La crisi profonda di uno dei pilastri del panorama online globale è anche il momento per riconoscere la sua importanza e il suo impatto. Storia e segreti dell’editore odiato da molti ma copiato da tutti.
Questo articolo è ripreso dalla newsletter “Scrolling infinito”, che riflette sulla relazione tra contenuti, pubblici e tecnologie nel panorama digitale contemporaneo, e parte di un più ampio progetto editoriale di “libro che ha la forma di un sito”.
La scena è questa: da una parte i fondatori di Vice Media, Shane Smith, Suroosh Alvi e dall’altra David Carr, leggendario reporter del New York Times arrivato per intervistarli sul successo del gruppo editoriale da loro fondato una decina di anni prima in Canada. La chiacchierata prende subito una brutta piega. Prima Smith insinua che il NYT non sta scrivendo abbastanza di quel che succede in Liberia dove lui ha appena girato un documentario per Vice in cui si parla di cannibalismo. Carr gli risponde dandogli del “turista del giornalismo” e chiedendo un po’ di rispetto per una delle più antiche istituzioni dell’informazione mondiale di cui fa parte.
Sarebbe facile prendere le difese di Carr e del New York Times contro i giovani iconoclasti di Vice. La verità è che al tempo in cui l’intervista è stata registrata (fa parte di un bel documentario del 2011, Page One: Inside The New York Times) Vice stava mettendo in discussione ciò che fino a quel momento avevamo dato come assodato nel mondo dell’informazione, mentre gran parte del giornalismo tradizionale era occupato a lamentarsi della propria condizione senza cercare reali alternative.
Avanti veloce fino al 2023, Vice non è più lo spaventapasseri dell’editoria tradizionale, e la sua valutazione è passata dai quasi 6 miliardi di dollari del 2017 fino al semplice miliardo di dollari di oggi, cifra che nessuno sembra interessato a pagare. Con una mossa sadica proprio il NYT ha annunciato per primo che Vice avrebbe ammesso di essere in bancarotta. Da poco è stata chiusa la sua sede francese, poi cancellata la serie di trasmissioni Vice News Tonight per la Cnn. In Italia l’aria non è migliore e nei social molti parlano di una prossima chiusura.
Cazzate fatte bene
Davanti a una tragica escalation come questa la reazione più diffusa è quella della schadenfreude, il termine tedesco che descrive il piacere provocato osservando la sfortuna altrui. Il motivo è facile da comprendere: Vice è sempre stato un brand escludente. Difficile farne parte, difficile seguirne le regole, difficile persino leggerlo visto che il collaboratore medio possiede il tono di chi sembra saperne molto più di te e ci tiene a dimostrarlo. Passata la sbronza di cinismo bisogna ammettere che con il tracollo di Vice stiamo perdendo quella che è stata la voce più originale dell’era dei social network, un editore che per più di un decennio ha saputo imbottigliare nei suoi articoli e documentari il mix di sarcasmo, nonsense, ironia e valore informativo che avremmo potuto trovare aprendo il feed di un social. Tutto questo mentre molti altri editori cercavano di raccapezzarsi su come usare questo benedetto internet.
Il segreto di Vice l’ho trovato in un vecchio profilo del New Yorker, non a caso intitolato “The Bad Boy Brand“. A parlare è Gavin McIness, uno dei fondatori di Vice assieme a Smith e Alvi, da anni caduto giustamente in disgrazia per una deriva fascistoide e misogina che l’ha portato a far parte di gruppi di estrema destra statunitense. Se il percorso del singolo fa tristezza è innegabile che proprio McInness fosse il principale responsabile del tono di voce che ha reso famoso il brand.
Con il tracollo di Vice stiamo perdendo la voce più originale dell’era dei social network, un editore che per più di un decennio ha saputo imbottigliare nei suoi articoli e documentari il mix di sarcasmo, nonsense, ironia e valore informativo che avremmo potuto trovare aprendo il feed di un social.
Racconta McInness: “La mia caratteristica principale è quella di voler fare cose stupide in maniera intelligente e viceversa. Così se devi andare in Palestina prova a cercare un buon posto dove mangiare un hamburger. Non metterti a parlare di Israele e dei confini, 1967 e Gaza, cerca semplicemente un fast food. Al contrario se devi scrivere di cacca o scoregge fallo con esperti di digestione, fai una ricerca sulla storia delle scoregge, perché puzzano. Sii super scientifico e raccogli tutti i dati”. In queste poche righe è sintetizzato un decennio di contenuti online. L’incrocio, o meglio lo scontro, tra sacro e profano, cultura alta e attitudine di strada sono gli elementi fondanti di quanto abbiamo prodotto e consumato dentro e fuori dai social network dal 2010 fino a oggi.
Dal seminale Heavy Metal in Baghdad, in cui si raccontava l’adolescenza in Iraq attraverso l’avventura musicale di un gruppo hard rock, fino ai documentari sugli oligarchi russi in cui invece di intervistarli sulle vicende nazionali si preferiva andare in sauna con loro e ubriacarsi di vodka, svelando in modo inaspettato la natura intima dei personaggi. La lista di cose stupide in maniera intelligente fatta da Vice è infinita e passa anche per la celebre serie di consigli di stile Dos&Don’ts arrivando alle 10 domande che vorreste fare a un’urologa (si, c’è anche quella a cui state pensando ora).
