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Anche le app gay producono serie tv

Nell’era della molteplicità e abbondanza di contenuti, anche le app di incontri gay partecipano alla battaglia. Tra informazione, marketing e intrattenimento.

Per gli appassionati del mondo dello spettacolo americano il nome di Billy Eichner farà suonare più di qualche campanello: era il Craig Middlebrooks di Parks and Recreation, poi è comparso in altre serie tv come Difficult People di Hulu, la settima stagione di American Horror Story o Friends From College di Netflix. Istrionico e cangiante, ebreo e omosessuale, Eichner è un personaggio che si è fatto però conoscere soprattutto con la webseries Billy on the Street, in cui indossava la sua maschera più dirompente e andava in giro per le strade di Manhattan offrendo ai passanti un dollaro per sottoporsi a bizzarre domande di cultura pop, ma principalmente per farsi urlare in faccia. Accettavano quasi tutti.

Nel corso degli anni, il progetto che aveva debuttato su YouTube all’inizio degli anni Dieci è cresciuto arrivando sulla tv via cavo (prima su Fuse e poi su truTv) e ospitando nomi che vanno da Michelle Obama a Lindsay Lohan, da Emma Stone a Sarah Jessica Parker, da John Hamm a Chris Pratt. Il fatto notevole, però, è che dal 2018 la serie di clip demenziali ha lasciato il piccolo schermo per rientrare solo in una dimensione online: la sesta stagione, infatti, è tornata coprodotta da Lyft, ovvero la app rivale di Uber per procurarsi passaggi auto in città. La mossa è particolarmente bizzarra (un’applicazione digitale che non c’entra nulla con l’intrattenimento che investe soldi in un prodotto d’intrattenimento), ma pare rientrare in un ampio trend che riguarda la presenza sempre più pervasiva delle app nella nostra vita. Non è una novità che, negli ultimi anni, aziende di svariate tipologie si siano lanciate con modalità ed esiti diversi nel content marketing per stabilire un rapporto complesso e durevole con i consumatori, che esuli dalla semplice compravendita o persuasione. E in questa macro-tendenza, sempre più sono le aziende digitali a gettarsi in progetti di vero e proprio intrattenimento. In particolare, sono le dating app, e più specificatamente quelle di gay dating, a mostrare una particolare vitalità in questo settore.

Il mercato delle gay app

Per i poco esperti o per i più casti: le dating app sono dispositivi digitali che permettono di geolocalizzarsi, creare un profilo con le proprie foto e caratteristiche personali e cercare nei dintorni possibili partner che siano disponibili a incontri. Se app come Tinder sono rivolte a creare match fra persone di qualsiasi identità e orientamento sessuale (ma tendenzialmente sono utilizzate più dagli eterosessuali), da più anni esistono e hanno grande diffusione altre versioni che hanno un pubblico molto più targettizzato. Prodotti come Grindr o Planet Romeo si rivolgono in generale alla popolazione di gay maschi, mentre altre versioni si concentrano su sottocategorie dell’universo omosessuale (DaddyHunt per le persone mature, Scruff per gli adulti dall’aspetto grezzo e virile, Jack’d prevalentemente per le persone di colore ecc.), e altre ancora parlano alle donne lesbiche (Her, Brenda, Scissr), alle persone transgender (Transdr), ai bisessuali (BiCupid), e così via.

Cosa si cerca su queste app? Sesso in sostanza (fast sex, si dice ora), anche se la maggior parte degli utenti vi dirà che sono lì per trovare l’anima gemella, cosa che nel 2018 è tanto difficile quanto possibile. Eppure sarebbe sbagliato ridurre queste applicazioni a scannatoi o dark room virtuali. L’uso consuetudinario (a volte ossessivo) di queste funzioni da parte in particolare dei gay, target commerciale di grande pregio per chi si occupa di marketing, si rivela infatti una miniera di possibilità commerciali. Quando nel 2015 Madonna, non l’ultima arrivata in fatto di cavalcare i trend, lanciò la promozione del suo album Rebel Heart, conoscendo lo zoccolo duro dei suoi fan non esitò a fare un’operazione che solo qualche anno prima sarebbe stata tacciata di segregazione: ideò un contest pubblicizzato esclusivamente su Grindr, con in palio la possibilità di vincere una chat con lei, ovviamente sulla stessa app (nello stesso periodo aveva lanciato il videoclip di Living for Love in esclusiva su Snapchat).

