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Immaginari

Tutto il bello di Beautiful

Come funziona il racconto infinito della soap americana più popolare in Italia? Quali sono tutti i suoi segreti, dal Covid al finale che non c’è? La testimonianza di Bradley Bell, a capo di tutto quanto.

La famiglia è tutto. È quello che ha capito fin da ragazzo Bradley Bell, figlio di William J. Bell e Lee Philipp Bell, la cui impresa a conduzione famigliare consiste nel raccontare e produrre da anni, ogni giorno, senza fine, amori e dolori di altri famiglie immaginarie secondo il loro stile iperrealistico. I Bell hanno creato prima The Young and The Restless e poi The Bold and The Beautiful (1987), la soap che ancora oggi in Italia è sinonimo di soap. Oggetto di contese tra reti generaliste (dal 1990 va in onda in Rai, poi la scippa Mediaset, come ai bei tempi di Dallas), è immaginario condiviso di milioni di persone, non solo nel nostro Paese. Fa parte del bagaglio culturale sapere chi siano Ridge, Brooke, Taylor. Durante le elezioni del 2022, alla convention di Forza Italia a Napoli, Silvio Berlusconi si portò in giro Ron Moss, il Ridge dei primi anni: “Se fossi residente in Italia non avrei dubbi, voterei per lui”, diceva l’attore. Sul pubblico di elettori di Forza Italia la vecchia storica faccia di Ridge poteva fare ancora effetto.

Resistere alla pandemia

Ho intervistato più volte Bell, presidente della casa di produzione Bell-Phillip Television Productions Inc., head writer ed executive producer della soap. L’ho incontrato al Festival della Tv di Montecarlo, che negli anni si è trasformato anche in un set di Beautiful. Come Roma qualche mese fa: posti da sogno per far sognare il pubblico, anche perché la strategia è pensare al mercato locale ma coccolare tanto anche quello internazionale, perché all’estero continui a vendere molto bene. L’ultima intervista risale al 2022, nell’estate appena successiva alla lunga pandemia. Durante lo stesso festival, Bell è stato protagonista con il suo supervising producer, Casey Kasprzyk, di un panel professionale del festival. E durante questo incontro, Bell ha spiegato come la pandemia avesse stoppato la produzione della soap per la prima volta dal suo anno di nascita. Bell è poi stato uno dei primi a tornare sul set, e nel panel ha spiegato come scrittura e produzione siano state influenzate da quegli eventi.

Beautiful è un susseguirsi di storie d’amore e di sfuriate, e dunque di contatti, confronti e contrasti. Una volta tornati sul set, a pandemia non finita, è stato necessario evitarli il più possibile. Agli attori è stato imposto di recitare a distanza, ma quando il contatto è inevitabile, come nelle scene d’amore, si sono utilizzati manichini o si sono fatti venire sul set il compagno o la compagna del protagonista, che giravano la scena camuffati, con una parrucca. Trucchi certo, ma a monte è cambiata anche la scrittura: si pensavano le scene con soli due personaggi davanti alla macchina da presa, per gestire al meglio il distanziamento sociale. Niente feste, niente matrimoni!

Bell si chiede se sia possibile andare avanti anche con un solo attore in scena. Può una soap, fatta di contatti, confronti e contrasti, vivere di monologhi? Essere o non essere. Il monologo è spesso la lucida follia di un personaggio: e qui si capisce il riferimento alto. Soprattutto se dialoga con un manichino, credendo sia la donna che ama a causa di un trauma cranico accaduto qualche episodio prima: e questo è invece Beautiful. Si può sorridere, ma se lo spettatore se la beve, seppur con qualche sobbalzo… Un uomo e una bambola: in fondo Ryan Gosling è passato dall’amare una bambola gonfiabile in Lars a essere il Ken in Barbie. Ok, forse sto esagerando. Ma gli spettatori si sono divertiti, e pure Bell: “Non avrei mai scritto una trama simile se non fosse stato per il Covid!”.

