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Serie tv

“Salta l’intro” e il senso delle sigle di apertura

La lunga storia e l’arte dei titoli di testa, tra cinema e tv, sembra infrangersi con la possibilità di saltare quella sequenza offerta dalle piattaforme. A ben guardare, però, il valore di un buon inizio resta.

C’è un bottone che descrive la contemporaneità meglio di tanta letteratura, e la cui funzione sta a metà strada tra la comodità e il crimine: il tasto “salta l’intro”, skip intro. Appena parte la sigla della serie tv, nell’angolo dello schermo compare una didascalia che permette di saltare i titoli di testa e passare direttamente all’inizio dell’episodio. In quel rettangolo diventato consuetudine delle piattaforme di streaming sono impacchettate tutte le nostre noie, le nostre nuove soglie dell’attenzione, i nuovi modi in cui si guarda la televisione. Lo si fa perché, vista una volta, la sigla diventa elemento noto su cui sembra inutile tergiversare, e forse “salta l’intro” combatte anche una certa strapotenza di quel segmento, che negli anni si è ingigantito al punto da diventare un piccolo film, la cui visione ripetuta può andare a noia. Negli anni in cui i titoli di testa sono diventati produzioni colossali e sofisticate, lo spettatore può reciderli con la precisione di un chirurgo che suda sopra un torace aperto.

Nascita e sviluppo di un tassello audiovisivo

I titoli di testa nascono nel cinema come mera funzione, per segnalare i nomi del cast artistico e tecnico. Un pro forma, in ogni caso. A chi importava sapere chi aveva curato i costumi di Com’era verde la mia valle? Erano talmente poco considerati che nei cinema erano proiettati direttamente sul sipario, prima che venisse aperto, a luci accese. 

Ma negli anni Cinquanta l’arte di nuovi creativi che si stavano affacciando sulla scena, come Saul Bass (uno dei padri dei titoli di testa, famoso per lo stile geometrico, spesso squadrato nelle forme, ed essenziale), produsse consapevolezza nei registi. Bass, che era un designer di loghi e poster, fu chiamato a creare la locandina per il film Carmen Jones di Otto Preminger. Al regista piacque talmente tanto da affidargli anche i titoli di testa. La collaborazione tra i due proseguì con capolavori come L’uomo dal braccio d’oro e Anatomia di un omicidio. La raffinatezza di Bass colpì a tal punto che Preminger pretese che tutti i cinema proiettassero Anatomia di un omicidio dall’inizio senza sipario e a luci spente, per permettere agli spettatori di ammirare la sequenza dei titoli ed entrare nell’atmosfera del film. I registi scoprirono di avere un’arma potente nel proprio arsenale manipolatorio, Bass iniziò a essere conteso tra Alfred Hitchcock, Billy Wilder e Stanley Kubrick, e nacque una nuova figura professionale. 

In quel rettangolo diventato consuetudine delle piattaforme di streaming sono impacchettate tutte le nostre noie, le nostre nuove soglie dell’attenzione, i nuovi modi in cui si guarda la televisione. Lo si fa perché, vista una volta, la sigla diventa elemento noto su cui sembra inutile tergiversare. Negli anni in cui i titoli di testa sono diventati produzioni colossali e sofisticate, lo spettatore può reciderli con la precisione di un chirurgo che suda sopra un torace aperto.

