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Cosa ci insegna la macchina de “Gli anelli del potere”

La produzione di punta degli Amazon Studios, per Prime Video, è l’esempio perfetto delle tante libertà – ma anche degli enormi limiti – del modello seriale, creativo ed economico adottato dalle piattaforme on demand. Con tante scoperte, tra le righe.

Il signore degli anelli è una passione di Jeff Bezos. Una passione che, come molto nella sua vita, può essere quantificata: vale 250 milioni di dollari. Questo è il prezzo che il fondatore di Amazon ha trattato, nel novembre 2017, perché gli Amazon Studios potessero ottenere i diritti per una serie tv ambientata nel mondo di Tolkien. Non capita spesso che sia il fondatore e padrone di Amazon a trattare in prima persona, ma quella con la famiglia Tolkien fu una negoziazione difficile, e a cui, per l’appunto, Bezos teneva realmente. Nel 2017 la serie tv Hbo Il trono di spade era arrivata a due stagioni dalla fine, era la serie più piratata del pianeta, quindi quella di maggiore successo, un oggetto culturale di grandissimo valore, tratta anch’essa da una serie di romanzi fantasy (non di John R.R. Tolkien ma di George R.R. Martin). Era la pietra di paragone, quello che ogni piattaforma desiderava per sé: una serie capace di attirare spettatori, premi, meme, riferimenti culturali e critiche positive nella medesima proporzione.

La più grande campagna pubblicitaria di sempre

Jeff Bezos non è un produttore, ma nel 2017 compie il medesimo ragionamento che da sempre compiono i produttori: cercare di creare il successo di domani replicando quello di ieri. Quindi ordina agli Amazon Studios di realizzare una serie paragonabile a Il trono di spade. In quel momento storico, la piattaforma produce serie originali da quattro anni senza aver trovato ancora un successo che sia di pubblico e di critica (il primo sarebbe arrivato proprio in quel mese di novembre 2017: La fantastica signora Maisel). Il mondo de Il signore degli anelli è individuato come il bacino giusto per l’occasione e l’azienda con il suo capo in testa ci si tuffa per creare una serie che dovrà necessariamente essere un successo gigantesco, e che per poterlo diventare dovrà posizionarsi come lo stato dell’arte della serialità, costando come nessuna serie è mai costata. Una produzione ambiziosissima, pianificata per cinque stagioni, finanziata con gli immensi capitali di Amazon e senza il fastidioso e ingombrante obiettivo di produrre un guadagno diretto: sarà un investimento a fondo perduto nella costruzione di un marchio e nel posizionamento di Prime Video. Tutto già deciso, approvato e benedetto dal fondatore e capo.

Tocca solo farla. È questa la situazione che trova Jennifer Salke, assunta tre mesi dopo quel novembre 2017 come head of streaming degli Amazon Studios. Il lavoro che aveva lasciato al confronto era una passeggiata: head of entertainment presso Nbc, un network tv tradizionale di proprietà della Universal, in cui produceva tutto, dalle serie agli show in diretta. Questo voleva in teoria Amazon da lei, un tocco di mestiere da un pezzo grosso della televisione tradizionale con un buon occhio per i gusti del pubblico generalista e la mano ferma quando viene il momento di trattare con le star di cinema e tv. Di colpo invece il progetto della nuova serie tv più grande e importante di sempre diventa il suo lavoro principale e l’obiettivo in base al quale sarà valutato il suo operato da parte di una società che in realtà fa altro, vende di tutto a tutto il mondo, e che intende la produzione di contenuti audiovisivi come un benefit in regalo a clienti che pagano un forfait mensile per avere spese di spedizione gratuite a ogni acquisto.

Tutti gli Amazon Studios, cioè il braccio produttivo di Amazon, fin dalla loro fondazione sono pensati come un benefit per i clienti Prime. Tuttavia, l’intensificarsi della guerra tra piattaforme per la conquista di abbonati ha portato al paradosso per cui un committente con poca esperienza di tv si imbarchi in un progetto immenso per cui ha i fondi, con obiettivi non direttamente economici ma di status. La prima serie ambientata nel mondo di Tolkien nasce così per essere un volano per la grandezza di Prime Video e quindi di Amazon, che non deve essere secondo a nessuno quanto a capacità di offrire il meglio. Il budget stanziato è gigantesco: 465 milioni di dollari per 8 episodi e un miliardo in totale per le cinque stagioni pianificate. Cifre da cui è impossibile ottenere un ritorno, con una spesa per quella che di base è la più grande campagna pubblicitaria di sempre. Per fare un paragone, è un budget più alto di quello con il quale è stata realizzata la trilogia di Peter Jackson, all’epoca costata 281 milioni di dollari (che equivalgono più o meno a 436 milioni di dollari attuali) e in totale lunga circa 11 ore, se si considerano le versioni estese di ognuno dei tre film. Il costo medio quindi è di circa 38,4 milioni per ora. La serie di Amazon con le sue 9 ore alla fine costerà circa 50 milioni l’ora.

