Storia industriale della creatività. Come i diversi modelli di business hanno plasmato le nostre serie tv preferite, dagli anni ‘50 a oggi.
Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 22 - Mediamorfosi 2. Industrie e immaginari dell'audiovisivo digitale del 11 dicembre 2017
Spesso, quando si parla di serialità americana, il discorso tende ormai a una banale esaltazione della sua “qualità”, descritta in modo acritico e superficiale. Le serie tv sono “meglio del cinema” o sono “il nuovo romanzo”: due affermazioni mai sviscerate fino in fondo. Per atteggiamento snob o scarsa memoria storica, le serie cable sono talvolta ritenute superiori a prescindere rispetto a quelle dei network, un pregiudizio di gusto che ora vede esaltare i titoli dello streaming. Infine spesso si approccia il campo seriale utilizzando parametri di altri media, su tutti il cinema, talvolta fuorvianti. In realtà, la serialità è un prodotto culturale complesso, frutto di un contesto articolato. E con una sua storia. Così, se si parla di serialità americana contemporanea, bisognerebbe ricordare che i prodotti di oggi sono il frutto di uno “stile” ben definito, nato a inizio anni Ottanta grazie ai network. Uno stile da “quality tv”, una “second golden age”, una “tv d’arte” (1)R. J. Thompson, Television’s Second Golden Age, Syracuse University Press, New York 1996. Sulla serialità di qualità si veda anche A. Grasso, Buona maestra, Mondadori, Milano 2007 e J. Mittell, Complex Tv, minimum fax, Roma 2017..
Uno stile che ha premiato una certa creatività che meglio rispondeva a nuove esigenze industriali, fruitive e culturali. Certo, grazie a questo stile, il racconto seriale ha raggiunto la sua maturità, ma non bisogna dimenticare titoli di “qualità” di altre ere, capaci di entrare nell’immaginario con regole differenti (Alfred Hitchcock presenta, Ai confini della realtà, Star Trek, Arcibaldo). Dalla fine degli anni Quaranta fino a parte dei Cinquanta c’è stata una prima golden age della fiction americana, grazie ai tele- drama (2) Per una storia, si veda S. Carini, “Fiction”, in A. Grasso, M. Scaglioni, Che cos’è la tv, Garzanti, Milano 2003. Intanto si diffondevano metodi di registrazione video che hanno portato alla nascita e al consolidamento di una serialità che potremmo definire “classica”, dalle regole molto standardizzate. La seconda golden age, e cioè lo stile innovativo delle serie tv, nasce a inizio anni Ottanta sulle reti generaliste. Prima minoritario, questo approccio si avvia a diventare la norma negli anni Novanta, per essere reso ancora più raffinato dalle reti via cavo tra fine Novanta e Duemila. Oggi i servizi di streaming partono da questo stile per variarne ancora le modalità, soprattutto in un contesto fruitivo mutato. Non va però trascurato il fattore “usura”. A più trent’anni dalla sua nascita, la formula della seconda golden age comincia a mostrare segnali di stanchezza.
Ogni fase stilistica declina a suo modo caratteristiche testuali e pratiche fruitive, produttive e distributive. Un aspetto influenza l’altro: è un mosaico di tessere interconnesse. Se nella prima età dell’oro e soprattutto nel periodo classico le strutture sono ben formattizzate, con la seconda età molte regole sono sovvertite, o meglio si assiste a una progressiva fluidità e convivenza tra diverse soluzioni. Oggi la cosiddetta peak tv è un panorama multiforme e tumultuoso, pullulante di opzioni e indeciso sull’indirizzo da percorrere. Come questi diversi fattori combinati influenzano la creatività?
Fruizione
A fine anni Quaranta, la tv è vista nel contesto familiare: il televisore è il centro del salotto. Conta la buona reputazione: la scrittura fa propri i modi del teatro, un medium “alto”, spesso legandosi alle scene di Broadway, visto che il centro produttivo è New York. Si scrivono o adattano play settimanali, spesso dalla vita effimera perché in diretta: i metodi di registrazione sono primitivi. A metà anni Cinquanta, il diffondersi della registrazione video cambia tutto. La tv sposta la sua produzione sempre più a Hollywood: gli Studios richiedono una standardizzazione di ogni fase per ottimizzare costi e ricavi. Conta fidelizzare lo spettatore: la scrittura si plasma su rigide routine, dalla divisione in generi all’uso di un solo formato seriale. Si scrive basandosi sulla scansione settimanale, con una divisione dell’episodio di solito in tre atti (con teaser e sigla), legati spesso alle interruzioni pubblicitarie, annunciate da un cliffhanger. Il lavoro creativo è legato alla capacità di trovare idee durevoli e ripetibili, e di differenziarle con piccoli tocchi, magari inglobando nuove istanze sociali.
