Nell’ultima stagione molte storie raccontate dalla televisione americana, e non solo, si sono concentrate sulla realtà. Trasfigurata nel passato, o traslata in un futuro prossimo, ma sempre per parlare di oggi.
“Qual è il prezzo delle bugie?”, si chiede Valery Legasov nel primo episodio della miniserie Chernobyl. “Il vero pericolo è che, se ne sentiamo abbastanza, poi non siamo più in grado di riconoscere la verità”. Realmente esistito, Legasov fu un chimico chiamato a contenere i danni del disastro nucleare avvenuto il 26 aprile 1986 e investigarne le cause. Fu uno degli eroi di Chernobyl, che lottò contro la propaganda sovietica per divulgare la verità, fino al suicidio avvenuto due anni dopo il disastro. Parliamo dunque di una serie che racconta un fatto avvenuto più di trent’anni fa, eppure quella posta dallo scienziato è una domanda che ha una certa risonanza oggi che viviamo nell’era della post-verità e della mistificazione: tra bufale, deepfake e teorie complottiste, spesso più diffusi della verità. La domanda di Legasov, che apre e chiude la serie, apprezzata da pubblico e critica, coglie allora un punto centrale oggi come ieri.
Ormai del resto lo si dice da un po’. La serialità è il medium che meglio è riuscito in questi anni a esprimere e rispecchiare lo spirito del tempo. Che si tratti di fantasy con draghi e morti che ritornano in vita o dramedy con millennial sessualmente disinibite e preti hot. Le serie televisive parlano di noi, delle nostre paure, desideri, aspirazioni; parlano della società e realtà che ci circonda, con i suoi problemi annessi e connessi. Nel 2019, in particolare, la serialità televisiva ha accorciato ulteriormente le distanze tra finzione e realtà, per ricostruire il reale, raccontare il presente e persino immaginarlo.
Il pericolo delle bugie
Chernobyl, per esempio, dice molto sul presente. La serie tv di Hbo e Sky, creata da Craig Mazin, ripercorre la più grande catastrofe nucleare della Storia, le conseguenze devastanti e le complicate indagini ostacolate dal governo sovietico, più interessato a preservare la sua immagine di potenza nucleare che a salvare vite umane. Oltre allo scienziato Valery Legasov, tra i protagonisti principali c’è anche Ulana Khomyuk, fisica nucleare sovietica, che incarna la ricerca della verità e i valori della conoscenza e competenza, mentre indaga e interroga uno a uno i possibili colpevoli, fino a farsi arrestare dal Kgb (i servizi segreti sovietici) perché diventata troppo scomoda. Come Legasov, anche Khomyuk capisce subito la portata del pericolo delle radiazioni ma non viene creduta, suscitando una reazione di sufficienza e scetticismo da parte di politici e funzionari incompetenti non dissimile da quella che scatena il riscaldamento globale. “Possiamo raccontarci storie su come il cambiamento climatico non è reale. Al clima non importa. Alle alluvioni non importa”, ha detto lo showrunner Craig Mazin, “Al reattore nucleare a Chernobyl non importava che i sovietici insistessero sul fatto che fosse privo di difetti. Ha solo fatto quello che fa. Voglio che le persone inizino a fare i conti con questo. La verità non è un gioco”.
“Possiamo raccontarci storie su come il cambiamento climatico non è reale. Al clima non importa. Alle alluvioni non importa. Al reattore nucleare a Chernobyl non importava che i sovietici insistessero sul fatto che fosse privo di difetti. Ha solo fatto quello che fa. Voglio che le persone inizino a fare i conti con questo. La verità non è un gioco”.