Quali diritti 

Se non c’era stata finora una serie tv tratta dalle storie di J.R.R. Tolkien c’è una ragione: i diritti. Tolkien in persona nel 1968 (a 76 anni) li vendette a United Artists per fornire alla sua famiglia un capitale utile a gestire la complicata fase di successione in caso di morte, e fu un errore. Lo ammise qualche anno dopo lo stesso Tolkien, perché i diritti furono venduti in perpetuo, per sempre. Tuttavia United Artists non riuscì a farci molto e nel 1976 li vendette a Saul Zaentz, grande produttore che quell’anno aveva vinto il suo primo Oscar, per Qualcuno volò sul nido del cuculo (in carriera avrebbe replicato vincendo anche per Amadeus e Il paziente inglese). Zaentz usò i diritti per il film animato di Ralph Bakshi che adattava solo il primo dei tre libri che compongono Il signore degli anelli, una follia che non ebbe il successo necessario per produrre i successivi. Decenni dopo, Zaentz avrebbe collaborato con Jackson per la sua trilogia e dopo la sua morte nel 2014 i diritti per la realizzazione di film da Il signore degli anelli e Lo hobbit sarebbero stati venduti per 2 miliardi di dollari al gruppo svedese Embracer, che controlla varie società di videogiochi e continua a gestirli tuttora. Questo significa che un film su Il signore degli anelli realizzato adesso, oltre alla società che lo produce, dovrebbe necessariamente coinvolgere Embracer, l’unica a gestire e quindi cedere i diritti cinematografici; e raggiungere l’accordo con la Warner, che è ancora lo studio a cui sono affidati i diritti per il cinema dai tempi di Jackson. Al contrario, i diritti per una serie tv sono liberi, mai stati ceduti. E con il tempo gli eredi di Tolkien avevano maturato la convinzione che fosse arrivato il momento buono per venderli.

In un’era in cui il marketing dei blockbuster si attiva anche un anno prima, de Gli anelli del potere non si sa niente. A stento ne sanno qualcosa ad Amazon. La serie è realizzata in totale, involontaria libertà.

Con gli occhi di oggi è un accordo frutto dell’era della peak tv, cioè un momento in cui si è prodotto a prescindere dall’esistenza di un pubblico, in cui sono stati creati più film e serie tv di quanti spettatori ci fossero per guardarli. Un’era guidata proprio da Netflix e Amazon, dai loro fondi apparentemente illimitati, e dalla loro esigenza di crearsi un ampio catalogo dopo che gli altri studios avevano iniziato a riprendersi i loro titoli di maggiore attrattiva per creare le loro piattaforme. L’apice del numero di serie tv prodotte in America sarebbe arrivato due anni dopo, nel 2019, quasi 10 volte il quantitativo prodotto nel 2002. Era la borsa ad alimentare questa crescita, non il pubblico. Tutte le società proprietarie di piattaforme erano quotate e la maniera in cui la finanza valutava la loro salute non era in base agli ascolti delle loro produzioni (mai divulgati ufficialmente e quindi inesistenti) ma in base al numero di abbonati. Quindi più produzioni annunciate portavano a più abbonati, e più abbonati a un aumento di valore in borsa. L’anno in cui Bezos acquistò i diritti per una serie televisiva ambientata nella Terra di Mezzo a 250 milioni, immaginando circa un miliardo per la produzione di più stagioni, è lo stesso in cui Netflix spende circa 9 miliardi di dollari in produzione in tutto il mondo. Cifre esagerate.