A partire dagli anni Ottanta, la fruizione si frammenta: più televisori in più stanze, nuovi canali e nuovi dispositivi come il videoregistratore. Conta differenziarsi: bisogna catturare il pubblico che si dà allo zapping, e nasce il nuovo stile “quality” con titoli come Hill Street Blues o Miami Vice. Le rigide regole di un tempo lasciano spazio a una creatività più fluida e complessa, soprattutto negli anni Novanta. L’appuntamento resta settimanale, ma i frammenti narrativi si legano sempre più tra loro. Non si scrive più per tutta la famiglia, ma per singoli target. Questo diventa ancora più ovvio a fine anni Novanta, con il consolidarsi delle cable, che sottraggono ai network il pubblico più pregiato (fascia d’età 18-49, residente nelle aree metropolitane). Cominciano a imporsi modelli basati sul numero di abbonati e non solo sugli ascolti e sulla pubblicità. Con le reti via cavo, conta una scrittura capace di marcare la differenza socioeconomica e culturale (seminale è Hbo con Oz, Sex and the City, I Soprano). Alcune cable non hanno pubblicità: la struttura drammaturgica è più libera (anche se il modello in tre atti permane, più o meno mascherato).
I network non stanno però a guardare, e cercano di riprendersi quel pubblico con una produzione più evoluta (X Files, ER e poi Lost, 24). Così negli anni Duemila la concorrenza tra network e cable è sempre più spinta. Con l’arrivo e l’esplosione del web, la fruizione comincia a essere possibile sempre, accentuando il suo aspetto anche individuale. Conta allora farsi evento, conta essere ovunque, magari espandendosi su altri media, dal web e dai media digitiali al videogioco (3)S. Carini, Il testo espanso, Vita e Pensiero, Milano 2009..
Attorno al 2010, lo scenario diventa ancora più complesso: il consolidarsi dello streaming e dell’on demand riduce il bisogno di griglie temporali. Nel 2013 esce House of Cards su Netflix: la produzione originale non è solo appannaggio di network e reti via cavo. Il centro creativo è ancora Hollywood, ma deve fare i conti con i nuovi editori/distributori/produttori della Silicon Valley. Esistono tanti pubblici, più o meno generalisti, più o meno di nicchia, anche su scala mondiale. Contano gli ascolti in differita, grazie all’on demand. Si diffonde il binge watching, e l’idea che lo spettatore abbia a disposizione e veda una stagione intera in un tempo limitato stimola gli autori a diluire la narrazione. Così, per esempio, non è più necessario un ritmo sostenuto per ogni episodio: lo stesso materiale narrativo è “spalmato” su due o tre episodi, supponendo una visione consecutiva degli stessi. E se certi titoli dalla marcata serialità interepisodica avevano abituato a cliffhanger non solo a fine stagione ma a fine puntata, ora questo espediente è meno necessario. Eppure, la scansione settimanale permette ancora di sfruttare al meglio la passione degli spettatori per un lasso di tempo prolungato. Eppure, il ritmo sostenuto è ancora oggi un attrezzo seriale potente nelle mani di un abile sceneggiatore. Convivono dunque molteplici modelli fruitivi: l’autore deve modulare la scrittura secondo un numero elevato di variabili, spesso da scoprire.
Questa è l’era della peak tv: c’è tanta, troppa tv. Si andrà avanti così? Si sta già rallentando? È una bolla pronta a esplodere? Secondo Ted Sarandos di Netflix, la definizione di peak tv è “un’idea di retroguardia”, adatta a un modo di pensare del passato: nell’era digitale il buffet è sì ricco, ma mangi quello che vuoi, in maniera personalizzata. Chi avrà ragione?
