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Social media

Amico brand

Nel tentativo di avvicinarsi sempre più a noi, alla comunicazione dei grandi marchi sui social a un certo punto è sfuggito qualcosa di mano. Il marketing prova emozioni?

E voi dov’eravate quando una bibita all’arancia americana minacciò il suicidio su Twitter? Io me lo ricordo bene: ero su Twitter, confuso. È successo il 4 febbraio, e il tweet incriminato era piuttosto chiaro: “I can’t do this anymore”, “Non ce la faccio più”. Succede che messaggi simili siano pubblicati online, da teenager in difficoltà o persone che chiedono aiuto a qualcuno. Non importa chi, qualcuno. In questo caso, però, vale la pena di ripeterlo, parliamo dell’account ufficiale di una bibita alla frutta.

Anche per questo, quando lo vidi ritwittato e commentato su Twitter, quel giorno, pensai fosse successo qualcosa di grave, che il social media manager avesse usato il profilo per chiedere aiuto. Qualcosa del genere. Una cosa strana, d’accordo, ma non più strana della realtà dei fatti.

La ricerca della viralità

I fatti, dunque. Vediamoli. Sunny D occupa nell’immaginario delle bibite analcoliche americane un posto simile a quello che 7UP occupa da noi: anni Ottanta, un po’ dimenticata, un brand non molto cool per Millennial e Gen X. E, giusto per svelare il mistero, il tweet in questione non aveva a che fare con I Problemi Della Vita ma con il Super Bowl. La partita di quest’anno, a quanto pare, non è stata molto divertente e Sunny D, come più o meno ogni altro brand, era in quel momento alla ricerca del Sacro Graal del Tweet Virale Da Super Bowl.

Ogni anno, infatti, mentre mezzo mondo attende lo spettacolo dell’half time e le classiche pubblicità tra i due tempi, un piccolo esercito di creativi, pubblicitari e scrittori lavorano per innumerevoli brand, macinando idee per un tweet, un post, un commento con cui conquistare la conversazione globale – e miliardaria – legata all’evento (qualcosa di simile al caso Oreo del 2013, per intenderci). In tutto questo, quelli di Sunny D puntarono su quanto noioso fosse il match per attirare qualche retweet empatico; il wording del tweet, però, ambiguo e drastico, ha spinto molti a pensare al peggio. Tra questi “molti”, anche altri brand che sono corsi in soccorso del loro, ehm, simile: Pop-Tarts ha offerto il conforto di un abbraccio, MoonPie ha chiesto cosa non andasse e Little Debbie ha fatto l’amica apprensiva, dando consigli per meglio gestire la propria vita. Ci sono poi stati altri casi di brand che si sono mantenuti lontani dal tono drammatico, usando il tweet come reazione umana e universale: Grubhub è un servizio di consegna di cibo dai ristoranti, che ha applicato il “Non ce la faccio più” alla cucina, sottolineando quanto sia noioso preparare da mangiare ogni sera – e quindi perché non usare Grubhub ;-)?

Qualora non fosse chiaro, però, tutti questi grandi sentimenti sono cartonati bidimensionali: non esiste nessuna “Little Debbie”, ma solo un’azienda del Tennessee specializzata in barrette snack; Grubhub vuole farci mangiare cinese, non aiutarci in casa. Cos’abbia spinto questi biscotti e dolciumi a orbitare uno degli argomenti più seri e drammatici dell’animo umano, è chiaro: i brand si sentono persone. E proprio come ogni persona al mondo, desiderano essere cool. E giovani. Per farlo, però, devono prima spacciarsi per persone, individui, seguendo un trend dalla lunghissima coda che ha cambiato le regole del gioco pubblicitario: la personificazione e umanizzazione del brand. Ma cosa vuol dire che un brand si comporta come una persona?

Cos’abbia spinto questi biscotti e dolciumi a orbitare uno degli argomenti più seri e drammatici dell’animo umano, è chiaro: i brand si sentono persone. E proprio come ogni persona al mondo, desiderano essere cool. E giovani. Ma cosa vuol dire che un brand si comporta come una persona?