Quale storia raccontare

A quel punto gli Amazon Studios hanno due anni di tempo per entrare in produzione, e la prima cosa da decidere è che storia raccontare. La mitologia della Terra di Mezzo è grandissima e il fatto di doversi limitare a ciò che non è stato raccontato ne Il signore degli anelli non è un problema. Da accordi, Amazon può espandere anche quello che nei romanzi è accennato in un paio di righe, può prendere un’antica razza solo menzionata e inventarsi intere storie su quella. La prima dell’ampia serie di ipotesi e progetti vagliati per poi essere scartati è una serie sul giovane Aragorn, ma si pensò anche a una su Gandalf e a una su Gimli, personaggi centrali ne Il signore degli anelli. Anche i fratelli Joe e Anthony Russo, i principali registi della Marvel nel loro gigantesco progetto Avengers che ha portato al film di maggiore incasso della storia del cinema (Avengers: Endgame), propongono la loro idea per la serie. Non viene scelta.

Nel luglio 2018 arriva l’annuncio che i due sceneggiatori che creeranno la serie saranno J.D. Payne e Patrick McKay. A Hollywood sono molto conosciuti, ma fuori dagli uffici delle società di produzione no. Sono considerati due tra i migliori script doctor dell’industria americana, cioè le persone che prendono un copione già finito e lo aggiustano a vari livelli per compiacere i produttori. È un lavoro delicato e complicato, in cui bisogna muoversi senza snaturare il lavoro dello sceneggiatore ma anche piegare le sceneggiature per portarle dove vogliono i committenti. Ed è un lavoro che non prevede un credit, quindi il loro nome non compare mai. Sono considerati bravi, hanno realizzato una sceneggiatura di un film di Star Trek che non si è mai fatto per J.J. Abrams e lui è il primo a consigliarli ad Amazon. Sono inoltre noti per essere grandissimi conoscitori del mondo di Tolkien. Internet inizia a ribollire. Due sconosciuti all’opera sul più intoccabile degli intoccabili. Un anno dopo, nel luglio 2019, per placare le polemiche Amazon fa uscire la notizia che John Howe e Tom Shippey sono coinvolti nell’impresa. Sono due nomi storici legati al mondo tolkeniano. Il primo è il più famoso e importante illustratore che abbia mai lavorato sul materiale, il secondo è ritenuto uno dei maggiori studiosi delle opere della Terra di Mezzo. Saranno consulenti. Garantiranno la fedeltà al canone. Di fatto Amazon li paga per poter dire ai fan che ci sono anche loro, per usare il loro nome e la credibilità costruita nelle loro carriere.

Ad aver spinto Amazon a scegliere Payne e McKay è stata anche la loro proposta: una serie ambientata migliaia di anni prima di Lo hobbit, che racconti eventi che riguardano la versione giovane di personaggi millenari che poi si trovano nei libri (e nei film di Peter Jackson), e che ha a che fare con questioni solo accennate nei primi cinque minuti di prologo del film La compagnia dell’anello. I riferimenti di Tolkien sono pochi e vaghi, qualche notazione storica, quindi è possibile spaziare, creare e inventare. 

…e come raccontarla

Alla fine, nel gennaio 2020, appena in tempo per rispettare i patti, inizia la produzione della serie e viene annunciato il cast. Quattro mesi dopo scoppia la pandemia e quelle stesse persone rimangono bloccate in Nuova Zelanda, dove erano in corso le riprese. Fino a questo punto la produzione è ancora normale. Costosa, ma normale. Nel 2020 Amazon è un produttore da quasi un decennio e ha maturato un po’ di esperienza, ha anche messo a segno qualche serie di successo nel frattempo (The Boys), Jennifer Salke è ormai al comando della divisione produttiva da un paio d’anni e nonostante ci siano frequenti problemi sulla catena di comando, i risultati parlano chiaro. Tuttavia quando nell’estate la Nuova Zelanda esce dal lockdown e le riprese possono ripartire il clima è completamente diverso. Per evitare nuove chiusure il Paese sceglie una politica di tolleranza zero: nessuno entra e nessuno esce, tranne in casi limite che non comprendono serie tv ambientate nella Terra di Mezzo, e comunque chiunque entri deve sottoporsi a lunghi periodi di quarantena. La troupe è da sola.

