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Televisione 2.0

Dieci dogmi, dopo dieci anni, svelano che troppo tempo è passato. Le regole vanno quindi ripensate. E si passa dalla navigazione in mare aperto a indicazioni più ponderate.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 22 - Mediamorfosi 2. Industrie e immaginari dell'audiovisivo digitale del 11 dicembre 2017

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Oltre dieci anni fa Netflix noleggiava e vendeva Dvd, Facebook veniva aperto a chiunque avesse almeno 13 anni e un indirizzo email valido, le telco si facevano concorrenza puntando sull’offerta di sms gratuiti. Tentavo di ordinare allora (era una teoria costruita sul campo) i contenuti in tre categorie: “bio”, “info”, “epos”. Intendevo, con i primi, i contenuti generati a partire dalla vita degli utenti. Le chat, i blog, i videoblog, le opinioni sui prodotti, i forum. Dieci anni fa era contenuto “bio” lo scambio di sms e mms, oggi l’oceanico flusso di conversazioni su Whatsapp, Messenger e Telegram. Dopo circa un lustro di sperimentazione (il primo Grande fratello italiano è del 2000), nel 2006 erano ancora contenuto “bio” i reality show, adesso propri della televisione di retroguardia. Oggi sono i post e i live di Facebook a essere “bio”, la vita su Instagram, i video brevi e senza audio che ripetono ossessivamente un movimento del corpo, una smorfia dell’influencer. Ecco un’altra novità: gli influencer, gli youtuber, i fashion blogger, le star del web. Justin Bieber, che inizia la carriera caricando con la mamma video di cover su Youtube, può essere l’esempio del decennio. Le dinamiche di massa del “bio” vivono ancora su spinta di fattori quali la prevalenza del gossip, il protagonismo, il peterpanismo democratico. Erano e sono contenuti “info”, invece, tutti i prodotti news, o quelli in cui avviene un passaggio classico di informazioni da un’emittente a un ricevente. Il contenuto “info” è quello su cui i broadcast tradizionali si sono esercitati con proposte di social tv e second screen, ma probabilmente il meglio da offrire agli smart-tinelli italiani resta ancora l’archivio della tv come patrimonio storico. “Epos”, infine, sono i contenuti che sono anche contenitori, eroi del racconto sociale, macchine che hanno la forza di costruire le storie che ci permettono di stare insieme. Tutti i contenuti che creano un senso condiviso, una conversazione generale, sono contenuti “epos”. Le serie tv, specie americane, sono giganteschi generatori di epos, di immaginario collettivo e condiviso, di frasario. Stanno trasformando il cinema. L’epos oggi è meravigliosamente industrializzato e prodottizzato.

Oltre dieci anni fa sembrava stesse arrivando il tempo di primetime soggettivi, realtà virtuali, masse crescenti di contenuti auto-generati, monete autonome, scambi e conversazioni ininterrotti. I nuovi media sembravano diventare spazi di conversazione e scambi alla pari tra utenti. E questi scambi, grazie anche alla facilità d’uso delle tecniche e al costo limitato dell’accesso alla rete, avrebbero prodotto in misura maggiore che in passato contenuti e servizi. Sembrava che il pubblico si stesse organizzando in una repubblica autonoma e solo in parte influenzabile dai meccanismi mediali più classici. Non è andata proprio così. Oggi insieme al primetime populista della tv abbiamo il my time egotistico su web. In Italia la tv e internet hanno forse provato a parlarsi, ma non si sono capiti. Le logiche della prima serata sono rimaste quelle di Lascia o raddoppia?, La Corrida, Sanremo, mentre i geniali player esteri over the top arrivano anche qui. Guardano il mercato e lo occupano, con le loro operazioni di marketing nelle piazze metropolitane, al di là del bene e del male. Anche questo è internet, con tutto quello che di straordinario riesce a dare e con le correzioni di realismo rispetto ai sogni originari della rete.