Macchina infinita

Provateci voi a trovare soluzioni narrative e produttive ogni giorno per più di 35 anni. Ecco – gli chiedo nell’intervista a due – come è organizzata la sua scrittura? “La mia writing room è molto interessante, molto moderna… nel senso che non abbiamo una stanza e non ci vediamo mai! Alcuni sceneggiatori non li vedo da 15 anni: vivono principalmente negli Stati Uniti, ma in varie città. Sono sempre piuttosto introversi, sai, per natura. E non vogliono nemmeno stare in videoconferenza. Quindi semplicemente parliamo al telefono. Abbiamo lavorato per così tanto tempo insieme che riusciamo a capirci a vicenda, e loro conoscono bene i personaggi. Questa continuità nel corso degli anni è parte del nostro successo. Ho un capo sceneggiatore, Michael Minnis, con cui sono al telefono forse quattro ore al giorno. Sta ad Austin, in Texas. Discutiamo della soap, poi lui scrive un breve schema basato sulla nostra discussione, circa cinque pagine, e lo manda agli sceneggiatori che si occupano dei dialoghi, che ci lavorano su allo stesso tempo. Quando mi restituiscono i dialoghi delle scene io faccio un’ultima modifica”.

“A volte la guardo, la rivedo e sembra che funzioni, e si va avanti. A volte non funziona, allora la rendo più breve. Poi a volte, quando va in onda, vedo la reazione del pubblico online. Il pubblico è una parte importante di questo genere, che penso ci renda unici. Molto spesso vanno in onda serie di dodici episodi già girati, senza poter conoscere la reazione del pubblico. Mentre noi possiamo davvero ascoltarlo e adattare la storia sul pubblico, su quello che funziona”.

Bell pensa alle storie tutti i giorni, quasi tutto il giorno. E senza mai pensare a una fine, perché non esiste la fine in una soap. Considerate il punto più basso della produzione televisiva (tante puntate, storie ripetute, personaggi piatti, immagini banali), le soap incarnano però a modo loro il sogno della narrazione da Le Mille e una notte. Sono infinite nel senso che gli sceneggiatori non prevedono mai un termine. Se mai un giorno succederà, sarà per motivi di ascolti, o produttivi, o perché Bell si stuferà (ne dubito), e non perché avrà pensato a una fine, avrà cioè previsto e deciso una conclusione narrativa per le vicende delle loro eterne coppie di innamorati. Lo dichiara candidamente: “Non ho pensato a un finale, però magari nell’ultima puntata farò la mia prima apparizione nella soap”.

Il gioco è non finire mai: la soap è un genere paradossalmente sovversivo, è racconto che si genera costantemente, è uno specchio fittizio nel quale specchiarci per tutta la nostra vita ogni giorno. La soap è la personificazione dell’atto stesso di narrare, la nostra moderna Sherazade. Questa forma di gestione del tempo, il serial con intrecci mai chiusi da una puntata all’altra, è però proprio stata la scintilla che ha fatto fare il salto alle serie americane all’inizio degli anni Ottanta. Aprire il tempo ha aperto a personaggi complessi, al cast multiplo, a intrecci stratificati. Le serie di qualità sono soap di qualità, estremizzando.

Scrittura e produzione

La soap non è solo scrittura, è soprattutto materia produttiva, set, attori e attrici, e anche fan. Il lavoro di elaborazione del materiale è costante, messo alla prova giorno per giorno: “Non c’è una vera scienza. Molto spesso scrivo a Television City (lo studio di Cbs dove producono la soap, ndr). Scrivo, ma sto pure guardando cosa stanno girando al piano di sotto, per vedere se la storia funziona, se gli attori hanno chimica… A volte la guardo, la rivedo e sembra che funzioni, e si va avanti. A volte non funziona, allora la rendo più breve. Poi a volte, quando va in onda, vedo la reazione del pubblico online. Il pubblico è una parte importante di questo genere, che penso ci renda unici. Molto spesso vanno in onda serie di dodici episodi già girati, senza poter conoscere la reazione del pubblico. Mentre noi possiamo davvero ascoltarlo e adattare la storia sul pubblico, su quello che funziona”.

Una volta i fan scrivevano lettere e telefonavano, oggi è tutto più veloce con i social. C’è in questo rapporto così diretto e in diretta qualcosa di profondamente antico rispetto al binge watching di intere stagioni già pronte al consumo, quando e come si vuole. Di così antico, e di così televisivo: la scansione episodica giornaliera o settimanale, la visione condivisa, il tempo senza fine, l’aggiustare il tiro progressivamente, anche vedendo le reazioni di chi ti segue, sono proprio le caratteristiche che hanno reso la tv un mezzo potente, sempre più raffinato nel tempo. La tv di Bell è così vintage, eppure forse proprio per questo va avanti lo stesso, nonostante tutto: non passa di moda.

