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Fenomeni

Nomadi digitali

Breve storia di tutte quelle persone che non hanno una postazione di lavoro fissa, dai pionieri degli anni Ottanta che usavano Motosat fino alla wireless generation.

Tutte le buone storie che vogliono raccontare l’epopea dei “nomadi digitali” (molto poche) cominciano con un’immagine piuttosto singolare degli anni Ottanta. Si tratta della foto di un signore, Steve Roberts, che cavalca la sua “computerized recumbent bicycle”, il buffo strumento di viaggio degno di Forrest Gump con cui l’irrequieto statunitense ha attraversato il continente nordamericano. “È nei volti degli uomini d’affari – dice Roberts in un’intervista pubblicata sul numero di agosto 1984 del mensile Popular Computing – che sudano nei loro completi e mi guardano da sopra i resti dei loro pranzi-tutti-in-nota-spese. È nel volto dei giornalisti che si accorgono, dopo pochi minuti che mi stanno intervistando, che io vivo il loro sogno. È nelle facce dei giovani e dei vecchi, facce a malapena abbronzate da una vacanza troppo corta in Florida o facce decisamente troppo pallide, che si girano per dare un’occhiata mentre io sfreccio sotto le finestre dei loro uffici. È ovunque, perché è un desiderio universale. È il desiderio della libertà”.

Roberts non ha costruito il suo triciclo per vivere la vita del nomade e basta. Lo ha dotato di computer, batterie e strumenti di connessione, per trasformare l’identità nomadica in quella di un nomade digitale. Roberts la definì “technomadic lifestyle”, ma l’espressione non attecchì. Ci voleva qualche anno perché fosse coniato il termine “digital nomad”, titolo di un libro di Tsugio Makimoto e David Manners pubblicato nel 1997. Nel frattempo, però, molto era successo.

Da un’altra parte

La prima cosa da capire è semplice: i nomadi digitali vogliono reinventare il modo in cui si fanno i lavori “creativi” e da impiegato di concetto. Le loro caratteristiche principali sono due: gli strumenti di lavoro che usano per fare quel che serve, la tastiera del computer e gli altri gadget digitali (tablet, smartphone), e il modo con cui entrano in relazione con il loro lavoro, tramite connessione a internet. Questi due aspetti (niente carta, sempre connessi a distanza) consentono un cambio radicale nello stile di vita dei web designer, scrittori, disegnatori, progettisti, ingegneri del software e di decine e decine di altre professioni che possono lavorare non soltanto in mobilità (quello accade già da molto tempo ai dipendenti tradizionali delle aziende e all’ampio mondo di agenti di commercio e rappresentanti), ma vivendo in altri posti rispetto all’ufficio. Per esempio in un’altra città rispetto a quella in cui si trovano l’azienda o il committente, nella casa di campagna o al mare, in un altro Paese, addirittura in un altro continente. E poi c’è chi elimina completamente il bisogno di un datore di lavoro e si è messo in proprio, scrivendo sul web e vivendo di sponsorizzazioni e pubblicità.

Nella storia che stiamo raccontando ci sono tre cesure secche e una premessa. La premessa è semplice: non esistono indicatori diretti per calcolare quanti siano in realtà i nomadi digitali. Non esiste neppure una definizione stretta, se è per questo: nomade può essere una figura professionale che cambia città per un periodo o per tutta la vita, o che lavora sempre dalla stessa città ma cambiando luogo (un bar o un coworking) di frequente. In ogni caso, non ci sono albi professionali o altri modi per contare il numero di persone che rientrano dentro questa categoria, ampia e flessibile. Però si possono fare alcune interessanti considerazioni: i nomadi digitali portano con sé anche la loro vita privata insieme a quella lavorativa. E tra queste cose c’è anche la loro dieta mediale, che gli strumenti digitali permettono di mantenere quasi invariata: film, serie tv, televisione di flusso, radio. Le opportunità che i nomadi hanno per mantenere legami deboli e meno deboli con la propria vita sono tantissime, come se fossero creature stanziali, mentre Facebook e altri social media permettono di mantenere i legami a distanza annullando il problema dello spazio.

Cronologia di una storia americana

Dopo l’exploit di Steve Roberts, questa storia mainstream diventa ancor più nordamericana: a favorire l’idea del nomadismo digitale come “invenzione” americana ci sono alcuni fattori culturali ed economici di quel Paese: oltre al tessuto tecnologico più avanzato, ci sono gli effetti del sogno americano, del mito della frontiera e la forte predisposizione agli spostamenti all’interno degli Stati americani da parte dei cittadini Usa. È quello, per esempio, il Paese in cui nel 1985 è stato lanciato Motosat, un sistema di satelliti a uso personale per il mercato dei caravan e delle barche: una connessione lenta che permette però ai nomadi digitali di andare in rete e lavorare da remoto. Motosat ha chiuso solo nel 2013, sconfitta da 4G e WiFi.

