Il confine tra gli Stati Uniti e il Messico è la nuova incarnazione del mito americano della frontiera. Ma, e lo dimostrano le narrazioni del telefilm contemporaneo, nel frattempo è cambiato tutto.
“Gli yankee hanno oscuri appetiti da soddisfare”. Con questa frase, detta da un personaggio di Narcos: Mexico, si capisce molto bene cosa significhi oggi la zona di confine con il Messico. Una sorta di spazio a cui avvicinarsi quando si ha bisogno di placare un desiderio inconfessabile, sia esso legato al traffico di droga o di esseri umani. Questa è una sorta di continuità con il genere forse più longevo del cinema e della tv, il western. Ma, mentre oggi il confine è un luogo ben visibile, sorvegliato dalla polizia di frontiera statunitense in modo sempre più pervasivo, difficile da superare, nel western tradizionale, così come in quello revisionista, la frontiera era un concetto mobile, legato a categorie dello spirito, vicine alla concezione di natura espressa da scrittori della prima metà dell’Ottocento come James Fenimore Cooper e Henry David Thoreau, presto demistificate dalla durezza delle condizioni di vita. Un luogo dove magari chi era cresciuto nell’ambiente della East Coast, sia che venisse da famiglie benestanti sia che fosse nato in un quartiere sovrappopolato di emigranti dall’Irlanda o da un altro Paese europeo, poteva trovare altri stimoli. Era una valvola di sfogo, perché con l’Homestead Act del 1862, garantendo un pezzo di terra a chiunque ne facesse richiesta, si evitava che nel Paese mettesse radici il socialismo.
Build that wall
Trovare la frontiera “prima che scompaia”, afferma il tenente John J. Dunbar in Balla coi lupi. Oggi invece, nelle serie tv, la frontiera è ovviamente scomparsa. Al suo posto c’è il border, che non è solo un semplice confine geografico. Già nel vecchio West il confine con il Messico evocava l’entrata in un mondo di fuorilegge, in cui la forza pubblica, se presente, era qualcosa di violento e insensatamente distruttore. Su quello lo spaghetti-western ha indagato a fondo, con la spietata rappresentazione della violenza della rivoluzione messicana in Giù la testa di Sergio Leone. Ed è proprio in quegli anni che gli statunitensi, per confinare la violenza proveniente da quel Paese, dopo che un raid oltre confine del rivoluzionario-bandito Pancho Villa aveva colpito la città di Columbus, in New Mexico, nel 1916, iniziano a rafforzare il confine. Ma è una battaglia combattuta nella città di Nogales, equamente divisa tra Arizona e stato messicano di Sonora, a far partire la costruzione della prima barriera vera e propria. Una barriera che, nel tempo, ha assunto un’importanza sempre maggiore. Anche grazie all’entrata in vigore, nel 1993, del trattato di libero scambio commerciale Nafta tra Stati Uniti, Canada e Messico, si è visto un paradosso entrare in azione: per entrare in America da Sud è meglio essere una merce che un essere umano. I maggiori signori della droga smettono di essere colombiani e diventano messicani, martirizzando un territorio, quello di confine e spingendo in molti a tentare il tutto e per tutto.
In queste aree immense, dove forse il cielo della frontiera è più inquinato di un tempo, che questi due mondi separati militarmente da un confine ultrasorvegliato, scoprono la reciproca interdipendenza. E pur odiandosi, non riescono a fare a meno l’uno dell’altro.