L’intento del creatore era di parlare del presente, partendo dal passato, di far riflettere sul pericolo delle bugie, dell’arroganza e dell’ignoranza, spiegando, allo stesso tempo, come fossero andate le cose e come è potuta accadere una tragedia di tali proporzioni. All’epoca, gli abitanti di Pripyat e delle zone limitrofe al luogo dell’incidente sapevano ben poco di cosa fosse realmente accaduto perché l’Unione Sovietica non fornì mai una versione dei fatti. Ancora oggi non è dato sapere il numero preciso dei morti a seguito del disastro: secondo la stima ufficiale del governo sovietico sono 31, ma quelle accertate sono 65. Le stime poi oscillano tra le 4000 vittime per tumori e leucemie, e arrivano a 6 milioni (in 70 anni) secondo Greenpeace. Alcune informazioni sono date anche alla fine del quinto e ultimo episodio della serie, molto apprezzata per l’attenzione ai dettagli, per certi versi orrorifici, e per la ricostruzione storica meticolosa, frutto dei resoconti dei sopravvissuti raccolti e delle ricerche di Mazin iniziate nel 2014.
Tra docudrama e documentari
Al di là di alcune inesattezze storiche e libertà narrative (come la scelta di attori che recitano in inglese britannico nei panni di personaggi russi), Chernobyl è molto fedele alla versione più accreditata sulle cause e sulla gestione del disastro, ma non sono mancate le critiche. Specie da parte di alcuni giornali filogovernativi russi e dal partito marxista-leninista Comunisti della Russia, che ha definito la serie “disgustosa” e ha parlato di “manipolazione ideologica”. D’altro canto, è lo stesso Craig Mazin a precisare che quella della serie è una versione veritiera ma drammatizzata: Chernobyl è una sorta di docu-drama, che unisce gli elementi tipici della prestige television a uno stile realistico, quasi documentaristico. In poco tempo è diventata così la serie con il voto più alto di sempre su IMDb (oggi è al quarto posto, con un rating di 9,4), incentivando il turismo della zona, aumentato del 40%, e stimolando discussioni.
Attualmente ci sono 454 impianti nucleari attivi nel mondo, e proprio qualche mese fa, l’8 agosto in Russia si è verificato un incidente nucleare, definito dal New York Times come uno dei peggiori dai tempi di Chernobyl, che ha causato la morte di almeno sette persone. La Russia prima ha smentito, poi ha minimizzato, senza dare informazioni in merito alla misteriosa esplosione. A testimonianza di quanto la questione nucleare e il conseguente impatto dell’attività umana sulla salute e sull’ambiente sia tutt’altro che irrilevante. In questi anni, con la crescente attenzione sull’ambiente, c’è stato un considerevole aumento dei documentari sulla natura e sul clima, da Before the Flood (National Geographic) a Our Planet (Netflix), capaci di spiegare e raccontare argomenti complessi spesso meglio dei prodotti di fiction. Persino di quelli distopici, il cui futuro molte volte viene sorpassato dal presente.
Contro le bugie e i pregiudizi
Il successo di Chernobyl forse, allora, risiede in questo: nel spiegare la realtà delle cose in modo preciso, semplice ma non semplicistico, attraverso una storia del passato paradossalmente molto attuale. Qualcosa di simile ha fatto anche When They See Us. Arrivata lo scorso maggio su Netflix, la serie tv creata e diretta da Ava DuVernay ricostruisce il caso della jogger di Central Park del 1989, che portò alla condanna per stupro di quattro adolescenti afroamericani e un ispanico: sono i cosiddetti “Central Park Five”, costretti dalla polizia a confessare un crimine che non avevano commesso. L’approccio anche qui è documentaristico: la ricostruzione dei fatti è precisa, lo stile è asciutto, votato a raccontare la verità e restituire voce e centralità ai ragazzi, che all’epoca furono disumanizzati e condannati a priori dal sistema giudiziario razzista, dalla stampa e dalla società. Come Sulla mia pelle, il film sul caso di Stefano Cucchi, When They See Us è una serie politica di denuncia, contro l’abuso di potere, l’ingiustizia sociale e la brutalità delle forze dell’ordine. Tutti temi ancora oggi di grande attualità, in Italia e negli States.
