corollari del fenomeno Zalone che probabilmente toccano lo stato di cose del cinema italiano di oggi.
Tocca rassegnarsi: senza volerne fare un neo-Chaplin, come pure tra le righe qualcuno suggerisce, oggi si aspetta Zalone come un tempo (altri tempi…) si attendevano Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini, Leone. Quando, cioè, i grandi autori erano sul serio popolari e per chiunque (li si capisse e apprezzasse poi davvero o meno), e si trovavano al centro di una ragnatela di desideri e di attese da parte proprio di tutti, il pubblico, l’industria, la cultura, la società.
C’è qualcuno oggi nel cinema italiano che a ogni nuovo film è altrettanto interpretato, scandagliato, sovrascritto, impossessato, fatto proprio, più ancora che dal pubblico, da critici, giornalisti, politici, sociologi, e chi più ne ha più ne metta?
Non è facile dire se questo fa di Zalone un autore in quell’accezione, anche se tocca riconoscere che i suoi film, almeno finora (e Tolo Tolo in particolare, piaccia o non piaccia), raccontano il presente e l’Italia, magari in quelle forme semplici e dirette che possono lasciarci straniti come non fa più quasi tutto il resto del cinema italiano, in particolare la commedia. E, ancora, innescano dibattiti e polemiche come nessuno dei succitati “veri” autori riesce praticamente più a fare oggidì (e, quando ci riesce, lo fa in maniera sensibilmente più ridotta).
Però, un tale statuto gli attribuisce tratti e caratteri che storicamente appartengono all’autore più che al comico popolare, ben oltre l’ovvia considerazione che la maggior parte degli attori comici italiani dagli anni Ottanta in poi sono quasi subito approdati, con la complicità dei produttori, alla regia di se stessi anche come affermazione, ingenua e quasi auto-parodistica di una propria autorialità. Difatti, a questo giro, complice la separazione dal gemello Gennaro Nunziante, co-sceneggiatore e regista dei precedenti film, è toccato anche a Zalone (ma con il vero nome, Luca Medici, quasi a sancire un’alterità rispetto al suo personaggio-maschera). L’autorialità zaloniana sembra emergere, in particolare, in una presenza non continuativa e rarefatta nel contatto con il pubblico, che diventa addirittura una vera e propria assenza auto-imposta, nei termini di una sottrazione di sé a partecipazioni televisive, spot e quant’altro. E, ovviamente, nella lunga attesa tra un film e l’altro, con l’ampio corollario di notizie spesso incerte e confuse di film iniziati e non finiti, mezze dichiarazioni, dubbi e incertezze, annunci più o meno rimangiati, a suggerire l’esigenza di pensare, molto, prima di cominciare un altro progetto. Questo sarà pure indizio di un’astutissima strategia di marketing (non mi faccio vedere mai e accresco il desiderio di me), ma è anche un bel rischio, soprattutto se si è un comico che deve stare addosso alla società, ai suoi interessi, pulsioni, desideri e paure ed è meglio che non stia troppo al calduccio nella turris eburnea.
Contigua a questa, c’è un’altra questione, che ne costituisce quasi un corollario: quanto dura un comico nell’orizzonte degli interessi del pubblico? Quanto resta capace di intercettarne i gusti (e tutto quanto sta dietro), prima di scadere inesorabilmente? Se si guarda alla storia del cinema italiano, diciamo dagli anni Cinquanta ai Novanta, le date di scadenza dei vari Totò, Franco e Ciccio, Pozzetto, Villaggio, Abatantuono, Calà, sono evidenti e ci dicono che, in media, si fanno sempre più rapide, con un periodo di successo che si va stringendo inesorabilmente (dai 30 anni circa di Totò alla decina d’anni dei casi più recenti), a ribadire consumi più frenetici e isterici. Tra l’altro, tutti i nomi ora citati sono stati anche protagonisti di politiche di sfruttamento forsennato e spesso incosciente, non risparmiandosi nulla nell’andare a tirare per la giacchetta il pubblico, fino a ingenerare una sorta di rifiuto come effetto boomerang. Forse anche per questo, i comici dell’ultimo ventennio hanno sempre scelto i dosaggi calmierati di certi periodi dell’anno (Natale in primis, a partire dai cinepanettoni) con la strategia delle targhe alterne (per dire: un anno Pieraccioni, un anno Aldo, Giovanni e Giacomo). E pure qui, neppure troppo in là, nel tempo, è arrivato a un certo punto il conto da pagare.
Dunque, la curiosità (benevola, meglio precisarlo) è tanta: questa legge non scritta del cinema italiano non vale per il comico-autore Zalone? O, se vale anche per lui, per quanto ancora potrà sottrarvisi? In un certo senso, Tolo Tolo, meno film (con il) comico, più commedia (all’italiana?), parrebbe spostare il suo protagonista in una direzione più verdoniana (e Verdone ha dimostrato, pressoché unico nel cinema italiano contemporaneo, di saper evolvere quale corpo comico che invecchia sensatamente e si mantiene costante nei desideri del pubblico, assurgendo quasi a una dimensione di classico).