Le occasioni sono ghiotte: secondo alcuni dati del 2017, un’app come Grindr può vantare dai 3 ai 5 milioni di utenti attivi al mese, per un totale di 27 milioni di iscritti dal lancio, che non sono nulla rispetto ai 10 milioni di utenti mensili stimati della più generalista Tinder, ma hanno il vantaggio di aver una profilazione molto più esatta delle persone che la usano. Se si incrocia questo dato con le maggiori capacità e predisposizione alla spesa della comunità Lgbt+ si capisce bene che sono notevoli le opportunità di monetizzazione per inserzionisti e in generale per i programmatori stessi, che riescono a mirare in modo più preciso le loro operazioni di marketing e i loro messaggi.

Un’app come Grindr può vantare dai 3 ai 5 milioni di utenti attivi al mese, per un totale di 27 milioni di iscritti dal lancio, che non sono nulla rispetto ai 10 milioni di utenti mensili stimati della più generalista Tinder, ma hanno il vantaggio di aver una profilazione molto più esatta delle persone che la usano. Se si incrocia questo dato con le maggiori capacità e predisposizione alla spesa della comunità Lgbt+ si capisce che le opportunità di monetizzazione per inserzionisti e produttori sono notevoli.

Verso l’intrattenimento e oltre

Il passo successivo, per queste stesse realtà, è stato appunto lanciarsi nel mondo dell’intrattenimento, rimanendo sempre nel mondo digitale. Sfidando tabù e ritrosie, molti di questi marchi di dating si stanno convertendo in questi anni in media company a tutti gli effetti. Di recente, uno dei casi più eclatanti, che si innesta anche nella passione per le serie tv dirompente negli ultimi anni, è l’operazione che DaddyHunt ha fatto su YouTube. Nel 2016 l’app rivolta ai daddy (uomini tendenzialmente sopra i 40 anni, più o meno pelosi e/o muscolosi) e ai loro ammiratori ha lanciato The Serial, una microserie online che ha avuto un discreto successo e di cui recentemente è stata diffusa la terza stagione.

Proposta appunto dal gennaio 2016, la prima stagione di The Serial consisteva in cinque brevissimi episodi di un paio di minuti ciascuno che mettevano in scena la storia di un ragazzotto trentenne che si imbatte nel suo prestante vicino di casa più grande di lui (scambiandolo peraltro per un manutentore): i due si invaghiscono, ovviamente dopo aver chattato prima su DaddyHunt. Le premesse, che sono tranquillamente quelle di un classico video porno, si evolvono in realtà in una trama di corteggiamento e insicurezze dai toni dolci e sensuali. “Abbiamo sviluppato la serie come puro strumento di marketing, volendo una finestra per raccontare cos’è l’amore fra daddy”, ha dichiarato Carl Sandler, il ceo della app, prima di ammettere che nessuno si aspettava quello che è diventato il progetto. Divenuto presto virale fra i membri della comunità, The Serial ha avuto una seconda stagione nel 2017 ed è stato poi rimontato per diventare un corto che è stato anche premiato come migliore produzione al Top Shorts Festival dello stesso anno. Ma l’effetto della webserie non è stato notevole solo in termini di notorietà: la bontà del progetto si è vista anche nell’impegno di inserire, in una più convenzionale narrazione romantica, tematiche importanti per il mondo Lgbt+. Nel corso degli episodi, infatti, si toccano argomenti come la PreP (ovvero la profilassi pre-esposizione, una terapia farmacologica che protegge dalla contrazione dell’Hiv) o la convivenza quotidiana con la sieropositività.