Il documentario XIII emendamento, premiato agli Oscar 2017 e diretto sempre da Ava DuVernay, era incentrato proprio sulla criminalizzazione degli afroamericani negli Stati Uniti, dall’abolizione della schiavitù sino alle attuali incarcerazioni di massa. “Il sistema di giustizia penale è così rotto oggi, ieri, e forse domani, che lo chiamo sistema criminale di ingiustizia”, ha detto Yusef Salaam, che scontò sei anni di prigione per il caso della jogger. Per dare qualche dato, gli Stati Uniti hanno il tasso più alto al mondo di detenuti con il 25%, quasi tutti afroamericani, che hanno una probabilità di essere arrestati di 6 a 1 rispetto ai bianchi. E 2,5 volte in più di essere uccisi dalle forze dell’ordine. Il movimento Black Lives Matter nacque nel 2013 a seguito dell’ennesimo omicidio per mano della polizia, portando in piazza decine di migliaia di persone. When They See Us tocca un tasto dolente della società americana, specie ora che è governata da un presidente noto per le sue idee e politiche razziste e xenofobe.
A un certo punto nella serie compare proprio Donald Trump, definito “bigotto” e “diavolo” da un personaggio della serie, perché all’epoca invocò la pena di morte per punire i “Central Park Five”, ben prima che fossero accusati formalmente. E ancora oggi, nonostante l’annullamento delle sentenze nel 2002 e il risarcimento di oltre 40 milioni di dollari, è convinto della loro colpevolezza. La showrunner e regista ricorda così chi è e chi è stato Trump, riaprendo una ferita per la comunità afroamericana mai del tutto rimarginata. Come Chernobyl, anche When They See Us è stata molto apprezzata sia dalla critica sia dal pubblico, con conseguenze anche importanti per alcune delle persone coinvolte: Linda Fairstein, all’epoca a capo delle indagini, diventata una scrittrice di gialli, è stata scaricata dall’editore; ed Elizabeth Lederer, pubblico ministero del caso, si è dimessa da docente alla Columbia, perché la miniserie ha “riacceso una dolorosa – e vitale – conversazione nazionale sul razzismo, l’identità e la giustizia penale”.
Ritmo forsennato
Chernobyl e When They See Us fanno riscoprire entrambe due fatti di cronaca del passato, dimenticati o persino sconosciuti. Soprattutto raccontano due storie sulle bugie e sui danni serissimi e irreparabili che hanno fatto, con cui a distanza di anni dobbiamo ancora fare i conti. Ma se c’è una serie che più di tutte nel 2019 è riuscito a fotografare la società odierna e le sue storture è Years and Years. Creata da Russell T. Davies per Bbc One, la serie immagina il nostro presente tra una manciata di anni, dal 2019 al 2034, un futuro molto vicino e terribilmente plausibile, in un’escalation spaventosa: dalla Brexit alla guerra nucleare tra Stati Uniti e Cina, dal crollo delle democrazie allo scioglimento del Polo Nord. Il punto di vista privilegiato è quello dei Lyons, ordinaria famiglia di Manchester composta dalla matriarca Muriel e dai nipoti Stephen, Daniel, Edith e Rosie, testimoni dell’ascesa della politica populista Vivienne Rook. Il risultato è un incrocio tra Black Mirror e This Is Us, e uno spaccato brutale dell’Inghilterra e non solo.
Uno degli episodi più sconvolgenti è la morte di Daniel, che annega mentre cerca di attraversare la Manica su un gommone con il fidanzato Viktor (un rifugiato ucraino), riuscito invece a salvarsi. In un ribaltamento dei ruoli che fa riflettere sull’intolleranza, i privilegi dati per scontati e l’indifferenza con cui spesso sono accolte le notizie sui morti in mare. Nel finale, invece, è introdotta la creazione dei campi di concentramento, pensati da Vivienne Rook per “risolvere” la questione dell’immigrazione. La leader fascista si ispira ai vari Trump, Farage, Le Pen, e non è lontana da alcuni politici di casa nostra (curiosamente, il suo partito si chiama “4 Stars Party”); ma per il creatore di Years and Years Rook incarna semplicemente la rabbia e l’aggressività che sta dentro ognuno di noi. “È tutta colpa vostra. La banca, il governo, la recessione, l’America, Rook. Ogni singola cosa che è andata storta è colpa vostra”, afferma la nonna Muriel rivolgendosi ai nipoti, “questo è il mondo che abbiamo creato”.