A fine anni Novanta si crea un curioso unanimismo. I democratici nel silenzio, e i repubblicani a voce alta, cominciano a voler ampliare la barriera. Inizia il presidente repubblicano George Bush sr., con la costruzione di una barriera tra San Diego in California e Tijuana in Messico, tra 1990 e 1993. Prosegue Bill Clinton, che fa approvare nel 1996 l’Illegal Immigration Reform and Immigrant Responsability Act, che allunga la piccola barriera, costruendone ampi tratti in California, Texas e Arizona. Ma è con George W. Bush che l’unanimità si fa quasi completa: nel 2006 il Secure Fence Act ottiene maggioranze bipartisan sia alla Camera sia al Senato. La frontiera è sempre più chiusa e militarizzata, anche per l’immigrazione legale. Paradossalmente a esprimere la più forte opposizione fu il governatore repubblicano del Texas, che preferiva un controllo tecnologico del flusso migratorio. Meno muscolare ma sempre inflessibile è stata la politica migratoria di Obama: maggiori strumenti tecnologici come sensori di movimento e droni a cui, però si è accompagnata la costruzione di un vero e proprio muro, evocato per la prima volta nel 2005 dal deputato repubblicano di San Diego Duncan Hunter. Lo stesso Obama, nel maggio 2011, dichiarò che il muro era stato per lo più completato. Ma durante il suo periodo in carica i repubblicani assumono la retorica di un personaggio reale come lo sceriffo Joe Arpaio, della Maricopa County, in Arizona. Di origine italoamericana, in carica dal 1993 al 2017, ideatore dei campi di detenzione per migranti irregolari, vestiti in uniforme carceraria a strisce con biancheria intima rosa per contribuire alla loro umiliazione e da far dormire in tenda, in condizioni climatiche proibitive perché “anche i nostri soldati all’estero soffrono il caldo”. In questa retorica violenta e xenofoba s’inserisce la promessa, tuttora non mantenuta, del muro trumpiano, che il Messico “dovrà pagare” e che ha reso quindi quest’area un focolaio di estrema tensione. Ma non ha fermato né il traffico di stupefacenti né di esseri umani. E il Messico, ovviamente, non ha pagato. Ma ha eletto un presidente di sinistra, anche in reazione alle minacce di estrema chiusura di Donald Trump. Che continua però a tenerlo vivo come un fronte di guerra permanente, contro un’immigrazione “fuori controllo” per gli amministratori locali democratici “troppo deboli” che favoriscono un afflusso dagli “shithole countries”.
Basti pensare alla retorica sulla carovana di migranti proveniente dall’Honduras nell’autunno del 2018, dipinta come un esercito invasore, in assenza di nuovi fronti di guerra su cui combattere lontano da cosa. L’assimilazione dunque, delle retoriche del vigilantismo e dei metodi da “frontiera” per fermare i migranti, veloci e letali, da parte dell’amministrazione repubblicana fa capire perché l’eroismo presunto di personaggi come Arpaio, ritenuto un eroe e meritevole di grazia presidenziale per salvarlo da una condanna e l’attenzione delle serie televisive data anche a un personaggio come il Chapo, visto come un Pancho Villa contemporaneo, fa meglio comprendere come la retorica propria dell’epica western sia perfettamente traslata in quell’area geografica nei tempi attuali.
Immaginari reali
Quindi il border sempre più militarizzato è il limite che intercorre tra due mondi, che a differenza che nei vecchi film western come Ombre rosse, peraltro uno dei primi a parlare dello sconfinamento tra Stati Uniti e Messico nell’epoca della colonizzazione del Selvaggio West. Nelle serie tv contemporanee come Breaking Bad, Better Call Saul e Narcos (sia l’originale e sia lo spinoff Mexico) gli scenari presentano una spazialità nuova. Le distanze, le dimensioni di abitazioni, magazzini, pianure desertiche rendono finalmente l’idea americana della quotidianità. Gli appartamenti, anche quelli più squallidi e maltenuti come quello di Jesse Pinkman, con tende tirate e spray alle pareti, sono ampi e con vari elettrodomestici moderni. Le case danno un senso di sicurezza e di modernità. Viceversa le strade sono uno spazio immenso, enorme. Le distanze da coprire sono immense, le ore di macchina sono tante e un colpo di sonno può essere quasi fatale, come accade nel grave incidente che colpisce Kim Wexler, compagna del futuro avvocato Saul Goodman. I momenti di confronto sono nella nuova versione dei canyon o delle piazze nei nuovi film western, i parcheggi dei mall. Vuoti e isolati, anche di giorno, monumento a un consumismo che oramai ha più momenti di crisi che di prosperità. Così è durante le lunghe giornate senza far niente in un negozio di telefonia che Jimmy McGill comincia la discesa nel mondo criminale. Perché dietro quel mondo più pulito di quello al di là della Frontiera, ci sono stress e nevrosi.
