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Uno sterminato abbonamento

Ormai ogni aspetto della nostra esistenza sembra richiedere un abbonamento, da ciò che guardiamo in tv al cibo che consumiamo. La testimonianza di un abbonato seriale svela il fascino nascosto delle sottoscrizioni, e gli aspetti emozionali di una vita in attesa della prossima box.

Da quanto tempo HelloFresh mi tampina con le sue sponsorizzate su Instagram? Mesi, anni? Evidentemente crede che io sia all’interno della sua audience più fertile di caccia, e continua a tentarmi con offerte irripetibili e test semigratuiti grazie a bonus di ingresso che mi promettono di farmi spendere meno di quattro euro per un pasto sano, facile, e pure cool. Ma io non cedo, clicco e non sottoscrivo l’abbonamento. Della lotta infinita tra l’offerta di prova e noi poveri consumatori ne avevo scritto già qui. Ma cosa succede quando invece cedi all’abbonamento? O forse meglio dire alla sottoscrizione, come è più in voga oggi definire la formula commerciale che prevede l’impegno a ricevere, a intervalli regolari, una fornitura di un prodotto, in genere incluso in una eponima “box”, dal contenuto più o meno personalizzato e più o meno a sorpresa, più o meno variabile a seconda delle stagioni (questo per cibo, umano o animale che sia), e generalmente arrestabile in qualsiasi momento (a patto di ricordarsi di farlo entro i termini previsti, cioè solitamente il mese o la settimana prima).

Sottoscrizioni emozionali

Com’è essere in HelloFresh lo scopro con un mio amico, che ha evidentemente ceduto. Ora si destreggia felice come un bambino con i Lego con ricette gourmet, che lui deve solo, in pratica, post-cucinare e impiattare (o forse sarebbe più corretto dire, in effetti, incastrare), seguendo le istruzioni fornite assieme agli ingredienti. Non lo scalfisce minimamente il mio scetticismo sul costo delle singole porzioni, o di quanto sia assurdo ricevere venti grammi di tzatziki in confezione singola (o un cetriolo più una mini-ciotola di yogurt greco da assemblare, dipende) quando il supermercato allo stesso prezzo te ne fornisce una quantità sufficiente per una settimana. “Non sai quanto cibo si spreca, facendo la spesa ad abitare da soli!” È la stessa affermazione che ogni tanto la pubblicità di HelloFresh si vuole insinuare nella mia attività di consumo. “E poi non sono bravo a cucinare”, mi dice. Nemmeno io, rispondo, ma c’è evidentemente chi è più sensibile al cooking shaming. O forse essendo lui single ci tiene – sicuramente più di me – a fare bella figura a tavola. E belle, effettivamente lo sono, queste ricette-kit.

La realtà è che la soddisfazione che danno le box non è classificabile come razionale. Le box compaiono a sorpresa come doni lasciati davanti alla soglia della porta. Sembrano pensieri carini che un fornitore ti rivolge. E di solito fanno di tutto per farti credere che sia davvero così.

La verità è che se fossi nella sua situazione probabilmente sarei anche io un acquirente di HelloFresh – il loro digital marketing manager fa bene a targetizzarmi – perché a me le sottoscrizioni, tutte, danno una gran soddisfazione, per lo più irrazionale ed emotiva. Parlo soprattutto di quelle che ti portano a casa prodotti fisici, che quelle a là Dropbox o Netflix o Spotify come tutti ho smesso di considerare sottoscrizioni – quelle fanno parte del trantran e basta, come l’elettricità e l’acqua potabile. Non riesco a resistere, l’emisfero impulsivo del mio cervello si attiva ogni volta che ne intravedo una. Sarà che anche io, come il mio amico, cerco di giustificare a posteriori acquisti ripetitivi, adducendo vantaggi abbastanza risibili, come risparmi immaginari o comodità veramente apprezzabili da persone davvero pigre. 

