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Pubblicità

Risate spot

Cosa succede quando i comici si sostituiscono ai creativi? Negli Usa si sperimentano forme e linguaggi, e anche in Italia qualcosa si muove. Da Checco Zalone ai The Jackal.

“Gradini invisibili… Possono non piacere!”: alzate la mano se non avete riso ad almeno un soggetto della nuova campagna Lavazza, quella interpretata da Maurizio Crozza nelle vesti dell’architetto Fuffas, che cui tenta di progettare un nuovo design per il Paradiso. È una delle tante pubblicità che da anni, a periodi, ci strappano un sorriso, come fossero un semplice e compatto prodotto di intrattenimento.

La comicità ha una lunga e fortunata tradizione in pubblicità. In particolare, la commedia all’italiana rappresenta il referente di tanti spot di successo. I motivi sono elementari: la pubblicità rappresenta una delle voci tramite cui le merci parlano, con il fine ultimo di creare un goodwill nei confronti del prodotto presentato e, come diceva Roland Barthes nel suo Critica e verità, essendo anche la pubblicità soggetta a un processo di deideologizzazione, attraverso la gag, la barzelletta o la battuta a effetto si raggiunge rapidamente l’obiettivo. In altri termini, se il pubblicitario innesta il buonumore all’interno della sua creatività, riesce a coinvolgere il registro emotivo del pubblico, mantenendo viva l’attenzione e inibendo eventuali contro-argomentazioni. L’umorismo, più che nella risata grassa, trova quindi nel sorriso, nella strizzata d’occhio o nella condivisione di una comune enciclopedia di significati e significanti la sua naturale espressione. Così accade, o almeno dovrebbe accadere, nel settore pubblicitario.

Tradizioni nazionali differenti

A differenza dell’advertising che proviene da Gran Bretagna e Stati Uniti, ma negli ultimi anni anche da Paesi come il Brasile e il Sudafrica, la nostra pubblicità nazionale appare spesso troppo conservatrice, arroccata su se stessa, fortemente autoreferenziale: solo raramente utilizza appieno l’artificio retorico dell’umorismo, o quello più caustico dell’ironia. Sono gli stessi pubblicitari ad ammetterlo, e la prova è la scarsa presenza italiana ai premi internazionali di settore, come quelli di Cannes. In fondo la pubblicità ideata e realizzata in Italia, specialmente quella televisiva, è ancora figlia di Carosello, e quindi di un linguaggio discorsivo, ridondante, poco sintetico e allusivo. Impossibilitati quindi a utilizzare l’ironia – spesso anche frenati dagli inserzionisti, paralizzati da timori che finiscono per ostacolare ogni tentativo di dar nuova linfa creativa alla comunicazione –, ecco che i pubblicitari preferiscono utilizzare altre espressioni dell’umorismo, come la parodia e la comicità.

Ma la pubblicità che fa ridere, alla fine, funziona? Ho interrogato un po’ di amici e conoscenti non del settore, semplici consumatori (un’odiosa parola purtroppo ancora troppo spesso presente), chiedendo loro se ricordavano qualche pubblicità umoristica del passato più o meno recente. Molti silenzi, risposte vaghe (“beh, qualche vecchio Carosello…”), il già citato e recente Crozza, e qualche spot seriale delle compagnie telefoniche, da quello di Massimo Lopez nelle vesti del condannato alle prese con “la telefonata che ti allunga la vita” (era ancora la Sip) o quelle di Fiorello e Mike Bongiorno per Wind. Ma se lo spot pubblicitario non ha la forza di esser ricordato, associato alla promessa di un prodotto, perde la sua funzione primaria. Il testimonial resta ancora la costante delle pubblicità che utilizzano l’umorismo come principale elemento retorico. Nessuno ricorda o cita una battuta o una frase ironica di uno spot tv che non sia pronunciata da un attore comico o un cabarettista. Ma l’impressione è che spesso anche il testimonial più efficace e professionale resti ingabbiato nella liturgia pubblicitaria, fatta di brief incomprensibili e rational, logiche di agenzia e osservazioni “lato cliente”.

Se il pubblicitario innesta il buonumore all’interno della sua creatività, riesce a coinvolgere il registro emotivo del pubblico, mantenendo viva l’attenzione e inibendo eventuali contro-argomentazioni. L’umorismo, più che nella risata grassa, trova quindi nel sorriso, nella strizzata d’occhio o nella condivisione di una comune enciclopedia di significati e significanti la sua naturale espressione.