“È nei volti degli uomini d’affari che sudano nei loro completi. È nel volto dei giornalisti che si accorgono, dopo pochi minuti che mi stanno intervistando, che io vivo il loro sogno. È nelle facce dei giovani e dei vecchi che si girano per dare un’occhiata mentre io sfreccio sotto le finestre dei loro uffici. È ovunque, perché è un desiderio universale. È il desiderio della libertà”.

Negli anni Novanta, con il boom della rete e del web, la gran parte delle decine di milioni di utenti internet globali sono negli Stati Uniti. Esistono già molte cose che oggi sono state digitalizzate, allora in formato analogico: c’è un fiorente mercato di pirateria televisiva con serie e film “intercettati” nelle trasmissioni via satellite dei broadcaster e doppiate in Vhs. Basteranno pochi anni perché, dopo la musica digitale, anche i film e i telefilm diventino un bene facilmente piratabile. Non ci sono i numeri per certificarlo, ma i nomadi digitali (e i “road warrior”, gli impiegati e venditori che risiedono sempre nella stessa casa ma viaggiano molto, per lavoro utilizzando il più possibile la tecnologia come strumento per ottimizzare tutti gli aspetti della loro vita professionale e personale) sono tra i principali consumatori di questa dieta “alternativa”. Hanno gli strumenti digitali, la connessione e la cultura per farlo, oltre al desiderio di rimanere “alla pari” con chi ha accesso ai contenuti in maniera tradizionale. Un’offerta per due decenni invisibile o non conveniente agli occhi dei grandi publisher ma che già esisteva, come più volte affermato poi dai pionieri dei sistemi di vendita o di noleggio dei contenuti in formato digitale.

I nomadi digitali sono sempre più difficili da tracciare non solo per via della loro natura erratica, ma anche perché è difficile trovare una casella burocratica in cui iscriverli. Difficili da tassare e da controllare, per i governi di solito i nomadi sono visti come un pericolo o comunque una difficoltà da gestire. Sono osteggiati, perché la ragione stessa degli Stati è la stanzialità della popolazione, e, nonostante appartengano a gruppi sociali profondamente diversi da quelli che li hanno preceduti negli ultimi ventimila anni, i nomadi digitali subiscono una sorte simile.

Nel 1999 nasce PayPal, che sblocca il doppio problema dei pagamenti online e del modo in cui coordinare le proprie finanze se si vive viaggiando, mentre sempre in quell’anno Edward Hasbrouck pubblica The Practice Nomad che a oggi ha raggiunto una mezza dozzina di edizioni. È un libro di suggerimenti e trucchi pratici per vivere da nomade digitale. Il filone è ancora quello di chi sceglie una carriera da freelance e vuole lavorare da località “remote”, magari girando l’Europa o il mondo mentre tiene in piedi un’attività professionale. Sta però arrivando anche un secondo filone: quello dei travel blogger, quelli che “sono pagati per viaggiare” e “viaggiano per farsi una vita”.

Il lavoro e il viaggio

I travel blogger, per cui una delle bibbie è il libro di Rolf Potts del 2002, Vagabonding. An Uncommon Guide to the Art of Long-Term Travel, sono una deviazione netta rispetto ai nomadi digitali. Non a caso il libro di Potts non ha come oggetto il nomadismo digitale ma uno stile di vita edonistico dedicato al viaggio. Come ottenerlo senza poter già contare su cospicue rendite? Diventando autori online di articoli da viaggio: blogger che viaggiano come testimonial di aziende per potersi permettere uno stile di vita itinerante. Hotel, agenzie di viaggi, prodotti di consumo. Uno dei primi a diventare mainstream è Matt, l’autore di Where the Hell is Matt, video virale su YouTube (la prima versione è del 2005, ne seguono altre nel 2008 e nel 2012) che per la prima volta ottiene sponsorizzazioni da un’azienda mainstream per viaggiare compulsivamente, raccogliendo spezzoni di pochi secondi da tutto il mondo. Nel 2003 nasce Google AdSense, strumento ideale per chi si voglia far pagare della pubblicità diventando popolare in rete; con Skype è invece possibile stare in contatto con il mondo degli affetti e degli affari tradizionali grazie alle telefonate VoIP e a un numero fisso nazionale “virtuale”.

Negli anni seguenti nascono ancora altri siti, come oDesk e Technomadia.com, per i professionisti hi-tech che continuano a viaggiare lavorando. Più che il travel blogger, declinazione del fashion blogger, torna il desiderio antico di molti statunitensi di avere una vita nomade e a contatto con la natura: trovare lavori da fare online mentre il proprio camper è parcheggiato a Yellowstone o in una piazzola del Big Sur. La televisione via satellite, e poi Netflix, “riempiono” la qualità della vita mediatica di un isolamento che non è mai in realtà tale.

