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Fallimenti

Il Top dei flop

Anche gli insuccessi, piccoli o grandi, qualche volta vanno in classifica. In una top ten al contrario, ecco una selezione di casi di scuola del fallimento.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 24 - Flop. Il fallimento nell'industria creativa del 03 dicembre 2018

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“È stata un’immensa fregatura, ci hanno preso tutti per i fondelli”. “Questo è il mezzo che le grandi imprese di software usano per fare i soldi”. “Qualcuno ha un’idea su come usare le duemila confezioni di carne in scatola che ho comprato?”. Erano i primi giorni del Duemila, e messaggi come questi riempivano i newsgroup sparsi in rete. L’oggetto in comune era il millennium bug, quel potenziale difetto informatico che si manifestò, al cambio di data della mezzanotte tra venerdì 31 dicembre 1999 e sabato 1º gennaio 2000, nei sistemi di elaborazione dati dei pc e dei mainframe che, programmati in tempi in cui le risorse di sistema erano scarse, contenevano solo le ultime due cifre dell’anno, con il rischio quindi che il passaggio del millennio mettesse in crisi i sistemi informatici.

Il millennium bug (conosciuto anche come Y2K bug), fortemente anticipato tra scalpore e allarmismo da media e opinione pubblica, si rivelò poi di minor portata del previsto, piuttosto circoscritto. Le principali reti, le grandi testate giornalistiche e le agenzie informative internazionali seguirono costantemente gli sviluppi dei lavori per risolvere il bug informatico, mettendo alla luce i possibili rischi. Ma il bug non è stato solo il primo flop del XXI secolo: ha rappresentato l’archetipo di una nuova forma di flop, che mette insieme tecnologia e frammentazione, rapporto uomo-macchina e (disinter)mediazione. Tutte caratteristiche che contraddistingueranno i neo-flop del millennio che cominciava.

In effetti, come è avvenuto in tanti altri contesti, anche i flop nel tempo sono profondamente mutati, tanto che forse dovremmo trovare un’altra denominazione. Ci sono stati cambiamenti nella natura dei flop, nelle quantità e pure nella loro percezione da parte dell’opinione pubblica. Quindi, cos’è un flop oggi? Come lo riconosciamo? Su quali basi? Il disastro finanziario è sempre la discriminante principale?

In uno scenario così complesso e pieno di nuove variabili e incognite, abbiamo provato a fare una classifica dei flop più clamorosi del millennio. Una classifica aperta, totalmente soggettiva e puramente indicativa, dove non ci sono né leader né follower, newcomer e grandi classici, ma tante domande aperte e casi di successo clamorosamente mancato. Perché se è vero che, come diceva Henry Ford, il fallimento è semplicemente un’opportunità per diventare più intelligenti, allora guardiamo a questi flop e, analizzandoli, troviamo un modo laterale per raccontare i primi anni del terzo millennio. Ovviamente, lasciando fuori dalla porta proprio il millennium bug.

1. 
Google Glass (2012-2014)
 o della “visione fallita”

Breve premessa: le altre posizioni di questa classifica sono intercambiabili, ma non la prima. Se Google è di fatto la società più importante di questo inizio millennio, allora il tentativo fallito di estendere il suo dominio nel punto più vicino alle nostre pupille rappresenta il flop più rilevante di tutti. Gli occhiali progettati da Mountain View per la realtà aumentata, spinti per oltre due anni, avevano l’evidente difetto di essere eccessivamente invasivi, nonché lesivi della vista – Google invitava gli utilizzatori dei prototipi a non usarli troppo a lungo, in quanto la vicinanza del display all’occhio affaticava il nervo ottico e provocava mal di testa. Per non parlare dei problemi connessi alla privacy: era già implementata un’app che poteva interpretare le espressioni di chi ci sta di fronte. Last but not least, il prezzo: 1500 dollari, invece degli annunciati 550, per un prototipo, seppur avveniristico, erano piuttosto proibitivi.