A queste condizioni solitamente una grande produzione americana non gira. Nessuno dei grandi studi tradizionali accetterebbe così poco controllo su qualcosa di così importante. Non lo farebbe Universal, non lo farebbe Warner, e non lo farebbe certo Disney con i marchi più importanti (basta vedere che controllo maniacale ha avuto su Guerre stellari). Invece il set di Gli anelli del potere è troppo grande per fermarsi. Con buona approssimazione, si può dire che fosse in quel momento l’unico attivo in tutta la Nuova Zelanda, perché così grande da aver impiegato quasi tutte le maestranze locali. Niente costa di più che interrompere le riprese per stare fermi. Così la serie si gira senza set visit promozionali, senza produttori da Los Angeles a controllare, con le riunioni via Zoom. In un’era in cui la macchina del marketing dei blockbuster si attiva anche un anno prima, de Gli anelli del potere non si sa niente. A stento ne sanno qualcosa ad Amazon. La serie è realizzata in totale, involontaria libertà. E quando l’era della peak tv subisce la prima brutale battuta di arresto, nell’aprile 2022, con il primo trimestre di netto calo degli abbonati di Netflix e il relativo crollo del titolo in borsa di quasi il 40%, gli Amazon Studios hanno quasi terminato la produzione del loro progetto più ambizioso. Che a quel punto è già fuori dal tempo. 

Senza una linea editoriale

La peak tv va incontro a un calo generale, non solo quello di Netflix in borsa. Le azioni di tutti i gruppi che comprendono studi di produzione che hanno investito molto in piattaforme calano, la spesa in produzione viene ricalibrata. Tutto l’anno successivo sarà all’insegna di licenziamenti, tagli ai costi, cancellazioni di serie e film già in produzione, in un generale rivedere le ambizioni verso il basso. Così quando a settembre 2022 il primo episodio di Gli anelli del potere arriva online, lo scenario è cambiato e la sua opulenza sembra un retaggio del passato. L’unico dato di visione che Amazon ha divulgato è molto positivo, ovviamente: la prima puntata è stata vista da 25 milioni di utenti nelle prime 24 ore, l’esordio migliore nella storia di Prime Video. Jennifer Salke dirà che si tratta di “un momento culturalmente decisivo” per la società, una definizione così roboante da suonare più come un messaggio al proprio capo, Jeff Bezos, che altro. Un messaggio che vuole sottolineare che l’obiettivo per cui era stata assunta è stato raggiunto. Salke nei cinque anni in cui è stata in cima agli Amazon Studios ha speso molto e non sempre bene, alla ricerca ossessiva di un successo ha puntato in tutte le direzioni possibili avendo a disposizione molto denaro. I più critici dicono che avesse più a cuore le relazioni con le star che il prodotto finale, e che fosse pronta a tutto per accontentarle.

Il budget stanziato è gigantesco: 465 milioni di dollari per 8 episodi, 1 miliardo in totale per cinque stagioni di quella che, di base, è la più grande campagna pubblicitaria di sempre.

Ha dato il via alla serie Daisy & The Six per tener stretta Reese Whiterspoon (attrice ma qui produttrice con la sua società Hello Sunshine); ha approvato la serie Dead Ringers per avere Rachel Weisz; ha chiuso un accordo penalizzante con Phoebe Waller Bridge, autrice del grande successo di critica Fleabag (comprato da Amazon per la distribuzione mondiale ma non prodotto da loro, e comunque risalente a prima dell’arrivo di Salke) e ha pensato di metterla con Donald Glover, autore di Atlanta, l’altra serie di cui molto si è parlato negli ultimi anni (per Fx, cioè Disney). I soldi sono stati spesi in tre anni di accordo a 20 milioni di dollari l’anno, ma i due non sono mai riusciti a collaborare e anzi si sono più che altro scontrati. Ora sembra che Phoebe Waller Bridge per Amazon scriverà una serie su Tomb Raider di cui comunque non sarà showrunner. Progetti diversi che non hanno un’impronta o dei tratti in comune che li rendano “di Amazon”. Nessuno sa cosa sia una produzione Amazon, che stile o caratteri abbia.

Le serie a cui Jennifer Salke teneva di più, come Hunters o A League Of Their Own, sono costate molto e hanno portato poco. Ha attirato gli autori che avevano creato Westworld per Hbo, Jonathan Nolan e Lisa Joy e ha autorizzato una spesa di 175 milioni di dollari per 8 episodi della loro The Peripheral, un budget superiore a quello dell’ultima stagione di Westworld, per una serie senza lo stesso seguito, anzi. E avrà lo stesso una seconda stagione, per non inimicarsi Nolan e Joy. Internamente sembra che il privilegiare il rapporto con i grandi talent, più che il prodotto finale, abbia un nome: star fucking. E non è stata certo Citadel a convincere tutti che non fosse così.