Nella terza stagione, ancora di più, gli autori hanno voluto sottolineare l’impegno sulla prevenzione sessuale, mostrando anche un cast di attori più diversificati dal punto di vista etnico (la comunità afroamericana negli Stati Uniti è la più afflitta dalla piaga dell’Aids), ed espandendo il discorso ad altre malattie sessualmente trasmissibili e alla comunicazione del proprio status al partner. Il tutto supervisionato dalla Building Healthy Online Communities (BHOC), un’associazione nata proprio per sensibilizzare su questi temi i frequentatori del web. L’altra faccia della medaglia della moltiplicazione delle opportunità di incontri sessuali sul web, infatti, è quella di una maggiore diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili e il reiterarsi dello stigma relativo. Il successo di The Serial sta nel veicolare certi messaggi con il realismo delle situazioni e, ovviamente, l’impiego di uomini decisamente attraenti.

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The Serial

La sensibilizzazione come step iniziale

Ma la sensibilizzazione è davvero spesso il punto di partenza della trasformazione di queste app in veri e propri produttori di contenuti. Lo stesso percorso è stato compiuto da Grindr: nel settembre 2018 la più popolare fra le gay app ha lanciato una piattaforma di video online chiamata Kindr (un gioco di parole fra il brand e il termine inglese kinder, “più gentili”). Si tratta di un’iniziativa che, attraverso le video testimonianze degli utenti, cerca di combattere molti atteggiamenti di razzismo e bullismo non così rari in questo tipo di chat. Dopo secoli di discriminazione, alcuni componenti della comunità hanno interiorizzato queste dinamiche e nei loro profili scrivono anatemi del tipo “no grassi, no asiatici, no trans, no effemminati ecc”. La stessa app ha aggiornato di recente le sue linee guida e in questo videoprogetto cerca di contrastare fenomeni come l’odio razziale, il fat shaming, la transfobia.

Altro tema delicato resta quello della sieropositività, su cui la stessa Grindr ha accumulato negli anni la sua bella dose di polemiche, dopo essere stata accusata di permettere di profilare la ricerca degli utenti (oltre ad altri criteri come l’età, il fisico, il ruolo sessuale ecc.) anche tramite lo status Hiv, o ancora di aver venduto a società terze i dati dei propri utenti, compreso appunto il loro status. Un progetto come Kindr non è tuttavia solo un tentativo di ripulire la propria immagine, ma anche di creare una specie di sensibilità comune in una comunità che, spesso emarginata o clandestina, rischia di sviluppare al sup interno gli stessi comportamenti tossici che subisce all’esterno.

Ma la mediatizzazione delle gay app non si limita a questo. Sempre Grindr nel 2017 aveva lanciato il suo portale d’informazione, chiamato Into: una media property che si occupa del mondo queer a 360 gradi, spaziando dalla cultura pop alla politica (massiccia è stata la loro copertura dei candidati Lgbt+ durante le ultime elezioni di mid-term negli Stati Uniti), dalle testimonianze di persone dal mondo agli ultimi trend della moda, il tutto in chiave molto social e molto millennial. Ulteriore e agrodolce segnale del valore “maturo” che questo progetto ha per l’azienda – in anni in cui “content is the king but video is God” – è la notizia arrivata nel gennaio 2019: a due anni dal lancio sono stati infatti annunciati tagli al personale editoriale in seguito alla scelta di razionalizzare le risorse e concentrarsi maggiormente sulla produzione video, “motivata dal maggior engagement degli utenti su canali come Twitter e YouTube”. Ciò non toglie che alla produzione editoriale si sia rivolto anche Planet Romeo, uno dei siti pionieri del dating omosessuale e per di più (a differenza delle altre realtà citate finora) nato in Europa: da quasi un anno ha lanciato un blog, dove oltre a suggerimenti su come utilizzare al meglio la app, parla anche di arte, cultura, viaggi ed eventi.

