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Take it easy, and lo-fi

Non serviva una pandemia, cosa che pure ha aiutato. Da anni, tra musica chill, comodità assortite e altre forme di relax, anche gli affollati e vorticosi spazi digitali hanno deciso di rallentare un po’.

Abbiamo tutti bisogno di “chill beats”, di questi tempi. Ancora prima che la pandemia sconvolgesse le nostre abitudini, una figura faceva capolino nei feed YouTube di mezzo mondo: una giovane ragazza china sui libri, vicino a una finestra aperta con un bel panorama. A corredo dell’immagine, titoli come “lo-fi hip hop radio – beats to relax/study to” spiegavano l’arcano: erano canali che proponevano live streaming continui di musica rilassante, fatta di basi elettroniche cadenzate, melodie chill out, per rubare gergo dagli anni Novanta, e qualche occasionale rumore d’ambiente. Al centro del fenomeno, il canale YouTube ChilledCow, anche se il formato è presto diventato un meme, declinandosi a seconda dei generi musicali e del tormentone del momento (c’è anche la versione con De Luca, il governatore campano, e Alessandro Barbero, lo storico). Quanto all’iconografia, la figura della studentessa è un ricalco da un film dello Studio Ghibli di Miyazaki. La provenienza non è casuale: questi beats vogliono dare quel senso di pace e serenità non dissimili da quelle del maestro giapponese, specie quando disegna il cibo.

Le radici del successo di questi canali – e di questo genere musicale – è però antecedente al Covid–19: non bisognava infatti attendere la pandemia per rendersi conto della natura ansiogena e rumorosa del mondo in cui viviamo, e di quanto possa essere difficile “staccare” dai social, dalla musica, dai vicini di casa o dai colleghi d’ufficio, in un mondo in cui tutti sono vicini, connessi, in condivisione perenne. I lo-fi beats si accompagnano quindi ad altri fenomeni, come le app Self Control e simili, pensate per bloccare all’utente l’accesso ai siti selezionati, in una forma di liberatoria autocensura, o come le cuffie anti-rumore. Prima che la Nba costruisse “the bubble” attorno ai suoi giocatori per permettere alla league di proseguire nonostante il virus, ognuno di noi ne stava costruendo una, più rudimentale e posticcia, per difenderci da, beh, tutto. 

Le radici del successo di questi canali – e di questo genere musicale – è antecedente al Covid–19: non bisognava infatti attendere la pandemia per rendersi conto della natura ansiogena e rumorosa del mondo in cui viviamo, e di quanto possa essere difficile “staccare” dai social, dalla musica, dai vicini di casa o dai colleghi d’ufficio, in un mondo in cui tutti sono vicini, connessi, in condivisione perenne.

Se questo accadeva mentre gli uffici erano agibili, i mezzi affollati e i movimenti ancora possibili, la pandemia non ha certo aiutato. Anzi. I fatti sono noti: il lockdown nazionale, i mesi di chiusura, la lenta “fase 2”, la relativa normalità estiva, il ritorno a scuola. Milioni di lavoratori hanno partecipato a un esperimento di smart working di massa, lavorando casa con parenti, coinquilini, figli. È stata durissima. Quindi, l’inseguimento del chill, sotto forma di playlist vagamente vaporwave, ma anche di un nuovo stile di abbigliamento votato alla comodità: lo chiamano leisurewear, ampio concetto culturale che potremmo riassumere con la parola “tutone”. Vestirsi comodi, in pigiama o quasi, o con tute sportive, comprate in un momento in cui andare in palestra era più semplice, per azzerare l’attrito con le superfici e rimbalzare efficientemente dalla sedia al divano. Ma il leisurewear pandemico non ha travolto tutto, risparmiando ogni cosa che sta dalla cintura in su. È per via di Zoom e programmi simili, che ci hanno trasformato in mezzobusti, centauri metà colletti bianchi, metà Drugo del Grande Lebowski.