Gran parte dei contenuti che continuiamo a consumare oggi hanno al loro interno il DNA di Vice: dai trailer fatti schifosamente bene di Maccio Capatonda alle liste di Buzzfeed in cui si elencano le cose da fare e non fare in qualunque situazione passando per i video in cui i giovani si mettono nei panni dei vecchi e viceversa o i prank degli youtuber. Si tratta di un’eredità espressiva diventata di pubblico dominio e replicata all’infinito, come succede a ogni formula di successo di cui è impossibile mantenere il segreto. Molti di voi avranno visto il video di Luis Sal (il miglior creator italiano) in cui prova i migliori croissant di Parigi mentre in città esplodono le rivolte per la riforma delle pensioni. Trovata brillante e perfettamente eseguita che gli è valsa più di 7 milioni di visualizzazioni e un’infinità di articoli in Italia e all’estero. Un’idea che è la messa in pratica letterale dell’intuizione di McInness. Basta cambiare cibo e destinazione e il gioco è fatto: mettiamo Parigi al posto della Palestina e sostituiamo gli hamburger con i croissant. Anche il video di Luis per cui ci siamo appena entusiasmati esiste grazie al terremoto provocato da Vice anni fa che continua a produrre scosse di assestamento.
Vice come Mtv
Vice è riuscito nel suo obiettivo di essere la nuova Mtv, ma della rete musicale ha ereditato anche il destino di venire superata dalla generazione di hipster che ha contribuito ad allevare. Non a caso lo Spike Jonze regista di videoclip di Mtv è stato tra i primi direttori creativi di Vice in un passaggio di consegne più che simbolico tra le due emittenti. Anche Vice come Mtv ha costituito l’immaginario aspirazionale di una generazione: i ragazzi di provincia così come quelli di città volevano farne parte, partecipare alle sue feste, capirne e condividerne il tono di voce e l’ironia.
Mtv ha iniziato a dissolversi nel momento in cui, grazie alle fotocamere digitali e a YouTube, chiunque poteva produrre e distribuire il proprio videoclip senza aver bisogno di un’emittente televisiva tradizionale. Per questo fu costretta a spostare il proprio focus dai video musicali ai format unscripted (Catfish, 16 anni e incinta, reality vari) perdendo la propria specificità e andando a competere in un territorio già presidiato da altri colossi dell’intrattenimento. Allo stesso modo, Vice è stato il ponte che l’industria dei contenuti ha costruito per colmare la terra di nessuno che si era formata dopo il lancio di Facebook tra i siti di informazione tradizionale e l’economia delle piattaforme social. Sin dal suo inizio Vice aveva la forma dei primi (un sito tradizionale, video, presentatori), ma l’attitudine delle seconde (tono di voce disintermediato in cui era facile immedesimarsi, il coraggio di mettere in scena quello che per gli altri era proibito o nonsense). Una volta che il genio è uscito dalla lampada tutti hanno capito che fare le cazzate fatte bene poteva essere un modo facile per farcela online. Così il tono di voce di Vice è diventato quello di tutta la rete: basta aprire TikTok e imbattersi nei reportage dei creator da Kiev che raccontano la guerra a colpi di balletti e surrealtà per ritrovare lo stile del Vice di un decennio fa.
Vice come Mtv ha costituito l’immaginario aspirazionale di una generazione: i ragazzi di provincia così come quelli di città volevano farne parte, partecipare alle sue feste, capirne e condividerne il tono di voce e l’ironia.
Superata dalla generazione che aveva istruito e pressata da investitori sempre più invadenti Vice, come Mtv prima di lei, ha iniziato a giocare nel campionato dei grandi avvicinando il proprio stile a quello dei media tradizionali ed entrando in un rapporto di collaborazione (Hbo, Cnn) o competizione (NYT) con alcuni dei più grandi editori del mondo.
Quasi nemici
Proprio nel lungo e tormentato rapporto tra Vice e il New York Times da cui siamo partiti c’è una delle chiavi di questa storia fatta di continui rovesci di fortuna. Solo nel 2017 i fondi d’investimento avevano valutato Vice, oggi in bancarotta, il doppio del NYT, che oggi prospera serenamente dall’alto dei suoi quasi dieci milioni di abbonati a pagamento. David Carr, che aveva apostrofato i fondatori di Vice, prima di morire nel 2015, ha avuto modo di cambiare idea. Quattro anni dopo il primo incontro con Smith scriveva: “Anche se al tempo mi sono sentito bene nella parte del vecchio brontolone dei media, gli ultimi eventi suggeriscono che Vice è mortalmente serio nel produrre vero giornalismo che la gente, anche quella più giovane, vuole guardare”.
A questo punto della storia potrebbe sembrare che la soluzione sia nello smettere di fare i cazzoni cercando hamburger in Palestina e iniziare a fare le persone serie, magari chiedendo ai propri lettori di supportare i propri contenuti tirando fuori dei soldi. Si tratta però di una strategia che solo pochi grandi player internazionali si possono permettere. Non a caso in America iniziano le prime retromarce e alcune testate, anche importanti, rinunciano al proprio paywall tornando a offrire i propri contenuti gratuitamente, sperando di allargare la platea mentre altri si rivolgono a comunità più ristrette. All’estero hanno già capito che è il momento di un’ennesima capovolta nella tortuosa storia dei contenuti online e, come spesso succede, fra un po’ succederà anche in Italia.
Andrea Girolami
È uno dei coordinatori della Digital Content Factory di Mediaset. In passato ha lavorato per Wired Italia, MTV e ideato il format web Pronti Al Peggio. Ha scritto Atlante delle cose nuove, saggio dedicato alla cultura digitale (2015).
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