“Il mondo continua a diventare sempre più caldo, più veloce e più pazzo, e noi non ci fermiamo, non pensiamo, non impariamo”, dice l’attivista Edith in Years and Years. “Continuiamo a correre verso il prossimo disastro”.
Anche Years and Years è stata molto apprezzata dalla critica anglo-americana (da noi è ancora inedita) per il racconto crudo e disturbante. In sei episodi succedono tantissime cose a un ritmo forsennato, proprio come nella società, sempre più caotica e vicina al collasso. Per questo, come scrive James Poniewozik sul New York Times, “i commenti più risonanti della tv sul presente si sono focalizzati su singole storie del passato”. Perché le serie tv, finzionali ma realistiche, permettono di “mettere in pausa” la realtà e di riflettere su di essa. Ci aiutano a ricordare, capire, assorbire questioni complesse in un mondo che viaggia veloce. Allo stesso tempo ci forniscono un monito, ricordandoci non solo di non ripetere gli errori del passato, ma che quegli errori si stanno già ripetendo sotto i nostri occhi. Senza rendercene conto. “Il mondo continua a diventare sempre più caldo, più veloce e più pazzo, e noi non ci fermiamo, non pensiamo, non impariamo”, dice l’attivista Edith in Years and Years. “Continuiamo a correre verso il prossimo disastro”.
Verità scomode
Intanto è arrivata su Netflix Unbelievable, serie ideata e codiretta da Susannah Grant, che ricostruisce un altro fatto di cronaca: la storia di Marie Adler, adolescente che denuncia di esser stata legata e violentata in casa sua ma non è creduta dalla polizia. Il fatto è avvenuto nel 2008, a Lynnwood (Washington), e solo dopo l’apertura di un caso su uno stupratore seriale, tre anni dopo, si scoprì che la ragazza aveva detto la verità. La serie è stato definito il “crime più femminista mai visto” da Vulture, perché con una prospettiva femminile pone al centro della storia la vittima e le indagini di due detective donne, che grazie alla loro sensibilità e competenza arrivano laddove altri colleghi maschi – prevenuti e incapaci di comprendere un trauma di quel tipo – hanno fallito. Marie Adler non solo non è creduta, ma è portata a mentire dalla polizia, perché aggredita da un sistema ingiusto e misogino, che si volta dall’altra parte invece di ascoltare e affrontare un problema pervasivo come la violenza sulle donne. Che proprio di recente è tornato alla ribalta entrando nel dibattito pubblico, in America e nel resto del mondo.
Unbelievable conferma come la serialità negli ultimi tempi continui a focalizzarsi sulla narrazione del reale e della stretta attualità. Il critico Alan Sepinwall su Rolling Stones ha parlato di “year of difficult tv” nel descrivere un panorama seriale ricco di storie catastrofiche, sofferte e di vita reale, per l’appunto difficili da guardare. Questi titoli, però, ci costringono a farlo: a confrontarci con la realtà e la verità, anche se diventa scomoda. Così ha fatto Greta Thunberg, diventata un simbolo della lotta al climate change: “Le persone stanno morendo. Interi ecosistemi stanno collassando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto quello di cui parlate sono soldi e favole su un’eterna crescita economica. Come osate?”, ha tuonano l’attivista lo scorso 23 settembre durante il suo discorso tenuto all’Onu, che ha generato una nuova ondata di insulti e critiche feroci. Ma se c’è un momento giusto per accogliere la realtà dei fatti è questo: lo dimostrano la crescente mobilitazione di massa per l’ambiente e la difesa dei diritti civili, e il successo di queste serie tv – Unbelievable è stata vista da 32 milioni di spettatori in meno di un mese –, che ci ricordano l’importanza capitale della verità e della memoria. E ci ricordano quanto è urgente il racconto del reale, perché – dice Thunberg – “il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no”.
Manuela Stacca
Laureata presso l'Università di Sassari, si occupa di critica cinematografica e televisiva per alcune testate online.
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