Disruption e disintermediazione

Da qualche anno, pertanto, secondo quella logica disruptive, di disintermediazione, che ormai sta interessando tutti i settori, attori, comici e creator del web sono stati coinvolti direttamente all’interno del processo creativo pubblicitario. I primi esempi si sono presentati ovviamente negli States: i protagonisti di Saturday Night Live, dopo anni e anni passati a fare sapide parodie e fake di spot tv, (ndr: prendere eventualmente) sono stati direttamente coinvolti nella creazione di commercial. Nella nuova stagione (la 42sima, ora in onda) la Nbc ha ridotto i break pubblicitari del 30 per cento, sostituendoli con contenuti originali creati con gli inserzionisti, praticamente del native advertising televisivo. Lo stesso stanno facendo Jimmy Fallon con General Electric e Jimmy Kimmel con Western Union. Durante l’ultimo SuperBowl è stato presentato il primo di una serie di spot sulla creazione di un fantomatico partito della birra, scritto e interpretato dai comici Seth Rogen e Amy Schumer con la loro verve ai confini con il demenziale.

Ma anche in Italia si sono fatti i primi piccoli passi, agendo ancora in una nicchia ma generando una certa eco. Il comico Checco Zalone ha ideato e realizzato con la sua casa di produzione e lo stesso team di lavoro del suo ultimo film Quo Vado uno spot a favore della raccolta fondi di Famiglie SMA, onlus composta da genitori di bambini affetti da Atrofia Muscolare Spinale. Attraverso il suo linguaggio provocatorio e assai poco pubblicitario è riuscito a convincere tutti che solidarietà e donazione si possono sollecitare non solo con le lacrime, ma anche attraverso la risata, muovendosi su un crinale molto delicato e tuttavia riuscendo nello scopo. In questo spot nessuna agenzia pubblicitaria è stata coinvolta, se non per la pianificazione media.

Un altro caso, più simile agli esempi d’Oltreoceano, è quello della collaborazione tra l’insegna Carrefour e il gruppo The Jackal, creator di contenuti piuttosto noti online per le loro video-parodie cinematografiche. Nel caso de #LaMarchetta, si esce dal classico spot da 30” per un formato che sta a metà tra il “content” e la webseries con product placement (nel nuovo mondo della comunicazione il fastidio per gli inglesismi è sempre dietro l’angolo). Qui il protagonista della webseries rimane imprigionato in una pubblicità che lo perseguita in ogni aspetto della sua quotidianità. Una “campagna” fortemente autoironica, ideata insieme all’agenzia di branded content H48, che si avvicina molto al modo di comunicare del gruppo napoletano specializzato in video virali, ma che proprio per la sua natura rischia di restare confinato a quel mondo web già avvezzo a contenuti del genere. Il gruppo The Jackal sta proseguendo su questa strada, con altre collaborazioni con brand come ENI e Leerdammer.

Intanto negli States c’è una nuova tendenza molto interessante in atto: scuole di recitazione per stand up comedian come la Upright Citizens Brigade hanno iniziato a fare workshop dedicati ai creativi delle agenzie pubblicitarie e ai responsabili marketing dei brand, a cui si insegna l’arte dell’improvvisazione per costruire un nuovo modo di lavorare sulla creatività. La scuola di recitazione per comedian The Second City di Chicago ha addirittura aperto una sua branca che lavora direttamente con le aziende per definire insieme a loro brand strategy e brand identity e creare nuove campagne: così è successo con Clorox, marchio della pulizia per la casa. Insomma, sembra di capire che l’ironia e l’umorismo non debbano essere considerati solo come efficaci ingredienti per una campagna pubblicitaria, ma anche come un materiale da trattare con competenze e professionalità specifiche per raggiungere l’obiettivo prefisso. E non veniamo a dire che si tratta solo di risate.


Michele Boroni

Scrive per Il Foglio, Wired, Il Messaggero, Rockol e Studio. Si occupa di contenuti e comunicazione per brand. Un tempo aveva un blog, ma gli è rimasto solo il nome – EmmeBi – con cui firma i suoi tweet. È stato autore tv e radio (tra gli altri Ghiaccio Bollente su Rai5 e Ogni Maledetta Domenica su Radio2) e ha scritto alcuni saggi sul marketing, ma sono tutti fuori catalogo.

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