Mentre il cinema stava vedendo nascere un’era dell’oro dei titoli di testa, il piccolo schermo faticò a cogliere l’antifona. Dato che le serie tv erano spesso appuntamenti autoconclusivi, non bisognosi di una fedeltà costante nel tempo, la sigla era anche il modo per riassumere le premesse del programma per gli spettatori più disattenti o per quelli che vi incappavano per la prima volta. Non c’era bisogno di fare troppi sofismi ma di andare dritti al punto, mostrando i personaggi principali e facendo intuire le dinamiche narrative tra di loro. Qualche produzione si concedeva lo sfizio di aperture animate, come Vita da strega, che raccontava tutto quello che c’è da sapere sulla storia in meno di un minuto. Negli anni successivi, le sigle rimanevano impresse più per le canzoni o i motivi musicali più che per le immagini, spesso ridotte a montaggi goffi e prolissi, fino ad arrivare agli estremi di Seinfeld, la cui sigla si riduce a una essenzialissima linea di basso. C’erano le eccezioni (Cin cin per esempio provava a fare qualcosa di visivamente interessante mostrando immagini retrò di convivialità da bar, mentre i giovanilistici Willy, il principe di Bel-Air e Beverly Hills 90210 avevano già una mentalità da video musicale), ma la tendenza era di andare a risparmio. Cosa comunque accaduta anche nel cinema: dopo un’iniziale ubriacatura, negli anni Settanta i cineasti si accorsero che i segmenti erano costosi (la saga della Pantera Rosa è aperta da animazioni, per niente economiche, di Richard Williams) e, nelle mani sbagliate, assomigliavano più a un vezzo che a una necessità.

Negli anni Novanta i titoli di testa creativi conobbero una rinascita – stimolata dalla brillante sequenza introduttiva di Seven realizzata dal designer Kyler Cooper, e dall’arrivo di software che abbassarono i costi – e la tv, che nel frattempo aveva diversificato la propria offerta ed era diventata anche alta, di qualità, con budget e idee degni del loro nome, prese appunti. Ecco che da lì a poco I Soprano esordì con una sigla in cui, sulle note di “Woke Up This Morning” degli Alabama 3, Tony Soprano guida tra le strade del New Jersey. Lo vediamo a malapena, la cinepresa gli preferisce i paesaggi industriali o malfamati della periferia, fino al termine dei titoli, quando Tony si mostra a tutto schermo. Nello spazio di un brano abbiamo già capito il tono e il tema della serie: un viaggio per scoprire il vero volto del protagonista. Come per tante altre cose, I Soprano fu un apripista per sequenze sempre più elaborate.

Forme e funzioni

“Il mio primo pensiero quando si parla di un titolo di testa”, disse Bass in un’intervista del 1996, “è impostare un umore e veicolare il nucleo della storia, esprimerlo anche in maniera metaforica. È un modo per influenzare il pubblico, in modo che quando inizia il film gli spettatori abbiano già una risonanza emotiva con la storia”. I titoli di testa sono un paratesto, qualcosa che sta fuori dall’opera eppure la rappresenta, come la copertina di un libro. Contribuisce al significato del testo primario, stabilendo aspettative, creando un contesto, un’atmosfera che può giocare di assonanza o di contrasto. I piacevoli titoli di testa di Prova a prendermi, con le grafiche anni Sessanta e la musica da giallo leggero, celano la profonda tristezza della storia. L’ammaliante intrigo di corpi, cavi e petrolio che, al ritmo di “Immigrant Song” eseguita da Karen O, apre Uomini che odiano le donne prepara lo spettatore a un viaggio per nulla accomodante. E le fioriture al neon di Cinque giorni al Memorial fanno diventare visivamente accattivante anche una storia drammatica e cupa.

Apple vende prodotti ma soprattutto status sociali, stile, accessori. E quale accessorio migliore, per una serie tv, della sua sigla? Non è un caso che a curare i titoli delle produzioni Apple sia quasi sempre Imaginary Forces, il più famoso studio specializzato nella creazione di titoli di testa, che ha preso l’eredità di Bass e l’ha rilanciata nel nuovo millennio.