Quantità
All’inizio sono in tre: Abc, Nbc, Cbs. L’arrivo di Fox nella seconda metà degli anni Ottanta cambia il panorama dei network per sempre. Lo stesso accade poi con l’esplosione delle cable, tra basic e premium, da Hbo a Showtime, Starx, Fx, Amc. E adesso lo streaming: Netflix, Hulu, Amazon. E i network o le cable che si fanno streaming: nel 2017 Cbs decide di produrre un prequel del suo franchise di punta Star Trek solo per il suo servizio online. Più competizione, più possibilità per i creativi. La fine della rigidità del sistema provoca fin dagli anni Novanta nuove composizioni delle writers’ room, che accolgono personalità diverse, persino David Lynch. Eppure, soprattutto a partire dagli anni Duemila, le carriere non sono più così solide come una volta, quando bastava un titolo forte lungo molte stagioni (da MASH a I Simpson). Secondo la definizione in circolazione dal 2012 e diffusasi nel 2015 anche grazie alle affermazioni di John Landgraf, chief executive di Fx, questa è l’era della peak tv: c’è tanta, troppa tv. Si è passati dalle 216 serie nel 2010 alle quasi 455 nel 2016. Si andrà avanti così? Si sta già rallentando? È una bolla pronta a esplodere? Secondo Ted Sarandos, capo contenuti Netflix, la definizione di peak tv è “un’idea di retroguardia”, adatta a un modo di pensare del passato: nell’era digitale il buffet è sì ricco, ma mangi quello che vuoi, in maniera personalizzata. Chi avrà ragione?
Ci sono però anche altri numeri da analizzare. Nel periodo classico, le serie prodotte sono molte meno rispetto a oggi, e si assestano sui 22-24 episodi a stagione, per coprire i palinsesti da settembre a maggio. Data la chiusura del sistema, a livello di testo e di contesto, l’idea giusta può andare avanti per molte stagioni. E deve farlo, perché per entrare nel circuito remunerativo della syndication servono almeno 100 episodi. Creativamente, è un lavoro pesante per gli autori, aiutati però dalla ripetitività delle formule. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, le cable iniziano a introdurre un nuovo paradigma. Producono più titoli ma con meno episodi, 13, per arrivare oggi a circa 10, talvolta meno. Ciò permette di avere più novità da sottoporre agli abbonati, e di gestire meglio strutture narrative e seriali complesse, lusingando gli scrittori ma anche i nomi di Hollywood, pronti a impegnarsi solo in maniera limitata. Questo significa decidere in anticipo quando concludere una serie, e implica quindi una limitazione del numero di stagioni. Non avendo nessun palinsesto da riempire, infine, i servizi in streaming sono ancora più liberi circa il numero di serie ed episodi da acquistare e da produrre. Senza le costrittive regole del palinsesto, è poi possibile per cable e streaming variare qua e là anche la durata degli episodi, con ripercussioni sulla scrittura.
Ecco così che gli autori scrivono di più ma anche di meno: devono sfornare più titoli, ma scrivere meno episodi e stagioni. È più “creativo” chi scrive 10 episodi l’anno per 4 stagioni o 24 episodi per 11 stagioni? Chi lavora su una sola idea forte per anni o chi ne sforna tre buone ogni due?
Serialità
Il numero dei segmenti narrativi influisce sul tipo di formato adottato, e viceversa. Nella prima golden age ci sono solo pezzi unici, tanto più quando sono in diretta. Sono collection, magari con un tema comune. È la serie antologica classica. Quando però serve ottimizzare, gli Studios impongono una serialità con personaggi, set, eventi ricorrenti e una narrazione chiusa, senza evoluzione. È la serie episodica classica: un segmento narrativo chiuso, con un caso/avventura/situazione da risolvere; poi si ricomincia da capo. Non appena però la competizione si fa dura, bisogna catturare gli spettatori aprendo le maglie temporali, cioè ibridando la serie con il serial (anche perché Dallas in primetime nel 1978 dimostra che è possibile farlo con successo). Non c’è solo il caso da risolvere a fine episodio settimanale, ma anche la vita privata dei personaggi da sviluppare per più segmenti. È la serie serializzata, tipica degli anni Ottanta e soprattutto Novanta (4)Sulle strutture seriali, M. Buonanno, Le formule del racconto televisivo, Sansoni, Milano 2002.. Gli episodi si ibridano con le puntate, segmenti narrativi aperti.