2. 
John Carter (2012) 
o il flop vecchio stile targato Disney

In una classifica che includesse i flop della seconda metà del Novecento, avremmo trovato almeno quattro o cinque kolossal hollywoodiani, dai budget faraonici e dagli scarsi risultati al botteghino. Nell’epoca del controllo totale e della riduzione del rischio, John Carter fa ancora parte della categoria. Con i suoi 500 milioni di dollari di spesa complessiva, il titolo Disney diretto dal regista di Wall-e è il secondo film più costoso della storia (dopo Avatar). Sei mesi per girarlo, due anni per post-produrlo con 800 persone che hanno dovuto ricreare virtualmente ben 1900 scene. L’incasso nel primo weekend è “solo” di 30 milioni di dollari, poi va peggio. Senza grandi star e con una storia fantascientifica che mescola passato e universi paralleli, non affascina gli adulti, non attrae i bambini e tiene alla larga i teenager. Tratto da un ciclo di racconti (Sotto le lune di Marte) scritto negli anni Venti dal creatore di Tarzan Edgar Rice Burrough, che già al tempo pensava di adattarlo in film, per decenni nessuno ci è riuscito. Un motivo ci sarà stato. [Ultim’ora: dalla Cina arriva Asura, film prodotto da Alibaba costato 113 milioni di dollari, che nel primo weekend ne ha guadagnati appena 7, ed è stato subito ritirato dal produttore per apportarvi delle modifiche. Insomma, to be continued].

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3. 
TV 3D (2017)
 o del futuro della tv che non passava da lì

L’edizione 2017 del Consumer Electronics Show (CES), la fiera dell’elettronica di consumo di Las Vegas dove sono presentate le principali novità hi-tech, ha decretato la morte definitiva della tv 3D per il mercato consumer così come era stata proposta, con l’uso di occhiali attivi o passivi. Negli anni molti produttori di televisori e broadcaster ci hanno investito sopra parecchie risorse: tutta l’alta gamma supportava il 3D e molti, Sky in primis, avevano creato canali appositi. Il più grande problema consiste nel mezzo utilizzato per fornire gli effetti di profondità delle immagini: il grande pubblico non ha mai gradito gli occhiali 3D, specialmente quelli attivi che provocano un affaticamento visivo. Le produzioni native negli anni sono state sempre più scarse, e i film girati in 2D, poi convertiti in 3D, avevano performance non soddisfacenti. In breve tempo il 3D, da motore del marketing dei nuovi modelli, è diventato funzione accessoria, per arrivare al 2017 dove anche i marchi più intransigenti come Sony e LG l’hanno abbandonato.

I flop nel tempo sono profondamente mutati, tanto che forse dovremmo trovare un’altra denominazione. Ci sono stati cambiamenti nella natura dei flop, nelle quantità e pure nella loro percezione da parte dell’opinione pubblica. Quindi, cos’è un flop oggi? Come lo riconosciamo? Su quali basi?

4. 
Segway (2001-2010)
 o il sogno infranto di una nuova mobilità

Oggi dovremmo tutti stare in sella al Segway, il biciclo auto-bilanciante che combina informatica, elettronica e meccanica, frutto di un’idea di futuro fantascientifico anni Cinquanta. Non è successo: oggi è diventato una battuta, un mezzo usato prevalentemente dalle guardie di sicurezza dei centri commerciali per evitare il mal di piedi o da qualche tour turistico sfigato in città. All’inizio si doveva chiamare Ginger, poi per motivi di licenze si è trasformato nel meno sexy Segway. Ma il problema non è certo il nome o la tecnologia, ma questioni pratiche e sociali. Troppo veloce per i marciapiedi, troppo lento per stare su strada. Era solo un prodotto, non una soluzione con strutture e norme a supporto del contesto. Non aveva un target specifico, era pesantissimo e costosissimo (come un’utilitaria). E poi le aspettative erano troppo alte: i venture capitalist predissero che sarebbe stato il più veloce raggiungimento del miliardo di dollari di fatturato della storia, con 10.000 pezzi venduti a settimana, mezzo milione in un anno. Ma in sei anni sono state vendute solo 30.000 unità. E dopo il danno, la beffa: nel settembre 2010 Jimi Heselden, del team di sviluppo, testando un nuovo tipo di biciclo “fuoristrada” è precipitato in un dirupo, morendo tragicamente.