I

La televisione 2.0 si basa sull’uso del web come piattaforma, non ha confini e mantiene chiaro il baricentro gravitazionale: approccio etico, cooperativo e comunitario, più dal basso che dall’alto. Vero fino a un certo punto. L’alto sta arginando il basso e spesso si finisce alla pubblicità, al commercio, agli stati che regolarizzano. Internet ha cambiato il mondo, ma il mondo ha cambiato internet. Il paradigma è stato stravolto, ma non in modo lineare.

II

Se il web diventa la piattaforma di riferimento, è necessario poter contare su macchine comunicative in grado di presidiare tutta la miriade di siti che costituiscono la costellazione internet e non solo alcuni grandi siti chiave. Poi abbiamo cambiato paesaggio: sono bastati pochi player che acquisiscono, fagocitano, monopolizzano, monetizzano.

III

Il vantaggio competitivo non è avere “Intel Inside”, ma esercitare il controllo, o comunque possedere in via esclusiva fonti di dati unici o in ogni caso difficili da ricreare ex novo. Qui i big data hanno fatto la loro parte e se la stanno giocando. Nella tv 2.0 non sono i diritti a fare la differenza, ma la relazione tra i dati di visione del contenuto e l’identità del soggetto che guarda. Se da broadcaster continuiamo a non sapere nulla di chi guarda cosa, non sapremo nulla di cosa sarà il futuro. A questo stanno pensando Netflix e le pseudo-tv lanciate dalle grandi internet company.

IV

Gli utenti creano valore in misura esponenziale. Non restringete mai la cosiddetta “architettura della partecipazione” a un video, un commento, alcune foto. Lasciate che gli utenti aggiungano valore alla vostra applicazione. Questo valore cresce al crescere delle possibilità espressive e al crescere della memoria delle interazioni. Le applicazioni social sono quelle che tutti conosciamo, lì vivono le interazioni quantitativamente più significative, e lì vive pure la qualità: gli utenti stanno creando dati, anche con talento.

V

Gli aspetti partecipativi del network devono essere automatizzati. Solo una parte degli utenti deciderà di partecipare attivamente alla vostra applicazione, programma, iniziativa. Fate in modo che gli aspetti partecipativi siano sviluppati di default anche solo dalla visione o dall’upload del semplice contenuto.

Nella tv 2.0 non sono i diritti a fare la differenza, ma la relazione tra i dati di visione del contenuto e l’identità del soggetto che guarda. Se da broadcaster continuiamo a non sapere nulla di chi guarda cosa, non sapremo nulla di cosa sarà il futuro.

VI

La proprietà intellettuale limita il riutilizzo e la sperimentazione. La liberalizzazione di alcuni diritti può suscitare una nuova ondata di produzione di massa dal basso, e agevolare la costruzione di video database che facciano superare la massa critica necessaria al decollo. Non solo. Può avere un effetto di stimolo e scoperta di nuovi talenti.

VII

Considerate la tv 2.0 alle prese con un eterno numero zero, allo stesso modo delle eterne beta version oggi diffuse su scala planetaria da internet. In un mondo che dipende sempre più dagli effetti partecipativi nessun prodotto giunge mai allo status di 
release definitiva. Si rilasciano sempre versioni perfettibili, appunto eternamente beta. Non è necessario consolidare tutto in macchine editoriali monolitiche, è nella logica del gioco essere provvisori e partecipativi anche sotto questo aspetto.

VIII

Cooperate sempre e non eccedete nella tendenza al controllo. Fate in modo di partecipare a vostra volta alla costruzione del contenuto generale, usate dati e layer altrui creativamente, usate e fatevi usare dalla syndication. Voi fate un nuovo programma. Un blog lo riprende e lo commenta. Un anonimo videomaker posta su YouTube un contenuto derivato dal vostro programma e dai commenti del blog. Voi lo mandate in onda, fate uno share da record. Il maggiore quotidiano nazionale lo rilancia. Voi prendete il centro della scena mediale. (Consiglio: assumete il videomaker, evitate di fargli causa per violazione del copyright).

IX

Internet è noi.

X

C’è ancora tempo e i treni sono tanti.
Non perdiamoli tutti.


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