Rallentare

Un mondo nervoso, in cui già da tempo si sono diffusi fenomeni come l’Asmr, fatto di suoni tenui e rilassanti (per alcuni), accompagnati dal boom della Cbd, ricavato della cannabis legale in molti Paesi, che viene infilato persino nel vino – l’ideale per chi lavora tutto il giorno da casa e si vuole rilassare, magari dopo aver messo a nanna i bambini. In mezzo a tutto, però, c’è la ragazzina lo-fi. Un genere musicale strano: nato per indicare opere poco raffinate, prodotte in poco tempo o con mezzi volutamente limitati. Secondo alcuni è nato con McCartney, al primo disco solista McCartney, nel 1970. Per altri, si intravede già in alcune produzioni sixties, dai Beach Boys in giù. Con l’avvento del punk, dalla fine degli anni Settanta, il lo-fi si accompagna a un rifiuto dei potenti mezzi offerti dalle etichette e da certa musica rock troppo ritoccata. La definizione comincia a vacillare, fino a mutare del tutto negli anni Novanta, con il grunge e il movimento slacker, sporco e di cuore leggero: a bassa definizione. E quindi i Pavement, il Beck di One Foot In The Grave, e l’assorbimento del movimento nell’indie.

Vestirsi comodi, in pigiama o quasi, o con tute sportive, comprate in un momento in cui andare in palestra era più semplice, per azzerare l’attrito con le superfici e rimbalzare efficientemente dalla sedia al divano. Ma il leisurewear pandemico non ha travolto tutto, risparmiando tutto ciò che sta dalla cintura in su. È per via di Zoom e programmi simili, che ci hanno trasformato in mezzobusti, centauri metà colletti bianchi, metà Drugo del Grande Lebowski.

Nel frattempo, producer quali J Dilla e Madlib proponevano la loro versione di lo-fi attraverso beat lenti e rilassanti, pezzi poco strutturati ma con una funzione sempre più precisa: il chill. Non esiste forse genere musicale più funzionale del lo-fi da YouTube, forma d’arte che non vuole emozionare nel modo tradizionale del termine. Non vuole nemmeno, in molti casi, essere ricordata – solo fruita, di preferenza sulla piattaforma che, da quando nel 2013 ha permesso di fare live streaming anche a account minori, ha aperto una strada a colossi nascosti, fondati spesso da giovanissimi ventenni che rivivono in un contesto digitale il clima delle radio pirata d’antan. Il “capo” di ChilledCow, per esempio, si chiama Dimitri, vive fuori Parigi e ha 25 anni.

È musica da piattaforma, nel senso che è pensata e prodotta per le piattaforme quali YouTube (o anche Spotify), di cui ricalca vizi e virtù. Difficile che questi live streaming paghino gli artisti che passano, per esempio, anche se offrono una notevole alternativa al dominio di Spotify e Apple Music, superando label, manager e influencer per trasmettere chill gratuitamente. Un fenomeno particolarmente forte tra i più giovani, membri della cosiddetta Generazione Z, ormai abituata a studiare, rannicchiata come l’icona rubata allo Studio Ghibli, gustandosi musica spensierata rubata a chissà chi. Secondo il commentatore Bob Lefsetz, specializzato sull’industria discografica, questi live streaming pirata “sono un modo per i membri del pubblico di riconquistare il potere perduto a causa dei gatekeeper culturali”.

Ancora perduti in un limbo piratesco, i live streaming lo-fi hanno successo anche perché non si devono preoccupare di questioni legali ed economiche. Sono felici accidenti fioriti in una piattaforma pensata per tutt’altro, in un mondo musicale dove il concetto di plagio e royalties esiste come una strana eco da un mondo alieno. Dove tutti sono troppo chill per prendersi sul serio.


Pietro Minto

Nato a Mirano, in provincia di Venezia, nel 1987; vive a Milano. Collabora con Il Foglio, Il Post e altre testate. Dal 2014 cura la newsletter Link Molto Belli.

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