Shiny Happy People

Secondo le leggi statunitensi, “le corporation sono persone”, nel senso che godono di alcuni dei diritti e responsabilità propri degli esseri umani. È un punto legale controverso, portato nel 2014 fino alla Corte suprema dall’azienda Hobby Lobby, che per motivi religiosi non voleva che le assicurazioni sanitarie dei suoi dipendenti includessero alcuni contraccettivi. In quell’occasione la Corte si è espressa a favore della corporation, aprendo un vaso di pandora legale, etico e filosofico di cui non ci occuperemo: le aziende potevano avere diritti personali (curiosità a latere: tre anni dopo la sentenza Hobby Lobby ha comprato centinaia di antichi artefatti fatti uscire dall’Iraq durante l’occupazione da parte dell’ISIS).

I social media, senza nemmeno il bisogno di passare per la Corte suprema, hanno agito nella stessa direzione, offrendo a enti legali senza volto un canale personale e quotidiano con cui instaurare un rapporto intimo con le persone. Quella è stata la prima fase, l’essere gentili e disponibili ed educati online, a cui è seguita presa la seconda, che prevede l’essere edgy. Prendiamo Wendy’s, per esempio, una catena di fast-food “minore” degli Usa che ha saputo utilizzare i social – Tumblr in primis, ma anche Twitter – per presentarsi in modo rivoluzionario: la scelta di Tumblr, il social network più assurdo ed eccentrico di tutti, fu azzeccata, visto l’approccio da teenager fumato con cui gestisce le sue operazioni online. Battute, meme, commenti e risposte assurde con cui Wendy’s ha aggiornato la sua immagine, facendo peraltro ridere. Andare su Tumblr e comportarsi come un’utente tipico di Tumblr, abituato a inside joke, umorismo bizzarro, meme e uno slang giovanile e digitale: questa è stata la tattica vincente.

Esempio. Un successo che ha portato altre aziende a improvvisarsi “giovani” e “cool” online, con risultati però imbarazzanti: fare lo scemo su internet non è facile come sembra e utilizzare “bae” o altri termini dello slang americano non è sufficiente per riuscirci, con il rischio di fallire, rivelando la distanza – culturale, prima ancora che anagrafica – con il target. In un’immagine, si rischia questo.

Per capire l’assurdità di quello che chiameremo “Evento Sunny D”, bisogna allontanarsi un po’ per avere un quadro d’insieme. Perché, se da un lato i brand si comportano da persone, quest’ultime si sono fatte “brand”. Come ha scritto Amanda Hess sul New York Times, “Tutto ciò che viene consumato è percepito come un brand – e su internet, succede a ogni minuscolo pezzo di contenuto”. Anche le persone, ovviamente: il “personal brand” indica propria la fusione tra vita personale e marketing, per cui ogni mossa va studiata e ogni scelta di vita diventa un case study. Nella nostra continua promozione di noi stessi – la copertura mediatica che diamo di noi sui social – seguiamo principi simili, stando attenti a cosa condividere e come e quando. Non vogliamo di certo essere “off brand”.

È la stessa onda, su cui galleggiano imbarcazioni differenti: noi che ci facciamo brand e i brand che si fanno complessi, con “ideali” e “sogni” che vogliono venderci, oltre che “esperienze” alle quali vogliono associarci. Ecco perché, come spiega Gianluca Diegoli, sempre più aziende prendono a cuore una causa e hanno posizioni sociali o politiche chiare: vogliono essere come noi. La personificazione del brand è in corso da anni ed è stata solo accelerata dai social media. La diamo quasi per scontata, abituati a vedere Ceres pubblicare immagini ironiche e, recentemente, Treccani darsi ai dank meme.

Forse per questo, quando Sunny D ha detto di “non poterne più”, del Super Bowl, tutti hanno pensato avesse bisogno d’aiuto. E quando il giorno dopo ha assicurato di essere stato solo di cattivo umore, ci siamo rincuorati. Il fatto che lo dicesse all’account dei biscotti MoonPie, d’un tratto aveva senso: tutto era sistemato, la lotta era finita. Eravamo usciti vincitori su noi stessi. Amavamo il Brand.


Pietro Minto

Nato a Mirano, in provincia di Venezia, nel 1987; vive a Milano. Collabora con Il Foglio, Il Post e altre testate. Dal 2014 cura la newsletter Link Molto Belli.

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