La realtà è che la soddisfazione che danno non è classificabile come razionale: c’è il momento dell’apparizione, per esempio, parente del rito dell’unboxing celebrato nei social. Le box infatti compaiono a sorpresa (perché te le dimentichi, le sottoscrizioni, salvo quando appaiono a intervalli regolari) come doni lasciati davanti alla soglia della porta (anche se doni pagati eccome). Forse è perché non sembrano nemmeno acquisti che mi piacciono così tanto. Sembrano pensieri carini che un fornitore ti rivolge. E di solito fanno di tutto per farti credere che sia davvero così. Bigliettini, sorpresine, letterine, tutto fa brodo nella box per farti sembrare considerato. “Uh, guarda, è arrivato il caffè!” mi dico tra me e me per non farmi prendere in giro dalla mia agnostica famiglia; e ogni volta è un piccolo Natale. 

Sono passato al caffè in grani come fanno tutti quelli che si sentono in colpa nell’usare le capsule perché l’ambiente, l’alluminio, eccetera eccetera. E quindi fine della sottoscrizione alle capsule e benvenuto alla sottoscrizione Illy, che un coetaneo mi ha consigliato – ci deve essere una strana attrazione generazionale per gli abbonamenti, mica dipenderà dall’abbonamento a Topolino, concesso o negato dai propri genitori nell’infanzia? Mi consiglia la giusta strategia: “scegli la prima box degustazione, poi imposti l’abbonamento con quelle che ti piacciono di più e non ci pensi più”. Il paradiso in terra. Poi al giovedì mattina prestissimo appare Bioexpress – almeno credo, perché come Babbo Natale si materializza la cassetta di verdura e scompare quella vuota, che rendo sempre, in modo liturgicamente osservante – e inizia la mia personale sfida con loro per capire che a quale razza (varietà?) di tubero appartenga quel mostro viola che sbuca appena dal sacchetto di carta, ovviamente riciclata. Me li immagino a notte fonda a mettere per me quel tubero viola nella busta e ridere dicendo “con questo il nostro cliente padano si spaventerà tantissimo” con accento tedesco (perché sono sudtirolesi, un esotismo che irrazionalmente accentua la mia attrazione per la loro cassetta). Possiedo anche sottoscrizioni meno emozionali, tipo quelle di Amazon Prime chiamate come nel loro stile prosaicamente “Abbonati e risparmia”. Servono per evitare crisi familiari, tipo “manca la carta igienica! Non l’hai presa?”. “Oddio non c’è più Scottex!” Questi tipi di abbonamento trasformano la tua casa in una specie di duplicato dell’ufficio in cui si lavora, in cui magicamente carta igienica e cancelleria si materializzano come incantesimo. Qualcuno se ne occuperà, ma non lo vediamo mai.

Il problema delle sottoscrizioni è trovare la formula che ti assicuri la giusta quantità di merce. Di frequente, contrariamente a ciò che sostiene il mio amico, la merce in esubero ti si accumula in dispensa o in frigo. E a volte, all’opposto, la scarsità delle dosi ti affligge. Insomma, spesso sei tu che devi adattarti, e/o calibrare bene la dose settimanale o mensile. Mi manca sempre un’ultima melanzana per la parmigiana (lo so lo so, con HelloFresh non sarebbe successo), mentre per contrappasso a un certo momento (credo nel primo anno dell’era post Covid) avevo accumulato talmente tante pastiglie auto scioglienti per la lavastoviglie che mi ero messo a regalarle agli ospiti, come fossero cioccolatini. Dopo che, grazie al Covid, ho scoperto di avere una casa, le sottoscrizioni sono diventate la base della manutenzione domestica. Sapevate che una volta al mese la lavatrice va lavata? E idem la lavastoviglie? Intendo lavate a vuoto, non sciacquate spontaneamente mentre lava i piatti o le mutande. E la macchina da caffè va assolutamente decalcificata. E il filtro dell’acqua che rende bevibile quella del rubinetto? Anche quello. E il gasatore dell’acqua per fare quella frizzante, altro mio culto casalingo? Ho una sottoscrizione per ognuno di questi compiti ripetitivi. La sottoscrizione manutentiva è come la concessionaria che ti ricorda di fare il tagliando. Sai che lo fa per il suo profitto, ma comunque ti fa comodo. Le sottoscrizioni ti aiutano, ti coccolano e al tempo stesso ti imprigionano.