Con la crisi e la diminuzione dei budget pubblicitari, i travel blogger vivono ancora un’effimera stagione di gloria, che però si ridimensiona presto, mentre il nomade digitale diventa semplicemente l’esodato dal lavoro tradizionale.

La potenzialità del nomadismo digitale è rivolta anche e soprattutto ai freelance e ai flessibili, a tutte le figure anche interne alle aziende che con le normative sempre più permissive a partire dagli anni Duemila cominciano a uscire dagli uffici e lavorare da casa propria o da altri posti. Alla fine è irrilevante: l’economia dei freelance negli Stati Uniti è chiamata “online staffing industry”, e nel 2012 pesava per un miliardo di dollari. Oggi ne vale più di cinque, e si stima che nel 2020 possa arrivare a dieci miliardi. Il salto dello squalo del travel blogging arriva nel 2008 con la pubblicazione del libro di Tim Ferriss, The 4-Hour Workweek. Sono ancora suggerimenti su come vivere on the road, è ancora un successo soprattutto nella definizione di un modello di vita e lavoro, ma si aggiunge però l’amara considerazione che nessun nomade digitale può avere una settimana lavorativa di sole quattro ore.

Cambiamenti recenti

Tra il 2008 e il 2010, le cose cambiano ancora. Con la crisi e la diminuzione dei budget pubblicitari, i travel blogger vivono ancora un’effimera stagione di gloria, che però si ridimensiona presto, mentre il nomade digitale diventa semplicemente l’esodato dal lavoro tradizionale. Piattaforme come Elance, nata nel 1999, vivono il loro massimo momento di gloria, ma anche siti di aste come eBay diventano una risorsa per chi si dedica al commercio punto a punto così da arrotondare, o magari rifarsi una vita senza più il posto fisso. Nel 2008 nasce AirBnB e nel 2013 Slack, il più potente e diffuso strumento di collaborazione online per “team diffusi”, gruppi di persone che lavorano da parti diverse del pianeta. Soprattutto, il nomadismo digitale diventa uno stato mentale: l’infrastruttura di internet consente molteplici sviluppi sia per la creazione e gestione del proprio lavoro che per il fine del lavoro stesso, cioè il suo finanziamento e l’ecommerce. Kickstarter e la pletora di startup che nascono a seguire creano prodotti digitali che possono essere venduti direttamente negli app store delle grandi piattaforme software (senza costi di promozione e distribuzione) o prodotti fisici realizzati in Cina e distribuiti da una catena logistica sempre più articolata e collaborativa. Ups avvia una campagna di comunicazione in cui afferma di non essere più “un’azienda di logistica ad alto contenuto tecnologico”, ma di essersi trasformata in “un’azienda tecnologica che fa anche logistica”, inaugurando i suoi primi campus in cui i clienti possono portare i prodotti da finire di assemblare. E una startup nel settore della stampa 3D inizia la produzione di pezzi di macchine più complesse direttamente nell’hub logistico di Louisville, Kentucky, portando a 48 ore il tempo necessario per la produzione e la consegna in tutto il mondo di pezzi on demand a magazzino zero.

I nomadi digitali si intrecciano allora con la “wireless generation” e con i movimenti che favoriscono la circolazione delle persone, dei beni e del lavoro sul pianeta: gli accordi commerciali tra Paesi consentono l’abbattimento di barriere e le attività del nomade digitale, svincolato dai vincoli spaziali, fluisce dove può trovare uno stile, qualità e costo della vita adeguati alle sue aspettative. “Digital nomadism” e “location independent” sono chiavi di ricerca presenti sin dall’inizio sul motore di ricerca Google, anche se le serie storiche non crescono in maniera significativa. Però il fenomeno esiste, e percola sempre più nelle statistiche demografiche dei Paesi occidentali. Perché? Una risposta semplice, deterministica, è “perché si può”, cioè perché la tecnologia e i mercati del lavoro lo consentono. Ma non è sufficiente. Forse un pizzico di realtà è contenuto in un’altra frase di Steve Roberts: “Il punto è che, se si vive lo stesso anno per 75 volte, questa non possiamo chiamarla vita”. La storia non dice cosa faccia Roberts oggi, o anche solo se sia ancora vivo. Però stupisce come il desiderio di libertà resta potentissimo e universale anche nella società di oggi.


Antonio Dini

Giornalista e saggista. Scrive di informatica e negli ultimi anni ha pubblicato libri e articoli sia per la carta stampata sia online. Dal 2002 ha un blog, Il posto di Antonio.

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