Tre formati distinti, ma con una messa in scena minimale in comune. Ecco come filoni della tv generalista vivono una seconda vita negli spazi digitali.
“Siamo soltanto all’inizio di internet”. A dirlo è Kevin Kelly, tra i fondatori dell’americano Wired. Ma quella per cui “il bello deve ancora iniziare” è un’opinione piuttosto diffusa tra i grandi imprenditori e guru del web. Lo stesso Jeff Bezos di Amazon parla di “Giorno 1” del digitale, e ne è così convinto da aver chiamato il suo quartier generale a Seattle proprio “Day 1 Tower”. Se il futuro deve ancora distendersi davanti a noi, è vero che le rivoluzioni degli ultimi anni danno l’impressione di aver superato il tumultuoso preambolo d’innovazione. A farne le spese sono stati gli standard tecnologici e distributivi, ma pure i contenuti sono diversi da quelli che eravamo abituati a fruire qualche anno fa.
Il formato video, che sta conoscendo un’esplosione in termini di quantità e qualità produttiva, è quello che più risente di questa mutazione genetica. Basti pensare alla crescita di Instagram nel mondo e in Italia (un italiano su tre lo usa, con una crescita del 36% rispetto allo scorso anno): numeri enormi per una piattaforma che ha deciso di puntare tanto sul linguaggio statico delle foto quanto sui video, lanciando in rapida successione negli ultimi mesi due prodotti: le Storie e la nuova Instagram Tv.
Diventa dunque fondamentale per ogni brand o editore apprendere questo nuovo linguaggio e iscriversi a una “prima elementare” globale del formato video per conoscere un alfabeto in corso di creazione. Non ci riferiamo tanto ai contenuti “mordi e fuggi” che riempiono le timeline social, quei video “con le scritte” che tutti abbiamo visto e tutti sembrano intenti a produrre, ma a formati complessi che vanno a colmare il vuoto ancora presente tra una prima produzione di massa e il prodotto tipicamente televisivo di maggiore qualità e valore produttivo. Un purgatorio qualitativo che dopo essere nato su YouTube si sta diffondendo su ogni piattaforma social e persino nei siti proprietari dei grandi editori.
Il video di mezzo
La prima distinzione che va fatta nelle tipologie di questi contenuti video “maturi” è quella tra la categoria nata per esplicita volontà editoriale e quelli che invece emergono più o meno spontaneamente dalle piattaforme tecnologiche nell’universo composto dai vari influencer e youtuber. Un tempo si chiamavano UGC (user generated content), definizione oggi quasi ingenua nel momento in cui la classifica dei video “in tendenza” su YouTube è letteralmente invasa proprio da creators che rivaleggiano con, e spesso superano, gli sforzi dei più grandi editori internazionali.
La particolarità di questi contenuti è infatti la difficoltà nel renderli “editoriali”, la scarsa possibilità di riuscire a inserirli in quello che definiremmo un piano di pubblicazione o di avvicinarli al tono di voce e allo spirito di un editore. Anche se fioccano i branded content, le sponsorizzazioni o i brevi progetti di collaborazione i creators restano però dei giocatori solitari, fedeli al proprio percorso personale. La loro forza è proprio quella di essere distributori di loro stessi e se pure esistono MCN (Multi Channel Network) che raccolgono decine o centinaia di youtuber spesso il loro ruolo si limita a quello di collettore di canali senza nessuna volontà di coordinarli in un fronte editoriale più ampio. Se è normale per chiunque pensare al linguaggio degli youtuber come a un caso di successo da emulare, sappiamo anche che un fenomeno spontaneamente espresso in natura, per quanto diffuso, è spesso molto difficile da ricreare in laboratorio.
Quello che invece gli editori online riescono meglio a fare è mutuare un’estetica grafica e di formato più ampia, tipica della rete in generale, youtuber compresi, per declinarla poi secondo il loro tono di voce e obiettivo editoriale. Proprio da questo punto di vista “mimetico” si nota l’emersione di alcuni trend precisi che caratterizzano oggi la produzione di video format e serie online in ogni angolo del mondo. Una “globalizzazione estetica” delle produzioni tipica di ogni piattaforma social che proprio nella standardizzazione grafica e della messa in scena trova un linguaggio condiviso tra i suoi utenti. Un po’ come già successo con gli onnipresenti filtri Instagram o con i meme tutti impaginati con lo stesso font, diventati nel tempo la vera punteggiatura di qualunque discorso social.