Paese che vai, box che trovi

A questo punto potrei avervi dato una visione distorta del mercato: i miei comportamenti non sono la norma, anzi. Mentre nei paesi anglosassoni e nordici le sottoscrizioni sono state “normalizzate” da tempo, ancora prima del Covid, in Italia hanno sempre faticato a trovare terreno fertile. Nel cibo, poi, oggetto semi sacro per il consumatore italiano, le cose vanno ancora peggio. Si stima che solo un 5% di chi acquista cibo online abbia un abbonamento attivo (a sua volta solo circa un 3% degli italiani compra cibo online, per dare un metro di giudizio). La stessa Cortilia, precursore della cassetta di frutta consegnata settimanalmente a casa, ormai ha abbandonato la sua missione originaria, e si è trasformata nella versione online di un supermercato bio piuttosto tradizionale [ndr: Cortilia ci ha fatto notare che ancora oggi è possibile sottoscrivere vari tipi di abbonamenti]. Quomi è in pratica inattivo. Eataly, Fruttaweb e altri prevedono la sottoscrizione come opzione, ma è ben lontana da essere una proposta dominante nella loro strategia di promozione. Fuori dal cibo le cose non vanno tanto meglio, comunque: le box di abbigliamento premaman (e post nascita) hanno chiuso, dopo che invece in altri paesi erano state bene accolte dal mercato. Resiste Degustabox, una box per gli impallinati di novità da scaffale del supermercato, grazie anche all’appoggio dei brand che premono per inoculare nel mercato nuove barrette dietetiche con aggiunta di proteine e assolutamente prive di zuccheri aggiunti e calorie nefaste.

In Italia le box sembrano da sempre più un sogno di chi le vende che di le compra. Il consumatore sembra faticare a fidarsi, come del resto mi obiettano tutte le persone a cui racconto questa mia inclinazione: “ma come fai a sapere cosa ti arriva davvero?”. In realtà, credo (spero?) che chi mi vende abbonamenti abbia tutto l’interesse a farmi rimanere fedele, molto più del verduraio in cui rivesto il ruolo di cliente occasionale. In Italia poi non di rado prevale un atteggiamento opportunistico: il flusso di offerte di ingresso in competizione tra loro spesso fa sì che l’abbonamento venga abbandonato non appena scade l’offerta, a scapito di un altro che fornisce una nuova offerta di ingresso, e così via.

Fidelizzati, istruiti e automatizzati dalle box, ma sempre sentendosi al centro dell’attenzione. Cosa si può volere di più, da consumatori, oggi?

