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Un requiem per il noir? Una possibilità

L’omaggio al genere compiuto da The Night of, pur con le dovute deviazioni, diventa occasione per riflettere sul suo superamento, tra finzione e realtà.

In un bar di Manhattan – after hours, ovvio – un poliziotto in borghese a fine turno racconta a un collega che un tale della tv lo ha cercato per un parere sul soggetto di una serie, il cui protagonista dovrebbe essere un detective tornato dall’Afghanistan con due protesi tecnologicamente assai avanzate al posto delle gambe. E che cazzo è, gli ho detto, la storia di un robot?, ghigna il poliziotto, che continua: te la do io un’idea, gli ho detto. Racconta di un poliziotto che si è rotto il cazzo, fa le sue otto ore, torna a casa, mangia, si scopa la moglie e va a dormire. Quella sarebbe una storia.

Per nascondere il senso di un libro, di un film – o anche di un articolo come questo – qualsiasi punto va bene, anche un dialogo apparentemente di servizio nella scena di apertura di un’ultima puntata, quando lo spettatore sta cercando con lo sguardo un altro personaggio, il terzo poliziotto seduto a un paio di metri dai primi due, solo.

È una mossa astuta, al punto da far sospettare un depistaggio. O più di uno. Mentre volente o no fa tesoro del teaser – introietta cioè il fatto che nel suo futuro prossimo ci saranno, essenzialmente, storie di robot –, lo spettatore è invitato a considerare quanto ha visto fin lì, senza riuscire a classificarlo, più o meno come un documentario. Il terzo poliziotto, concentrato sul fondo del suo bicchiere, ha infatti mostrato, in tutte le puntate precedenti, di essersi rotto il cazzo, con quel che segue: ci siamo persi la parte della moglie, ma tutto il resto lo abbiamo visto. Anche se, forse, il bello deve ancora venire.

Fino a quel momento, infatti, il terzo poliziotto – si chiama Dennis Box, ed è interpretato da Bill Camp, un attore che un tempo si sarebbe detto un generico, e che come i migliori generici di un tempo ruba spesso la scena alle presunte primedonne – aveva aderito all’identikit che i suoi due colleghi hanno appena schizzato per noi. Ora però se lo strappa di dosso, e come un Philip Marlowe o un Jack Gittes qualsiasi si allontana nella notte, lasciando intendere che il caso è chiuso solo in apparenza, e che per quanto lo riguarda non avrà pace finché non lo vedrà risolto. Il che chiarisce in un gesto solo due cose fin qui volutamente ambigue. La prima è che siamo pur sempre in una serie, e che a dispetto di quanto avevamo sperato – o temuto, a seconda dei casi – è alle porte una season two. La seconda è che, a partire da quel momento, rischiamo di rientrare in un genere che avevamo fin lì a lungo costeggiato, e altrettanto spesso eluso.

Già, ma che genere? A giudicare dalla sigla, sembrerebbe una domanda gratuita: quegli svincoli luminescenti, quelle stazioni di servizio deserte, quei vicoli lucidi di pioggia sono talmente riconoscibili da sembrare avanzi della scenografia di un qualsiasi noir RKO degli anni buoni. Eppure, qualcosa non torna. Il noir classico si riconosceva all’istante dalla dominante cromatica, quella che nell’immediato dopoguerra aveva spinto un paio di critici francesi a esclamare che, accidenti se erano neri, i film che gli americani avevano girato mentre l’Europa era occupata a radersi al suolo – scambiando così una ragione bassamente economica (nelle produzioni dei polizieschi di serie B e C degli anni di guerra, non c’era da scialare in nulla, e meno che meno in parco luci) per una scelta formale, e inventando così una categoria estetica ignota ai suoi stessi creatori.

Qui però il nero non c’è – e neanche il bianco. Al loro posto, un blu/grigio che ha come contrasto una specie di argento. Qualcosa quindi manca e, per chi non avesse capito, subito dopo le prime immagini della sigla arriva un’avvertenza grossa così. In un titolo su due, nei vecchi classici del noir compariva la parola “notte”, preceduta e seguita da un qualche genere di specificazione: They Live by Night, Night and the City, Fear and the Night, per tacere del titolo che più di qualsiasi altro ha finito per rappresentare il genere, The Night of the Hunter. Qui invece la notte è ridotta all’essenziale, in quel curioso titolo tronco: come a indicare che vale per se stessa, e che il film non si adatta a chi fosse terrorizzato dal buio. Come i distributori italiani, per esempio. Che siano una categoria dello spirito prima che una gilda professionale lo si sa dalle origini, ma bisogna dire che stavolta hanno superato, oltre a se stessi, anche i loro padri, quei virtuosi della strizzata d’occhio vagamente didascalica capaci di trasformare un burocratico Domicile conjugal in un sensazionale (da ogni punto di vista) Non drammatizziamo… è solo questione di corna. Sì, il titolo italiano della serie – Cosa è veramente successo quella notte – unisce due caratteristiche essenziali della nostra grande tradizione a riguardo: brutalizza l’originale, sottraendogli atmosfera fino a farlo soffocare, e, soprattutto, non è un titolo: né pronunciabile, né tantomeno ricordabile. Anche se in un certo senso la domanda può essere utile, per continuare il discorso. In effetti, cosa succede, quella notte?