Il protagonista del video è sempre inquadrato a mezza figura o in primissimo piano. L’essenzialità della scenografia composta da un semplice backdrop a tinta unita e da pochi oggetti di scena.
Stile digitale
Quali sono le categorie di formato di questa evoluzione video digitale? La potremmo definire come una neotv di vip, esperti e gente comune. “Niente di nuovo”, dirà il lettore, e con ragione. In fondo anche la tv tradizionale da decenni opera su questi territori sfruttando di volta in volta la celebrità, il professore o il vox pop dell’uomo della strada. Quello che la rete ha aggiunto è una più stretta compartimentazione di questi tre formati e un’estrema stilizzazione nella messa in scena invece che li accomuna totalmente.
Il protagonista del video è sempre inquadrato a mezza figura o in primissimo piano. L’essenzialità della scenografia composta da un semplice backdrop a tinta unita e da pochi oggetti di scena. Un minimalismo perfetto pensato per entrare nello schermo ristretto di un cellulare dove ogni distrazione data da ulteriori dettagli e grafiche sarebbe superflua e danneggerebbe il risultato finale. Lo stesso minimalismo si trova nella scelta dei protagonisti: nessun presentatore, perché chi è in scena è già il centro delle meccaniche di gioco o intervista attorno cui ruota il contenuto. Poche persone in video: una o massimo due che interagiscono tra loro aumentando la densità del risultato. In tutto questo i sottotitoli sono indispensabili: l’assunto è che i video saranno consumati in un contesto mobile da smartphone, in giro e dunque quasi sempre senza poter usufruire dell’audio originale.
Ciascuno di questi filoni si fonda su una sola semplice idea, una meccanica subito comprensibile che li colloca a metà tra l’intervista e la challenge da youtuber. A cambiare è il focus editoriale che a seconda del filone viene posto sul personaggio in video, il contenuto espresso o la reazione a un fattore esterno.
Nessun presentatore, perché chi è in scena è già il centro delle meccaniche di gioco o intervista. Poche persone in video: una o massimo due che interagiscono tra loro aumentando la densità del risultato.
1. VIP
La prima categoria è quella delle interviste a un personaggio celebre. Non una semplice serie di domande come potremmo aspettarci da un contesto televisivo. Qui la necessità è di estrapolare informazioni e curiosità creando un meccanismo di gioco che “ingaggi” l’utente distratto e si amalgami meglio al contesto digitale in cui il contenuto si troverà a vivere, sia esso la timeline di Facebook o l’algoritmo di YouTube. Per esempio si risponde a una serie di “parole chiave” con l’utilizzo di un prop (tanto la messa in scena è minimale quanto gli eventuali effetti speciali devono essere materici, tangibili), si commentano le vecchie foto di Instagram (anche qui stampate e tenute in mano come delle enormi diapositive delle vacanze) o si ripercorre la carriera con uno scrolling orizzontale simile a quello di un videogioco. L’intervista e il personaggio sono la base a cui va aggiunto un livello di vera e propria gamification del contenuto che permetta allo spettatore di seguirne il filo logico e comprendere il formato semplificando la natura della conversazione.
Se negli ultimi anni gli articoli in forma di lista hanno visto una crescente popolarità, questo genere di interviste vip ne sono il corrispettivo video: anche qui rispettare un format di partenza permette di fruire con piacere e facilità di un contenuto altrimenti troppo dispendioso a livello di attenzione.
2. Esperti
La seconda tipologia di video è basata sulla presenza di un “cultore della materia”. Sia seriosa come la medicina o più faceta come la saga di Guerre stellari l’assunto di partenza è sempre quello di porre una domanda allo spettatore a cui si darà risposta con l’intervento dell’esperto. Il filo conduttore del discorso è dato dalla presenza in video di un volto (come nel riuscito esperimento Dataroom del Corriere della Sera con Milena Gabanelli) che si aiuta con l’ausilio di infografiche. La radice di questo genere di format è da ricercarsi nella popolarità dei video essay. Canali come Every Frame a Painting (che ha purtroppo smesso di essere aggiornato) o Nerdwriter sono la dimostrazione di come per creare un video capace di accumulare milioni di visualizzazioni basti titillare la curiosità del navigatore con un buon titolo per poi soddisfarla con una voce fuori campo e una buona dose di storytelling.