5. 
Chinese Democracy dei Guns & Roses (2008) 
o l’insuccesso del successo annunciato

È il 1996 quando, per la prima volta, si sente parlare di Chinese Democracy, il prossimo disco dei Guns & Roses, la rock band di maggiore successo di quel tempo, capitanata da Axl Rose e Slash che però, praticamente, non si parlano quasi più. Il materiale c’è: una demo è pronta, serve solo entrare in studio, fare una selezione dei provini e registrare. Il disco deve uscire nel 1999 per festeggiare la fine del millennio, ma il cantante Axl, l’unico che tiene molto al disco, è un paranoico perfezionista e vuole sempre modificare qualcosa, litiga con tutti, sostituisce i musicisti. Le registrazioni si moltiplicano. Intanto fuori c’è l’apocalisse, il peer to peer sconvolge l’intero mercato, ed è da lì che spuntano alcune demo inedite. Ogni due-tre anni è annunciata l’uscita, poi rapidamente disannunciata. Alla fine, dopo dodici anni, Chinese Democracy arriva: il disco non è brutto, ma dopo tanta febbrile attesa non interessa più a nessuno, men che meno alla casa discografica che non fa promozione né produce videoclip. Cinquecentomila copie vendute negli Stati Uniti e tre milioni nel resto del mondo: numeri da flop per quello che era il disco più atteso della storia del rock.

Se è vero che, come diceva Henry Ford, il fallimento è semplicemente un’opportunità per diventare più intelligenti, allora questi flop sono un modo laterale per raccontare i primi anni del terzo millennio.

6. 
Microsoft Media Center (2002-2005) 
o dell’assertion failed

L’ossessione di molti big player dell’hi-tech è sempre stata quella di portare il pc in salotto e quindi sul televisore di casa. Microsoft Media Center riprende il vecchio concetto di “portale”, applicato al mondo dell’entertainment: un solo hub dove concentrare l’intrattenimento familiare. Non solo il concetto era sbagliato (ciao, sono la mobilità), ma in più aveva molti bug. Sebbene il WMC abbia debuttato nel 2002, l’aggiornamento di Microsoft del 2005 è stato il fallimento più imbarazzante della società di Redmond. Rimane storica l’intervista che Conan O’Brien fece a Bill Gates per presentare il rinnovato device, perché la prova prodotto fu costellata da demo fallimentari, comandi che non partivano e agghiaccianti schermate blu (“Out of System Memory”). “Non so chi gestisca le cose qui”, scherzò O’Brien di fronte a Gates, “chi è il responsabile di Microso… Oh”. Dopo oltre un decennio Microsoft ci ha riprovato, fallendo ancora, proponendo Xbox come nuovo hub dell’intrattenimento.

7. 
Flash Forward (2009-10)
 o come si è potuto perdere il nuovo Lost

Lost è stata la serie tv di maggiore impatto. Su Abc per sei stagioni e 121 episodi, è diventato un fenomeno di costume. L’obiettivo dei network era quindi realizzarne l’erede, un prodotto corale basato su misteri sempre più complessi. Mentre è ancora in onda Lost, proprio Abc frega tutti rilanciando con Flash Forward, serie ispirata all’omonimo romanzo di fantascienza dello scrittore canadese Robert J. Sawyer. Il plot è potentissimo: per due minuti, tutti gli esseri umani perdono conoscenza e vedono quello che accadrà loro sei mesi dopo. Il problema degli sceneggiatori però è andare avanti da lì. Personaggi piatti o improbabili, spesso odiosi, scene WTF, assenza totale di trama verticale, ma solo l’avanzamento sconclusionato di quella orizzontale. Gli ascolti calano sempre più, fino all’annuncio della cancellazione, che beffardamente arriva dieci giorni prima dell’ultima puntata di Lost.