Un’idea dei risultati

Non è possibile avere dati ufficiali sulle prestazioni di Gli anelli del potere ma le società di terze parti più affidabili, citate da The Hollywood Reporter, parlano di un 37% di spettatori che sono arrivati fino in fondo alla serie negli Stati Uniti e 45% nel resto del mondo. E di solito un tasso del 50% è considerato appena sufficiente. Anche per questo la seconda stagione avrà una piega drammaturgica più forte. Si discute sul fatto che la serie sia il maggiore successo di sempre per Amazon, e la cosa in sé è un problema, data la spesa. Gli anelli del potere è la quindicesima tra le serie più viste nel solo 2022, dietro all’undicesimo posto di The Boys (la prima di Amazon) e alle prime dieci posizioni occupate da produzioni Netflix. Sempre meglio del 2021, quando non c’erano produzioni Amazon nelle prime quindici posizioni.

Da Amazon sostengono che è normale che una prima stagione faccia questa fatica se deve costruire così tanto. Non è vero, gli esempi contrari sono molti, e sappiamo che nessuno tranne Jeff Bezos autorizzerebbe una seconda stagione di una serie così costosa che meno della metà delle persone finisce di guardare. E non è vero nemmeno che non ci sia da preoccuparsi, perché pochi giorni prima dell’uscita della serie è arrivato un inedito bando di 72 ore alle recensioni sulla piattaforma. Era chiaro che sarebbero state in gran parte negative. Motivo ufficiale era il timore del review bombing, cioè la pratica da parte di un ristretto gruppo di hater di subissare la rete con valutazioni negative dando l’impressione di essere una massa ben più grande unita dietro la stessa opinione. Amazon sapeva di avere i fan più forti contro, perché non li ha coccolati e blanditi come da tempo fanno le produzioni che maneggiano proprietà intellettuali così grandi e note. Di nuovo, Amazon ha agito da produzione piuttosto inesperta.

A prescindere dal review bombing, quando poi le recensioni sono uscite hanno sottolineato le difficoltà della serie. Il racconto seriale aveva due grandi ganci: il primo era la presenza di Sauron, il grande cattivo che ne Il signore degli anelli ha la forma di un occhio gigante che vede tutto e ordisce tutto, qui in una forma umana e mescolato tra i personaggi senza che gli spettatori potessero sapere chi fosse fino all’episodio finale; il secondo, l’ineluttabile destino di alcuni personaggi o di alcuni luoghi. Nessuno dei due si è rivelato in grado di catturare interesse. Il grande cast non ha lasciato emergere nessun talento e nessuno dei personaggi, alcuni dei quali anche noti e conosciuti all’interno del canone di Tolkien, ha avuto il carisma di imporsi. Il Guardian ha scritto di “performance da matinée di un teatro regionale”. Se il modello era Il trono di spade, cioè quello di una serie di storie che coinvolgono personaggi differenti unite da un fato comune che pende su tutti (l’arrivo di un nemico, la fine di un’era, o qui l’emergere del grande cattivo), la scrittura, i dialoghi e la recitazione non sono mai stati all’altezza. Qualcuno, come Eric Klein su Forbes, nel recensire la serie ha seriamente avanzato l’ipotesi che potessero aver usato software di intelligenza artificiale paragonabili a ChatGPT per imitare lo stile di scrittura di J.R.R. Tolkien, tanto i dialoghi gli erano sembrati disumani.

La drammaturgia di ogni episodio aveva la classica struttura multistrand della serialità ad alto costo e i valori produttivi erano sempre in primo piano. Gli anelli del potere è a tutti gli effetti una produzione imponente che mostra la sua imponenza, ma poi fatica molto ad avere una solidità narrativa a livello della spesa. Eccezionale negli scenari (su cui indugia non poco), fiacca negli interni più intimi. Su tutto la serie ha mancato il tono giusto. Piena di dettagli per appassionati e conoscitori, come indispensabile, non ha mai saputo fonderli con tutti i momenti pensati per chi invece non ha confidenza con il mondo di Tolkien. Sempre indecisa tra due tipi di pubblico, non ha avuto la capacità di tenerli insieme. È impossibile dire quanto una maggiore ingerenza esterna di un produttore accorto avrebbe potuto correggere la rotta, e quanto effettivamente sarà possibile correggerla nella seconda stagione, le cui riprese sono iniziate un mese dopo la messa online della prima e che uscirà nel 2024. Di certo la terza, quarta e quinta, che sono a tutti gli effetti pianificate, al momento sono sospese.