“La tecnica delle battute di Louis CK” o “Il modo che ha Donald Trump di rispondere a ogni domanda”, “I segreti della musica dei film Marvel” o “Martin Scorsese e l’arte del silenzio” sono solo alcuni dei video di cui stiamo parlando, tutti abbondantemente sopra il milione di visualizzazioni ma prodotti in autonomia da questi creator solo tramite il brillante utilizzo di footage esistente e una postproduzione grafica minima. Chi sembra aver appreso alla perfezione questo linguaggio è il sito americano Vox che ha fatto dei video explainer il suo prodotto editoriale di punta, arrivando persino a produrne una serie “deluxe” per Netflix, dimostrando quindi come un contenuto che nasce da stilemi tipici di YouTube possa evolversi fino a diventare un prodotto di “neo-televisione” a tutti gli effetti.
3. Gente comune
Se con i vip la presenza del personaggio è sicuramente più importante del gioco in cui sono inseriti (più che altro la scusa per impostare una conversazione) e con gli esperti c’è un equilibrio tra struttura del video e il volto che porta avanti la narrazione, quando si coinvolge la gente comune l’attenzione è solo concentrata sulla natura del format. Persone sconosciute sono inserite in un contesto di gioco con l’obiettivo di avere una reazione quanto più esplosiva e suscitarne una simile anche nello spettatore. Si tratta dei cosiddetti “reaction video” dove si crea una situazione potenzialmente divertente con lo scopo di mettere in video il suo inevitabile sviluppo. Una ragazza tradita rivede il proprio ex che l’aveva ferita, due ex con rapporti migliori si fanno domande, cittadini americani assaggiano per la prima volta gli snack più disgustosi delle Filippine o del Regno Unito o le nonne italiane provano per la prima volta Pizza Hut. Questi sono alcuni tra gli esempi più banali che nella semplicità del meccanismo messo in scena dimostrano la propria efficacia. Tanto più ci sarà una identificazione con la persona in video e tanto più la sua reazione fisica o emotiva sarà esagerata e coinvolgente, quanto il contenuto finale avrà probabilità di successo. Il fondo colorato, la grafica minimale e l’inquadratura a mezza figura anche in questo caso (come per i vip o gli esperti) sono elementi rigorosamente rispettati.
Contaminazioni e oltre
E oggi è interessante notare il passaggio di questo genere di produzioni dalle piattaforme solo social ad altri contenitori premium più “maturi”. Oltre al già citato esempio degli “explainer” di Vox approdati su Netflix con la serie Explained, qualcosa di simile è accaduto ai video di Buzzfeed che ha prodotto sempre per Netflix la serie Follow This, dove il formato video dell’esperto si ibrida con il documentario vero e proprio. Quella del passaggio da YouTube a Netflix ricorda per certi versi la parabola dei videoclip all’interno della Mtv degli esordi. Se allora l’intuizione era di prendere in prestito l’estetica e il mood dei video musicali per costruirci attorno un’intera emittente (e un brand), qui il tentativo è di cogliere quanto di buono accade nei social per formattizzarlo in maniera editorialmente evoluta, tanto da farlo arrivare alle più tradizionali smart tv. Una scommessa con molte variabili che rimangono aperte.
L’unica certezza è la nascita di nuove piattaforme che sembrano interessate ad avere contenuti di questo tipo, come la prossima giga-iniziativa streaming di Disney in arrivo o più semplicemente gli esperimenti di Facebook con Watch e di Instagram con IGTV. Quest’ultima, in particolare, fatica a decollare perché chiede a utenti ed editori uno sforzo ulteriore. Oltre a creare contenuti con un nuovo alfabeto estetico bisogna anche pensarli in maniera verticale. Un’ennesima limitazione d’espressione che se da un lato potrebbe decretarne il fallimento, dall’altro può invece essere invece la chiave per un capovolgimento di paradigma e dunque un successo definitivo. Stiamo a vedere.
Andrea Girolami
È uno dei coordinatori della Digital Content Factory di Mediaset. In passato ha lavorato per Wired Italia, MTV e ideato il format web Pronti Al Peggio. Ha scritto Atlante delle cose nuove, saggio dedicato alla cultura digitale (2015).
Vedi tutti gli articoli di Andrea Girolami