Solo il comico può fare flop davvero in Italia
Nel cinema italiano dominato, in maniera estensiva almeno dagli anni Ottanta, dalla monocoltura della commedia (che come tutte le monoculture non arricchisce, ma impoverisce l’ambiente nel complesso), la persistenza senza fine e la centralità del comico nei consumi di cinema suggeriscono un ulteriore corollario abbastanza suggestivo e inatteso, facilmente constatabile dati alla mano: i grandi flop del cinema italiano degli ultimi trenta-quarant’anni sono quasi tutti legati alla risata (in più di un’occasione, a un’uscita durante le festività natalizie). Al punto che, a essere sinceri, la gestazione in apparenza senza fine e tormentata di Tolo Tolo (e, prima di avere un titolo, del nuovo film di Checco Zalone, con il suo corollario di ritardi, dilazioni, notizie allarmate e allarmiste dalla pre-produzione, dal set, dalla post-produzione) ha fatto tornare in mente a più d’uno alcuni clamorosi precedenti. Qualche esempio?
1985: Joan Lui, ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì. Adriano Celentano in pura sbornia misticheggiante e sovrapposizione ingombrante con il Messia si inerpica lungo la Via Crucis di un kolossal comico-religioso, tra il musical e il sermone della domenica, clamorosamente rifiutato dal pubblico di Natale, fino a sfociare in una guerra a colpi di carte bollate tra lui e i Cecchi Gori, decisi a intervenire per salvare il salvabile. 1994: Occhio Pinocchio. Francesco Nuti gioca in casa con il personaggio di Collodi (peraltro da sempre vagamente iettatorio al cinema, e vedremo se Garrone sfaterà il luogo comune) e si inventa una sua versione (post)moderna e contemporanea, culmine del suo delirio registico, con ambientazioni americane complicatissime e movimenti di macchina alla Citizen Kane, salvo poi, nelle more della rottura tra Berlusconi e i Cecchi Gori quando la Penta Film tracolla, essere più volte abbandonata e poi ripresa di tasca propria dallo stesso attore-regista con approdo in sala (disastroso) un Natale in ritardo rispetto al previsto, nel 1995 anziché nel 1994. 1998: L’ultimo Capodanno. Marco Risi porta al cinema un racconto di Ammaniti e cerca il complicato registro del comico grottesco pure un po’ horror anche come riformulazione incattivita e coerente con i tempi della commedia all’italiana, facendo riemergere zone d’ombra e rimossi spiacevoli del cinema dei suoi padri (alla lettera e non), ma il pubblico diserta le sale, pare perché innamorato del Titanic, e l’Istituto Luce rischia la bancarotta.
Oggi si aspetta Zalone come un tempo si attendevano Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini, Leone. Quando, cioè, i grandi autori erano sul serio popolari e per chiunque (li si capisse davvero o meno), e si trovavano al centro di una ragnatela di desideri e di attese da parte di tutti, il pubblico, l’industria, la cultura, la società.
Tutti flop autentici e dolorosissimi, che hanno segnato profondamente vite e carriere dei protagonisti, di fatto in
Forse, negli ultimi anni, tra i flop conclamati del nostro cinema sempre pericolante, soltanto Tornatore con Baaria (2009) ha contravvenuto a questa legge non scritta del flop italiano “solo” della commedia, con un progetto di kolossal della memoria e della nostalgia post e para-leoniano imploso su se stesso e innesco di un effetto domino che ha travolto con Medusa più di mezzo cinema italiano. Però, appunto, è un’eccezione, in un certo senso prossima ai grandi kolossal e poi blockbuster hollywoodiani che periodicamente, quando falliscono, scuotono dalle fondamenta l’industria cinematografica americana. E come tutte le eccezioni, a contrario, conferma. Che il cinema italiano, da quarant’anni a questa parte, ha pianto davvero, in pratica, solo quando non è riuscito a far ridere abbastanza.
Buffo, no? Hollywood trema e soffre per I cancelli del cielo, Godzilla, John Carter di Marte, Corsari (tanto per citarne alcuni, particolarmente eclatanti, degli ultimi decenni). Il cinema italiano, invece, trova i suoi equivalenti – in scala, ovvio – in Joan Lui, OcchioPinocchio, L’ultimo Capodanno. Verrebbe voglia di super-interpretare e di trovare una conferma a tante costanti del cinema italiano contemporaneo, anche banali e risapute. Una in particolare: nel cinema italiano solo i comici possono davvero cadere e farsi male. Guai dunque quando la risata non paga. Quando non succede, fa davvero male. Ma, dati (provvisori) alla mano – dopo i numeri da record dell’esordio – non sembrerebbe il caso di Tolo Tolo. Piuttosto, dopo un autunno horribilis, resta da capire se non gli debba qualcosa, nei termini di un imprevedibile effetto viagra, lo stato di grazia, anche negli incassi finalmente, del cinema italiano natalizio (e immediatamente post-natalizio: l’apertura di Hammamet a più di 2 milioni), con il levigatissimo Pinocchio di Garrone a 15 milioni e l’Ozpetek Greatest Hits di La dea fortuna oltre i 7 milioni (e persino un piccolo lacrima movie alla My Life come 18 regali, uscito alla chetichella il 2 gennaio, ormai a 2 milioni).
Rocco Moccagatta
Critico e studioso di cinema, televisione e new media, analista dei media e insegna Storia del cinema delle origini e classico e Modelli e scenari televisivi e crossmediali nazionali e internazionali presso l’Università IULM di Milano. Da sempre si occupa di generi popolari e di cinema italiano del passato e contemporaneo. Scrive o ha scritto su FilmTv, L’Officiel Homme, Duel/Duellanti, Segnocinema, Comunicazione politica, 8 ½ , Marla, Nocturno Cinema. Ha appena pubblicato un libro sul cinema dei fratelli Vanzina. È stato ribattezzato “Giancarlo Cianfrusaglie” da Maccio Capatonda e ne va orgoglioso.
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