Quegli svincoli luminescenti, quelle stazioni di servizio deserte, quei vicoli lucidi di pioggia sono talmente riconoscibili da sembrare avanzi della scenografia di un qualsiasi noir RKO degli anni buoni. Eppure, qualcosa non torna.

So come vanno queste cose

Succede che Nazir Khan, uno studente modello pakistano, è invitato a una festa downtown. Per andarci sottrae senza dirlo il taxi di papà, ma non riuscendo a spegnere l’insegna è costretto a caricare a bordo un paio di passeggeri, la seconda dei quali è una ragazza molto bella e visibilmente dannata. La festa salta, sostituita da una cerimonia di carattere molto più intimo a casa della passeggera. Poco male, si direbbe, non fosse che al risveglio la passeggera è sul letto, crivellata di pugnalate. Il ragazzo con tutta evidenza è nei guai fin qui, e per uscirne pensa bene di scappare portandosi dietro, sa il cielo perché, l’arma del delitto.

Ricorda per caso qualcosa, la storia di un bravissimo ragazzo asiatico che finisce in prigione, e affronta prima un’inchiesta e poi un processo dove i fatti emergono, o sono assemblati, solo per farlo sembrare innocente in una scena, colpevole quella dopo? Ovvio, ricorda Serial, il podcast (o, semplicemente, il racconto) più innovativo degli ultimi anni – che a sua volta, fin dal titolo, annunciava l’intenzione di esplorare, prima ancora del caso in sé, il meccanismo stesso della narrazione. Solo che Serial era un’inchiesta – vera, faticosa e anche drammatica – che grazie a un artificio semplicissimo (Sarah Koenig, la conduttrice, fingeva di scoprire dettagli e incongruenze insieme agli ascoltatori, e di esserne sconcertata esattamente come loro) diventava una finzione, mentre The Night of è una finzione che pretende a ogni scena di diventare un’inchiesta in diretta. Come? Attraverso un artificio forse un filo più sottile, e cioè chiedendo agli attori di recitare la parte come la conoscessero un po’ troppo bene.

Si comincia la notte stessa, appena Bill Camp arriva sul luogo del delitto. Non sembra felice – a vedersi, devono averlo tirato giù dal letto, dove probabilmente non dormiva il sonno del giusto –, e quello che vede non gli migliora l’umore. La pattuglia che ha scoperto il misfatto si sta infatti prendendo una pausa sui gradini del palazzo, e uno dei due ragazzi, sconvolto, si è acceso una sigaretta. “Non si fuma sulla mia scena del crimine”, gli ringhia Bill prima di entrare nel palazzo. Si presenta come il solito warning d’ufficio sui danni del tabacco, in realtà è il primo annuncio di un atteggiamento comune a quasi tutti i personaggi: so come vanno queste cose, le interpreto da anni, mi toccherà farlo ancora per non so quanto, non mi seccate.

Nel caso sembrasse una conclusione frettolosa, prego trasferirsi subito al momento, un paio di scene dopo, in cui Bill porta Paul Sparks, che interpreta il losco patrigno della ragazza uccisa, in un diner molto hopperiano, e gli fa qualche domanda. Il tono delle domande scende di un’ottava rispetto a quello del ringhio di poco prima, mentre le risposte dell’altro sono sospirate sotto la soglia dell’udibile. Nessuno dei due ha un’espressione facciale qualsiasi, entrambi dicono esattamente quello ci si aspetta che dicono – e molto in fretta, come per arrivare in fondo al dialogo il prima possibile. Stacco: Bill porta l’uomo alla morgue, gli mostra un paio di foto di un cadavere che Paul sostiene di non riconoscere. Bill a quel punto gli chiede se vuole vedere il corpo, l’altro risponde con una lievissima smorfia no grazie, sì che è lei. Cinque minuti anche importanti, un tono e una mimica in due – metà per uno. Niente male.

I dubbi residui si sciolgono con l’entrata in scena del procuratore Helen Weiss, interpretata da Jeannie Berlin. Berlin incarna, molto semplicemente, qualsiasi concento di stanchezza uno possa avere. Non è chiaro se a non poterne più del suo mestiere sia il personaggio o l’attrice, ma in questo caso l’ambiguità aggiunge, anziché togliere. Berlin non ha un’età, non ha una faccia (ne ha una stupenda, ma la tiene fissa in una specie di rictus), non ha una voce (raspa una battuta dopo l’altra, senza nemmeno muovere la bocca), non ha nemmeno una camminata (si trascina sul set con un solo, evidente desiderio, cavarsi prima possibile le scarpe di rappresentanza, e indossare un paio di sneakers). È un’attrice meravigliosa, e nel caso la sua sazietà apparisse eccessiva, vanno considerate le attenuanti generiche: Berlin è figlia di Elaine May, la donna forse più intelligente dell’intrattenimento leggero americano del secondo dopoguerra, l’unica capace di vendere, dei suoi duetti comici con Mike Nichols, milioni di dischi. Berlin sa quindi cosa sono, i copioni, tant’è vero che quando qualcuno le fa notare che il suo impianto accusatorio non regge, lei risponde piatta che funziona comunque meglio di quelli alternativi, e che quindi andrà avanti lo stesso.