Più si deve catturare lo spettatore, più si esaspera il lato serial, quasi in stile soap, che contamina anche il lato pubblico dei personaggi, fino ai casi estremi di iper-serializzazione tra fine anni Novanta e Duemila. Il gioco sul tempo si fa metalinguistico: per risolvere un caso può servire una stagione intera (che però magari racconta un giorno solo, come in 24) o tutte le stagioni (che fanno balzi avanti e indietro nel tempo, come in Lost). È l’endlessly defferred narrative: i temi di una serie sono costantemente rilanciati, e vanno a definire il suo myth arc (5)M. Hills, Fan Cultures, Routledge, London 2002, p. 109. Una sospensione di senso che rende le serie (sempre più serial) una struttura narrativa aperta, davvero innovativa. Diventa difficile giocare sul lungo periodo come un tempo, la narrazione è più instabile e richiede molto allo spettatore. Fino a oggi: di fronte a narrazioni corpose, diminuiscono episodi e stagioni. Meglio avere più titoli dalla narrazione compatta, da gestire con abilità come brand, capaci di rilanciare l’immagine del canale o piattaforma. Non senza aggiustamenti in corsa: alcuni titoli ottengono, anche forzatamente, nuove stagioni per via del loro successo, come accaduto a Stranger Things o a Tredici. E la prima stagione di un prodotto diventa una sorta di stagione pilota (6)Si veda D. Cardini, Long Tv. Le serie viste da vicino, Unicopli, Milano 2017.
Dopo decenni di dilatazioni, ora siamo di fronte a una sorta di contenimento della serialità. Qua e là si torna all’antico. La miniserie, con tocchi antologici, torna in auge. Formato seriale dalle puntate limitate, quasi sempre composta da una sola stagione, la miniserie era diffusa negli anni Settanta come struttura adatta a titoli “alti”, come Radici. Oggi è di nuovo di moda, ma prevede più stagioni e la capacità di reinventarsi ogni anno. Ne è campione Ryan Murphy: American Horror Story, American Crime Story, Feud.
Intrecci
La teatralità della prima fiction americana prevedeva intrecci conclusi a fine segmento. La standardizzazione successiva ha comportato una forte linearità legata alla chiusura seriale: uno o due protagonisti, qualche coprotagonista, un caso da risolvere ogni settimana. L’universo da costruire è bidimensionale. L’andamento narrativo è orizzontale, di superficie. La creatività sta nel perforare questa struttura rigida variandone toni e temi di stagione in stagione, o con puntate speciali e tematiche.
Con gli anni Ottanta, la seconda golden age aggiunge il fattore tempo per il privato dei protagonisti. Il plot episodico è affiancato dal running plot. L’intreccio comincia a stratificarsi. Anche perché il cast diventa corale: ogni personaggio ha le sue linee narrative. E quando la serialità si espande ancora, ecco che possiamo avere trame legate a ogni aspetto narrativo che “corrono” per più puntate e più stagioni. Più vanno avanti episodi e stagioni, più la stratificazione degli intrecci aumenta: l’andamento narrativo è anche verticale, in profondità. Una struttura densa, non chiusa, sospesa, frammentaria. Un universo esplorabile e ampliabile. Un andamento reso ancor più raffinato da Hbo per catturare un pubblico esigente e segmentato, poi ripreso dai network per recuperare il terreno perso. Possibile da seguire, sui network come sulle cable, grazie al proliferare di nuove possibilità tecnologiche, dai Dvd alle repliche digitali (siti web o video on demand). E che stimola il dibattito durante e post visione, nei forum e sui social.
Per le caratteristiche del medium, le serie hanno raggiunto una complessità drammaturgica difficilmente riscontrabile altrove. Eppure i procedural “classici” (CSI, Law and Order, Chicago PD) sono ancora un bel miraggio: hanno un pubblico forse meno appassionato, ma più costante e numeroso.
Temi e generi
Nei teledrammi degli anni Quaranta, alcuni temi fanno già capolino, ma gli sponsor riescono a tenere un certo controllo. La tv dev’essere rispettabile, e lo stesso vale dagli anni Cinquanta in poi. Eppure sempre più il piccolo schermo riesce a farsi specchio dei cambiamenti sociali. Quando però la tv ha bisogno di distinguersi, ecco che abbraccia temi e personaggi sempre più controversi e al limite. Da metà anni Novanta, rispetto a un cinema votato al blockbuster per famiglie o adolescenti, la tv dà spazio a temi e autori per adulti. E questo accade ancor più nelle cable e nei servizi in streaming, anche perché molti subiscono meno o per nulla l’influenza degli sponsor e usano tecnologie di controllo parentale. Personaggi a tutto tondo, eccentrici, fuori dalla norma, veri e propri antieroi (Tony Soprano, Walter White, Dexter Morgan) sono al centro di storie che possono permettersi una rappresentazione più esplicita di sesso e violenza. Intanto, la netta divisione tra generi va scomparendo.