All’estero, nei paesi digitalmente più avanzati, lo accennavo prima, la situazione è diversa. Il target urbano (e mediamente agiato) è sempre più spesso preda del fenomeno della sottoscrizione: quello urbano perché la predisposizione alla sottoscrizione sembra essere inversamente correlata al tempo (percepito) a disposizione, e anche perché le aree servite dalle sottoscrizione si limitano spesso alle ZTL per ragioni di costi di conservazione, trasporto e logistica. In effetti, io, abitando in provincia, sono al riparo da sottoscrizioni che invece in centro a Londra sarebbero la norma: box di cibo biologico, iper-personalizzato per il tuo gatto o per il tuo cane o il tuo “pet”, abbonamenti a “spirits club” online in cui viene spedito e condiviso il rituale dell’assaggio del gin del mese, e ancora, gli ormai consolidati abbonamenti a cose molto maschili come rasoi, mutande e altro, e alle box beauty in tutte le possibili declinazioni (personalizzate o a sorpresa), o anche specializzate per donne di età diverse. C’è (le definizioni sono quelle originali) Mindful Chef: si concentra su pasti sani e adatti a diverse esigenze dietetiche, come senza glutine o vegani, Riverford, che offre prodotti biologici e ingredienti freschi per cucinare a casa, SimplyCook, fornisce miscele di spezie e condimenti per migliorare i pasti fatti in casa, Pasta Evangelists è specializzato in piatti di pasta fresca di alta qualità, Green Chef, che offre kit di ricette per diete specifiche, come paleo o cheto, Fresh Fitness Food: pasti preparati per chi segue un piano di fitness, Vegetarian Express: ingredienti per cucina vegetariana, The Jane Plan, pasti dietetici completi, Nosh Detox, specializzato in piani di disintossicazione, e Foodhak, propone pasti per la perdita di peso. “Con le radici in Ayurveda, sostenuti dalla scienza, i nostri piatti sono progettati per migliorare la tua salute e nutrire il tuo corpo”. La lista potrebbe continuare.

Le segmentazioni possibili delle box tendono evidentemente a infinito e quindi non potevano non proliferare quelle connesse alle tendenze consolidate contemporanee: la ricerca del sé, il benessere e il cibo “predisposto per”. Un esempio archetipico? Scopro che esiste un brand, MPowder, che produce “una gamma di integratori naturali premiati, sviluppati in collaborazione con medici, naturopati e professionisti esperti per fornire formulazioni a base di alimenti integrali, supportate dalla ricerca.” Il tutto si rivolge al target delle donne in pre o post-menopausa. “Peri-Boost è una polvere integrativa quotidiana formulata in modo unico per sostenere il corpo durante la perimenopausa, contenente 29 ingredienti a base di alimenti interi supportati dalla scienza come DracoBelle™ Nu, semi di lino, foglie di moringa, cacao, proteine di piselli, isoflavoni di soia e radice di zenzero. È ricco di antiossidanti, aminoacidi e minerali e può essere facilmente incorporato in bevande, frullati o ciotole per la colazione.” 

Oltre agli integratori, scopro che MPowder offre un servizio di abbonamento che “include una consulenza naturopatica di 30 minuti nel primo mese, l’accesso a masterclass con esperti, il monitoraggio dei sintomi e report personalizzati, nonché un supporto continuo di concierge sanitario”. Innumerevoli sono le box con il suffisso “power” o “pro”, dedicate a chi fa palestra. Le proteine possono essere aggiunte a qualsiasi cosa, anche all’acqua, e declinate a caro prezzo in una sottoscrizione, che spesso ti accompagnerà “in un percorso”. Più benessere, più bellezza, più muscoli, la scelta è varia. Ogni microtrend e micro target del fitness e del wellness trova il suo pubblico di adepti e lo fidelizza attraverso la sottoscrizione quasi in formato ripetitivo-farmaceutico e finisce per fondersi con il mega trend del “non si finisce mai di imparare” caratterizzato dalle “masterclass di qualsiasi cosa”, e alla normalizzazione degli abbonamenti digitali a serie e musica. 

Sembra la formula perfetta per le box di domani. Fidelizzati, istruiti e automatizzati dalle box, ma sempre sentendosi al centro dell’attenzione. Cosa si può volere di più, da consumatori, oggi? A questo punto, in fondo, nella scala globale di ossessione per le box mi sento ancora confortevolmente nella media.


Gianluca Diegoli

Dalla Bocconi in poi osserva passare i trend dall’evanescente confine tra online e offline. Di giorno si occupa di marketing e digital, di notte ha scritto Svuota il carrello (2020) per UTET. È professore a contratto in IULM e in Master. Ogni venerdì alle 9 manda la sua newsletter.

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