La fame di denaro che colpisce personaggi filmici come il procuratore, protagonista dell’omonimo film di Ridley Scott del 2013. Curioso che l’autore della sceneggiatura originale, Cormac McCarthy, sia stato, in letteratura, il primo a operare la transazione dal western classico a questa nuova tipologia di racconto, dove il confine da superare è quello interno, per chi vive al di sopra del confine, e scegliere di meticciarsi con il male e il crimine per raggiungere obiettivi come il denaro, il successo, una bella casa e un anello con diamante, tipici dell’American dream borghese. Viceversa, chi è dall’altra parte del confine viene da contesti di povertà estrema che ha convissuto con ricchezza barocca e sfavillante, famiglie di miliardari che si atteggiano ad antichi aristocratici. Per questo la scelta del crimine qui invece, non ha a che fare con un contesto borghese, ma di riscatto. E se il riscatto deve passare dalle voglie inconfessabili dei ricchi vicini bianchi, tanto meglio. A differenza loro, il deserto e i luoghi bui sono dominati con maggiore perizia. Se l’agente antidroga Kiki Camarena in Narcos: Messico sfata questi stereotipi, merita un destino tremendo proprio perché è l’equivalente del nativo americano che si schiera con le giacche blu. Ma anche il confine acquisisce un altro significato. Più difficile da superare, quasi impossibile. E non separa il Bene dal Male, ma è la barriera all’agognato riscatto. Quando alcuni come il procuratore peccano di hybris, tentando di guadagnare più del dovuto, allora è la parte debole a prendersi una sanguinosa rivalsa, quel Messico che nella fotografia ocra delle pietraie di Breaking Bad o nelle cupe notti di The Bridge rappresenta un luogo dove la legalità è sospesa.
Le strade sono uno spazio immenso, enorme. Le distanze da coprire sono immense, le ore di macchina sono tante e un colpo di sonno può essere quasi fatale. I momenti di confronto sono nella nuova versione dei canyon o delle piazze nei nuovi film western, i parcheggi dei mall. Vuoti e isolati, anche di giorno, monumento a un consumismo che oramai ha più momenti di crisi che di prosperità.
C’è una differenza sostanziale con il vecchio western, anche rispetto a quello revisionista di Corvo rosso non avrai il mio scalpo o di Balla coi lupi: l’uniformità delle notti, sia che circondino case in un remoto pueblo senza elettricità o nel retro di un condominio in un quartiere malfamato di Albuquerque, rappresenta la dissoluzione morale dei valori, commentata cinicamente da testimoni anziani e di poche parole un tempo idealisti come il Mike Ehrmantraut o lo sceriffo Tom Bell di Non è un paese per vecchi. In questo scenario però, si scopre come in queste aree immense, dove forse il cielo della frontiera è più inquinato di un tempo, che questi due mondi separati militarmente da un confine ultrasorvegliato, scoprono la reciproca interdipendenza. E pur odiandosi, non riescono a fare a meno l’uno dell’altro.
Matteo Muzio
Classe 1985. Lavora come giornalista, con formazione da storico. Scrive sul Corriere della Sera, su Rolling Stone Italia e su altre testate, principalmente di cose americane: politica, comunicazione e narrazioni culturali. Il suo legame con gli Usa ha antiche radici familiari.
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