8. 
Samsung Galaxy Note 7 (2016) 
o dello smartphone che spacca, 
anzi scoppia

Doveva essere il modello di phablet (crasi tra phone e tablet) che avrebbe rilanciato il colosso sudcoreano in un mercato dominato dagli americani di Apple e insidiato dai cinesi di Huawei, se non fosse che i primi modelli in commercio presero fuoco. La colpa era delle dimensioni delle sottilissime batterie rispetto allo chassis, che innescavano processi di surriscaldamento. Lanciato nell’agosto 2016 con un massiccio battage pubblicitario, nel giro di pochi mesi è stato ritirato dal mercato e la produzione si è fermata. Ma soprattutto è costato a Samsung circa 10 miliardi di dollari, oltre a una notevole perdita di credibilità per il brand e per tutti gli altri prodotti. Fosse solo che, per oltre un anno, steward e hostess negli aerei di linea nelle comunicazioni di servizio prima del decollo citavano espressamente il modello Galaxy Note 7 tra quelli che dovevano essere consegnati al personale di volo per evitare complicazioni.

9. 
Vinyl (2016)
 o del flop d’autore

Prendi uno script di Terence Winter sull’ascesa del rock e del punk nella New York degli anni Settanta, fai dirigere il pilota a Martin Scorsese, fai co-produrre e supervisionare il tutto a Mick Jagger e prendi un paio di volti che bucano lo schermo (Bobby Cannavale, Olivia Wine e un irriconoscibile ma irresistibile Ray Romano). Hbo ha pensato che tutto questo bastasse a garantire il successo della serie, ma gli ascolti del pilot a seguito di un battage pubblicitario importante sono disastrosi: 764.000 spettatori (Hbo ha 36 milioni di abbonati). Poi la media si è un po’ rialzata (1,1 milioni, includendo le visioni in differita) e il network a fine febbraio ha rinnovato la serie per una seconda stagione, ma già a giugno ha deciso di non produrre più nuovi episodi e cancellato definitivamente la serie. La musica rock applicata alle serie tv è sempre stato un mezzo fallimento (vedi anche Roadies di Cameron Crowe). Quanti soldi sono stati spesi? 100 milioni di dollari!

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10.
 Juicero (2017) 
o della sòla dei succhi di frutta 2.0

Una startup di San Francisco raccoglie ben 120 milioni di dollari di finanziamento da 17 investitori, tra cui Google Ventures, Kleiner Perkins e Campbell Soup Company, per rivoluzionare il mercato delle spremute e degli estratti di frutta (un bisogno non richiesto, peraltro). Il Juicero è una macchina spremitrice venduta al prezzo di 699 dollari, che funzionava con sacchetti che contengono frutta già pulita e tagliata prodotti dalla stessa azienda, un po’ come si fa con le capsule della macchina per il caffè. Tutto bene – l’inventore Jeff Dunn intanto se la tira come un novello Steve Jobs – fino a quando non esce l’articolo di Bloomberg che rivela che i sacchetti possono essere usati anche senza spremitore. Dunn si difende sostenendo l’esperienza Juicero, che non è un estrattore come gli altri, ma è più semplice da pulire ed è connesso, quindi avvisa l’utente se i succhi di frutta che ha in dispensa stanno per scadere; ma taglia il prezzo da 699 a 399 dollari e si rende disponibile a rimborsare la differenza a chi lo aveva già acquistato. E il business si è fatto di colpo molto meno sostenibile.


Michele Boroni

Scrive per Il Foglio, Wired, Il Messaggero, Rockol e Studio. Si occupa di contenuti e comunicazione per brand. Un tempo aveva un blog, ma gli è rimasto solo il nome – EmmeBi – con cui firma i suoi tweet. È stato autore tv e radio (tra gli altri Ghiaccio Bollente su Rai5 e Ogni Maledetta Domenica su Radio2) e ha scritto alcuni saggi sul marketing, ma sono tutti fuori catalogo.

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