Date le circostanze, l’unico problema di The Night of, a questo punto si sarà capito, è ospitare una star di prima grandezza – avercene, ma tant’è. Come spesso succede, Turturro è prima di tutto Turturro, il che un po’ distrae. La parte – per cui era difficile immaginare qualcuno di più tagliato, a meno che non sia stata tagliata su di lui – è quella di un avvocato all’ultimo stadio dell’emarginazione professionale.

Date le circostanze, l’unico problema di The Night of, a questo punto si sarà capito, è ospitare una star di prima grandezza – avercene, ma tant’è. Come spesso succede, Turturro è prima di tutto Turturro, il che un po’ distrae. La parte – per cui era difficile immaginare qualcuno di più tagliato, a meno che non sia stata tagliata su di lui – è quella di un avvocato all’ultimo stadio dell’emarginazione professionale. La procura non lo usa neanche come legale d’ufficio, è lui che vive accampato fra tribunali e stazioni di polizia tentando di agganciare soggetti in difficoltà, cui poi si offre per una parcella persino alta, benché ampiamente trattabile. Come gli altri personaggi della serie, anche lui passa il tempo spiegando al suo interlocutore – Nazir, ma non solo – cosa succederà di lì alla fine della serie: cosa prevede il copione, cioè, e come può essere aggirato. È un personaggio che discende in linea diretta dai private eye degli anni Quaranta, con almeno due variazioni di rilievo: intanto, per farsi riconoscere non usa più lo strumento classico – le vetrofanie con il nome con subito sotto la scritta “Detective” –, ma una serie di locandine tipograficamente offensive affisse sui vagoni della metropolitana; poi, soffre quanto i suoi progenitori in lobbia, cappottone e sigaretta, solo non per una donna crudele e svanita chissà dove, ma per una fastidiosissima, invalidante e repulsiva – specie per lo spettatore – dermatite, che combatte con ogni mezzo conosciuto, più qualche terapia autarchica. E mentre chi guarda si pone, a riguardo, una serie di domande – ma non sarebbe meglio toglierlo, quel cellophane dal piede, ma è proprio necessario scovolarsi con quel bastoncino, ma almeno in aula, per due ore, non potrebbe mettersi un paio di scarpe normali, al posto di quelle oscene Birkenstock – il personaggio cresce, fino al limite della dismisura. È un rischio. Controllato, ma un rischio.

Non è il solo. Con il passare delle puntate, il fuoco dell’attenzione si sposta su Nazir, e sulla sua vita nell’istituto di pensa in cui viene custodito in attesa di processo. Da una serie di fonti – il cinema, essenzialmente – sappiamo come funziona, da quelle parti: per non essere sopraffatti ci si affida a un anziano di potere, il che comporta costi e benefici più o meno in parti uguali. Sotto l’egida del bruto – di buone letture, però – che controlla il suo braccio, Nazir compie la solita iniziazione a baso di tatuaggi, bodybuilding, e pericolosi sgarri al regolamento interno, sviluppando a poco a poco – o forse, portando alla luce – una personalità molto diversa da quella con cui ci era stato presentato. Sempre ambigua, in sostanza, ma assai più romanzesca.

Senza una fine

E adesso? Il film non finisce, nel senso che si lascia aperte tutte le strade, sia per quanto riguarda lo sviluppo della storia, sia per quanto riguarda il taglio con cui raccontarla. Gli amanti delle scommesse farebbero bene a puntare tutto su un ritorno nei ranghi, cioè sul ricupero di una narrazione tradizionale, peraltro in linea con le soffocanti attese del pubblico, che prima o poi la pretende. Ma oggi esiste, forse per la prima volta da molto tempo, un’altra possibilità.

In un dilemma simile – e in più, dopo 250 milioni di download – lo staff di Serial ha cercato forme di racconto completamente diverse, che cominciano seriamente a sottrarsi alle classificazioni disponibili. Dustwun, il podcast dello scorso anno, era un tentativo di decifrare, attraverso testimonianze e ricostruzioni – ma soprattutto, ancora, attraverso la voce narrante di Koenig – il gesto enigmatico di un presunto disertore in Afghanistan. L’ultimo nato, S-town è – beh, è qualcosa di completamente diverso, e dopo la flessione di Dustwun, ha portato i download a un’altra cifra impressionante: 40 milioni. Ma questa è, alla lettera, un’altra storia.


Matteo Codignola

Lavora da molti anni per la casa editrice Adelphi. Ha tradotto, tra gli altri, Patrick McGrath, Mordecai Richler, Patrick Dennis e John McPhee. Ha pubblicato Un tentativo di balena (Adelphi, 2008), Mordecai (Adelphi 2011) e Un tocco di focaccia (Slow Food, 2013). Scrive di tennis e altri passatempi - meno appassionanti - per Rivista 11 e GQ.

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