Ironia della sorte ha poi voluto che la serie Amazon nata per essere il loro Game of Thrones si sia scontrata direttamente con il vero seguito de Il trono di spade, House of the Dragon, serie di Hbo ambientata anch’essa centinaia di anni prima degli eventi del racconto principale. Se Gli anelli del potere ha perso spettatori a ogni puntata, House of the Dragon, partita sottotono, non ha fatto che guadagnarne. Alla fine, valutazioni indipendenti sostengono che i numeri delle due serie hanno finito per equivalersi, anche se la base utenti dotati di un abbonamento a Prime Video è molto superiore a quella degli abbonati a Hbo. Nessuno ha potuto contare le visioni pirata. Ma anche immaginando più visioni per Amazon c’è stata un’evidente supremazia culturale di House of the Dragon, discussa, rielaborata, inserita in articoli di costume e finita nei meme. Tutto quello che nel 2023 si può definire “essere culturalmente rilevante”.

Morale della favola

Il sistema dei media del 2017, quello in cui sono stati acquistati i diritti per una serie ambientata nella Terra di Mezzo pagandoli 250 milioni, e in cui è stata finanziata una prima stagione da 465 milioni, è stato radicalmente messo alla prova dalla pandemia, dalla borsa e dallo sport. C’è da dubitare che oggi Bezos spenderebbe di nuovo quelle stesse cifre per un’impresa simile, e non è chiaro come Amazon intenda uscire da questo impegno. È da vedere come e se annunceranno nuove stagioni dopo la seconda o una chiusura anticipata di un progetto che continuano a sostenere sia un successo e che non solo si è rivelato meno “culturalmente influente” di quello che sperava l’azienda, ma anche meno economicamente utile alla causa dell’aumento di abbonati rispetto alla nuova area sport, che richiede capitali e attenzioni per crescere. Sempre più i diritti di trasmissione degli eventi sportivi sono diventati cruciali per attirare e trattenere abbonati, e Amazon ha ottenuto successi notevoli con la trasmissione delle partite della Nfl, cioè la principale lega di football statunitense, un giorno a settimana. In molti hanno notato la differenza di atteggiamento recente che la società ha avuto nel parlare di Gli anelli del potere e delle trasmissioni delle partite di football. Sulla prima ha divulgato pochissimi dati e cercato di mantenere un buon riserbo; della seconda non fa che parlare, distribuendo continuamente dati di visualizzazione delle partite. Andy Jassy stesso ha definito lo sport come “un asset strategico unico, dotato di una capacità senza pari di attirare abbonamenti a Prime Video”.Che siano serie tv o eventi sportivi dal vivo ad Amazon non importa molto: qualunque cosa produca nuovi clienti Prime va bene. Per lungo tempo sono state le serie tv premium ad assolvere al compito, più di recente i vecchi studi di Hollywood hanno dimostrato come i grandi franchise possono svolgere questo ruolo altrettanto bene. Amazon ha sia prodotto serie originali molto ambiziose sia provato a cavalcare la tendenza con l’acquisto dello studio Mgm (con tutto il suo catalogo storico di proprietà intellettuali, 007 fra tutte) per 8,5 miliardi di dollari, ed entrando nella famiglia de Il signore degli anelli. Le due mosse al momento sono lontane dal dare frutti, mentre lo streaming sembra uscito ormai dall’era delle grandi produzioni originali a tutti i costi, e pronto a virare verso quella dei diritti live di trasmissione dei grandi eventi popolari. Anche per questo Gli anelli del potere resta un monumento gigantesco a un’epoca unica nella storia della tv, una che probabilmente proprio questa serie ha chiuso per sempre: quella in cui il racconto audiovisivo di qualità sembrava potesse essere un’arma fondamentale per la crescita finanziaria.


Gabriele Niola

Giornalista e critico di cinema, videogiochi e webserie, è stato selezionatore della sezione Extra del Festival del Film di Roma e per il Taormina Film Fest. Scrive per MyMovies, BadTaste, Wired, Leggo, Fanpage e i 400calci.

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