Nei primi anni Duemila i titoli più belli rimasero appannaggio delle reti via cavo che potevano permettersi di essere laterali e grandiose (Dexter, Mad Men, Halt and Catch Fire, True Detective), e quando gli Emmy dovevano candidare qualcuno per i migliori titoli di testa spesso pescavano dai programmi comici o dai documentari per la tv per penuria di papabili. Ma poi anche i network capirono il potenziale: nei titoli della popolare Big Bang Theory ci viene raccontata l’origine dell’universo in trenta secondi, e vediamo il cast protagonista per una frazione di secondo, ma la sequenza è efficace nel farci capire che la serie parlerà un po’ di scienza, sarà giocosa, ironica e rapida negli scambi. Siamo arrivati al punto in cui le sequenze sono meglio della serie (come quella di Vinyl, un’incredibile montagna russa che porta lo spettatore dentro il suono) e, scorporate dall’episodio, diventano un volano promozionale.

E le piattaforme

I titoli di testa sono quindi un elemento forte per raccontare ma anche per vendere una serie. Di tutte le reti – televisive o streaming – quella che si è più impegnata in questo senso è Apple Tv+. Coerente con i propri principi, Apple vende prodotti ma soprattutto status sociali, stile, accessori. E quale accessorio migliore, per una serie tv, della sua sigla? Non è un caso che a curare i titoli delle produzioni Apple sia quasi sempre Imaginary Forces, il più famoso studio specializzato nella creazione di titoli di testa, che ha preso l’eredità di Bass e l’ha rilanciata nel nuovo millennio. L’apertura di Morning Show, la prima serie a uscire dalla scuderia Apple, è stilizzata, con una canzone che fa subito presa (“Nemesis” di Benjamin Clementine) e sembra uno spot per l’iPhone; la space opera Fondazione è introdotta da una serie di costruzioni fatte di sabbie colorata – la stessa che nella serie è utilizzata per il murales che racconta la storia dell’impero galattico; i titoli di WeCrashed, il racconto di una start-up di co-working che punta a diventare un unicorno, termine per indicare le aziende valutate un miliardo di dollari, mostrano un unicorno trottare fra gli uffici della start-up finché il corno cade a terra infrangendosi in mille pezzi. Sono tutte idee visivamente ricche, patinate e ammalianti. Quest’anno, ai premi Emmy per i migliori titoli di testa, Apple vantava quattro candidature sulle sette totali e ha vinto il premio grazie a Scissione, la cui trama fantascientifica di un uomo che vive due esistenze separate è condensata in una sequenza dove una versione in miniatura del protagonista è inseguita da una melassa oscura. 

Dall’altra parte dello spettro, inaspettatamente, c’è Disney+. I due franchise più grossi del colosso – Marvel e Star Wars – preferiscono sigle assenti o al limite dell’omeopatico. La spiegazione è forse insita nelle origini cinematografiche di entrambi i franchise. Le serie tv Marvel rispettano il modello dei film e realizzano lunghe e affascinanti sigle tv (su tutte, WandaVision, un gioco di tessere luminose che compone oggetti e luoghi) mettendole alla fine dell’episodio. The Mandalorian, The Book of Boba Fett, Obi-Wan, invece, come faceva George Lucas con i film della saga, lavorano di sottrazione, per non spezzare la magia del mondo alieno con la burocrazia umana. Nell’era dello streaming, i titoli di testa nella tv non sono più un orpello artistico lasciato alla decisione degli autori ma un’affermazione di stile da parte della piattaforma che lo trasmette, una linea editoriale precisa. Come scrivono Ben Travers e Steve Greene su IndieWire, le sigle “svettano sul resto del panorama televisivo, unendo musica, azione e immaginari per creare sequenze che il pubblico non vede l’ora di guardare e riguardare. Non servono più a elencare i nomi dei realizzatori, dettano un tono e uno standard”. Insomma, la qualità è alta al punto che, forse, al prossimo “salta l’intro” il dito esiterà un momento prima di fare la propria scelta.


Andrea Fiamma

Scrive (soprattutto) di fumetti, cinema e tv su Fumettologica, Rivista Studio e The Comics Journal.

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