La questione dei generi appare già nell’età classica, mutuata ovviamente da Hollywood. Gli autori possono scegliere fra commedia e dramma. La prima si cristallizza nella sitcom, commedia di situazione (a tema famigliare o lavorativo, qualche volta amicale) di 30 minuti lordi, con impostazione teatrale e riprese effettuate in multicamera. Il drama è l’argomento serio, con durata di 60 minuti con pubblicità. È girato con una singola camera come il cinema, si declina in sottogeneri come il western, la fantascienza, il poliziesco, il medical. Nel 1985, però, esce Moonlighting: è un poliziesco, dura un’ora, ma è anche una commedia. Nasce il dramedy: i due toni del racconto si possono mescolare. E se un genere non basta più nemmeno nel drama (ecco Twin Peaks, X-Files, Buffy), alcune comedy sono girate con camera singola (Scrubs) o come un mockumentary (The Office, Modern Family). L’ibridazione è una costante, cui si unisce soprattutto da metà anni Novanta una riflessione metalinguistica sui meccanismi della tv.
Il creativo deve mescolare sapientemente le carte, dosare i generi, muoversi su più registri, inventare nuove miscele: anche così si cattura l’attenzione degli spettatori. Eppure, in serie poliziesche come True Detective si riaffaccia il tono serio dell’età classica. E la classicissima The Big Bang Theory è un successo.
L’autore televisivo allora non può più prescindere dalla forma: la sua idea deve avere uno stile chiaro, definito, distinguibile. Insomma, l’autore tv lo è a tutto tondo, come creatore di un mondo visivo, formale, narrativo. E se lo stile, però, fosse ormai solo un vezzo, a scapito del vero punto forte della televisione, la scrittura drammaturgica?
Stile visivo
Anche per limitazioni tecniche, inizialmente il teatro è il medium di riferimento, e questo retaggio resta vivo nelle sitcom. Anche i drama però evolvono poco. Perché si gira in interni, perché la regia predilige scarsi movimenti di macchina e abbondanza di piani americani e primi piani. Il montaggio è funzionale alla concatenazione della vicenda. La fotografia è naturale, con qualche tocco noir per alcune serie in bianco e nero e qualche invenzione con il colore. Soprattutto, la parola prevale sull’immagine. Qualcosa muta nelle miniserie degli anni Settanta, ma è con il nuovo decennio che il visivo si prende una rivincita.
Le influenze sono molteplici (cinema, videoclip – è nata Mtv) e idem le cause: nuovi budget, schermi tv più grandi, nuove maestranze, nomi di Hollywood. Il rinnovamento visivo va di pari passo con quello drammaturgico e seriale. La tv abbandona la compostezza, la monotonia, l’equilibrio di un tempo e si piega alla televisuality (7)J.T. Caldwell, Televisuality. Style, Crisis, and Authority in American Television, Rutgers University Press, New Brunswick 1994. Lo stile diventa un fattore fondamentale, non più un vezzo accessorio. In alcuni casi conta più l’immagine che il racconto, più la forma che il contenuto, più lo stile che la narrazione. Quel che era relegato sullo sfondo ora è in primo piano. Così la tv si apre sempre più alla varietà del cinema, e si fa sempre di più anche racconto per immagini. Talvolta sorpassa il cinema sul piano spettacolare (Il trono di spade, The Crown). Talvolta è quasi cinema indipendente (Breaking Bad, Girls).
L’autore televisivo allora non può più prescindere dalla forma: la sua idea deve avere uno stile visivo chiaro, definito, distinguibile. Insomma, l’autore tv lo è a tutto tondo, come creatore di un mondo visivo, formale, narrativo. E se lo stile, però, fosse ormai solo un vezzo, talvolta senza vere innovazioni, a scapito del vero punto forte della televisione, la scrittura drammaturgica?