“Niente in televisione, o nel mondo, dura per sempre, suppongo”, ride Bell. “Ma noi siamo affidabili, e questo è confortante per lo spettatore: se accendi la televisione a un certo orario, sai che ci saremo, che vedrai persone che conosci, quasi un’estensione della tua famiglia. E proprio per questo sarai in grado di sfuggire a qualsiasi cosa ti stia preoccupando, e avere un po’ di teatro, intrattenimento e arte nella tua vita. Facciamo parte di quella tradizione televisiva che non solo vuole intrattenere, ma anche informare. Non lo facciamo spesso, ma siamo sempre pronti ad affrontare questioni sociali importanti. Il nostro messaggio è che siamo tutti umani, mentre navighiamo attraverso la vita”.

Il gioco è non finire mai: la soap è un genere paradossalmente sovversivo, è racconto che si genera costantemente, è uno specchio fittizio nel quale specchiarci per tutta la nostra vita ogni giorno. La soap è la personificazione dell’atto stesso di narrare, la nostra moderna Sherazade.

Quella volta in cui Stephanie divenne una senzatetto, e la soap mostrò le condizioni degli homeless a Los Angeles. Quella volta che Maya dichiarò di essere una donna transgender, proprio mentre i temi entravano nel dibattito americano. Il fulcro della storia però è sempre uno: “stories of romance”, storie di relazioni famigliari, perché la serie deve essere un’estensione (spesso iper-realistica) delle famiglie degli spettatori. Come sanno tutte le famiglie, la questioni economiche non vanno sottovalutate. E pure quando la tua famiglia produce una soap, e deve vedersela con nuovi generi meno costosi, come i reality. Così per esempio a un certo punto le sceneggiature sono state scritte in modo da risparmiare sui set: invece di montarli e rimontarli, se ne tengono fissi sempre il 50%, eliminando quelli inutilizzati. “Ci sono sempre modi per rendere la produzione più efficiente, e poter competere con gli altri programmi. In fondo è la chiave ultima del nostro successo: un modello di business funzionante. E l’abbiamo fatto, penso, senza sacrificare la qualità. Scriviamo senza sosta, gli orari di produzione sono impregnativi, gli attori imparano a memoria in fretta, non abbiamo teleprompter, tutto è nella loro testa… È una sinfonia ben orchestrata di tante parti in movimento”.

Artigianato

Beautiful è tv artigianale, tv da bottega di famiglia, tv vintage: “È una grande gioia far a parte di un gruppo di lavoro molto unito. Molti non riescono a credere che facciamo questo lavoro da così tanti migliaia di episodi e da così tanti anni. Penso che questo lo renda speciale, unico”, spiega ancora Bell. Beautiful dunque racconta la famiglia per le famiglie a casa. Ed è una delle ultime produzioni di famiglia a Hollywood, la famiglia Bell e per esteso tutti quelli che lavorano con Brad. Beautiful è un prodotto all’antica, dunque, per storia, formato, metodo di produzione, modello di business e contenuto.

Quando mi sono congedata da Bell, l’ho ringraziato per le sue storie, oggetto di visione e discussione anche nella mia, di famiglia. Quella discussione condivisa fatta di argomenti leggerissimi, che tiene il filo dei pranzi dopo anni e anni. Un filo che vale anche per tante altre famiglie, quelle degli amici – ne ho uno che si rivede le vecchie puntate, quindi quando ci vediamo mi fa l’analisi comparata tra le diverse linee narrative. In un’epoca da buffet mediale senza fine, in cui si mangia quel che si vuole, in maniera personalizzata, scegliendo tra una miriade di piatti, la persistenza della soap dimostra che certe regole della tv di un tempo non sono destinate a scomparire: “Beautiful è come un abito su misura, che calza perfettamente. Il buffet è meraviglioso ma a volte, sai, trovi qualcosa che ti piace che poi sparisce. Noi invece siamo gli spaghetti d’epoca, comfort food, la cui ricetta non è cambiata poi tanto”. Semplice: dopo tutto ciò che ho assaggiato per il mondo, almeno una volta a settimana voglio la cucina di casa mia.


Stefania Carini

Si occupa di cultura, media e brand. Collabora con Il Post, la Radio Svizzera Italiana, Corriere della Sera, Il Foglio. Ha realizzato podcast (Da Vermicino in poi per Il Post) e documentari per la tv (Televisori, Galassia Nerd, L'Italia di Carlo Vanzina). Tra le sue pubblicazioni, Il testo espanso (2009), I misteri de Les Revenants (2015), Ogni canzone mi parla di te (2018), Le ragazze di Mister Jo (2022).

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