Reputazione e budget
All’inizio dunque la tv statunitense si nobilita con il teatro, coinvolgendo nomi importanti (Gore Vidal, Reginald Rose, Paddy Chayefsky, i giovani Marlon Brando e Paul Newman). Sono questa ascendenza e la “serietà” dei drammi in scena a determinare la definizione di golden age. Per molti però il momento mitico andrebbe in parte ridimensionato, sul piano estetico e su quello contenutistico. Dopo, la tv diventa tv, e allora della sua artisticità non si parla più, anzi non esiste. Certo, c’è Alfred Hitchcock, ma è un caso. La serialità vale in quanto specchio del Paese, o per la sua popolarità, ma difficilmente è analizzata come possibile forma d’arte. Quando arriva la nuova serialità, è la rivincita: tv di qualità, seconda età dell’oro. Nel 1996, in un libro stracitato, Robert Thompson spiega che la quality “è la versione televisiva del film d’arte” (8)R. J. Thompson, Television’s, cit, p. 13. La strada è in discesa: la serialità diventa di culto (9)M. Scaglioni, Tv di culto, Vita e Pensiero, Milano 2006, comincia a essere percepita come un oggetto artistico. Il boom arriva con le cable, con Hbo e con I Soprano. Ecco infine i servizi in streaming, capaci di mostrare un’immagine raffinata (Netflix e House of Cards) come di giocare sul terreno delle generaliste (Netflix e la nuova stagione di Una mamma per amica).
Adesso fare televisione è diventato prestigioso. Cominciano però i distinguo. Le serie cable o streaming paiono godere di un credito maggiore, perché non si tiene conto delle differenze strutturali rispetto ai network. Talvolta è solo una questione di marketing: basta sfruttare certi nomi di Hollywood, che però spesso si impegnano in modo limitato nella produzione seriale, senza un vero scatto in avanti stilistico. Naturalmente contano anche i soldi. Se fare tv vuol dire distinguersi, competere con cinema e videogame, ingaggiare nomi altisonanti, fare arte, bisogna alzare la posta, ed è impossibile farlo senza budget adeguati. Tutte le reti hanno cominciato a investire cifre prima impensabili e sempre più alte, per qualche osservatore ormai fuori controllo. Un incremento forse insostenibile per l’intero sistema.
Autore e opera, testo e contesto
Come per altre forme d’arte popolare, il concetto di creatività legata alla tv si è scontrato inizialmente sia con una visione ancora romantica della creazione artistica sia con la natura strettamente industriale, legata al successo di massa, della tv. Con l’epoca classica, è via via emersa come figura creativa quella del creator/producer, sovrapposta poi allo showrunner, capace di gestire ogni aspetto di una serie. Sono rari i casi di emersione mediatica di tale figura nell’epoca classica (Rod Serling, Gene Roddeberry, Norman Lear). È con gli anni Ottanta e soprattutto Novanta che il nome di chi fa tv diventa importante (Steven Bochco, David Chase, Chris Carter, J.J. Abrams, Shonda Rhimes, Lena Dunham). Oggi il creativo tv ha di fronte a sé un panorama multiforme, dalle infinite possibilità ma anche dalle infinte incognite. È un autore investito di autorità e prestigio, spesso però anche per una mancanza di gestione editoriale da parte dei committenti, talvolta editori acerbi. Non bisogna mai dimenticare la complessità del contesto che produce il testo complesso. Testo e contesto che poi si confrontano con l’unicità degli individui, come spiega lo showrunner di Mad Men Matthew Weiner: “Quando si è showrunner, si instaura una psicologia di gruppo con 5, 6 o 7 persone. Si cerca di diventare una sola mente, ma ognuno tende a esprimere se stesso, perciò il mio lavoro consiste nel focalizzare questi impulsi su quello che per me è interessante. È una sorta di terapia su se stessi” (10)Intervista rilasciata all’autrice nel 2013. Perché, al di là di ogni ricostruzione storica, la creatività ha sempre un aspetto umano, imprescindibile, affascinante e sfuggente.
Stefania Carini
Si occupa di cultura, media e brand. Collabora con il Post, la Radio Svizzera Italiana, il Corriere della Sera. Ha realizzato podcast (Da Vermicino in poi per il Post) e documentari per la tv (Televisori, Galassia Nerd, L’Italia di Carlo Vanzina). Ha scritto Il testo espanso (Vita e Pensiero, 2009), I misteri de Les Revenants (Sperling&Kupfer, 2015), Ogni canzone mi parla di te (Rizzoli, 2018), Le ragazze di Mister Jo (Mondadori, 2022). Il suo ultimo libro è Il coraggio di Oscar (Mondadori, 2024).
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