Quale è dunque lo scopo di queste iniziative? Da una parte c’è sicuramente l’esigenza di mantenere un dialogo forte con i propri utenti, lavorando sul fatto di avere un’idea estremamente precisa del loro profilo e dei loro interessi, lavorando anche su temi delicati come la prevenzione. Dall’altra c’è anche un’esigenza di normalizzazione a livello di marketing: con queste operazioni di comunicazione “pulita”, Grindr, Romeo e DaddyHunt vogliono dimostrare di riuscire a convogliare su canali non prettamente sessuali i propri utilizzatori, così da convincere anche gli investitori più restii della bontà dei propri spazi pubblicitari e della forza del proprio bacino d’utenza.

Un’operazione simile di apertura al marketing generalista l’ha compiuta, soprattutto in Italia, il sito PornHub, aggregatore di video hard. Tramite una serie di campagne pubblicitarie decisamente ironiche e comunicati stampa di grande appeal (i generi di video più visti nazione per nazione, il picco di pubblico femminile sul sito durante i Mondiali di calcio), il brand è riuscito a imporsi come realtà conosciuta al di là della dimensione dell’onanismo virtuale. Fra le iniziative più concrete c’è stata l’apertura di un pop up store a Milano nel dicembre 2017, inserendosi nel periodo più “sacro” dell’anno come fonte alternativa di regali di Natali; e la solida collaborazione con il cantante dissacrante Immanuel Casto, con cui all’ultimo Lucca Comics & Games nel novembre 2018 ha lanciato il gioco di carte Red LightA Star Is Porn, tramite le quali (illustrate da Milo Manara, ancora per mischiare alto e basso) ci si immedesima in produttori di film hard pronti a tutto per portare i propri film al successo.

Marketing come tutti gli altri

Queste iniziative si inseriscono in una tendenza che è al contempo specifica di questo tipo di app e generale per quanto riguarda le aziende digitali. In tempi di laicizzazione tecnologica e valoriale, le applicazioni legate al sesso vogliono in qualche modo ripulirsi non rinunciando alle caratteristiche proprie (che d’altronde tengono ben appiccicati i loro utenti), ma riciclandole in un universo di contenuti che possa essere di appeal anche per utenti indiretti, ma ancora di più per agganciare quelli diretti, in modo ininterrotto, anche al di fuori dell’uso della chat. D’altronde tutto questo si inserisce in un fenomeno più grande, per cui le app che usiamo più di frequente sul nostro smartphone sono anche quelle che più di tutte vogliono monopolizzare il nostro tempo, la nostra attenzione e i nostri soldi.

C’è anche un’esigenza di normalizzazione a livello di marketing: con queste operazioni di comunicazione “pulita”, Grindr, Romeo e DaddyHunt vogliono dimostrare di riuscire a convogliare su canali non prettamente sessuali i propri utilizzatori, così da convincere anche gli investitori più restii della bontà dei propri spazi pubblicitari e della forza del proprio bacino d’utenza.

In Cina, per esempio, l’app di messaggistica WeChat (la più utilizzata nel Paese asiatico con 100 milioni di utenti) ha di recente lanciato dei minigiochi che vogliono tenere incollati i phone-addicted e veicolare pubblicità nell’ambiente ludico. L’obiettivo insomma è preciso: non farci distrarre da altro che non siano i contenuti e gli sponsor che un determinato brand vuole offrirci. Questo con il pubblico delle gay app funziona in modo ancora più pervasivo, se non ossessivo: studi recenti dimostrano come grandi fette del pubblico omosessuale (circa il 77%) sia frustrato o insoddisfatto dal suo utilizzo delle app ma al contempo non riesca a staccarsene, con casi di uso consecutivo anche per 10 ore; alcuni osservatori sottolineano le potenziali ricadute sull’equilibrio mentale di una popolazione già più predisposta ad abusi e discriminazioni, a cui si aggiungono spesso standard di prestanza fisica e sessuale inarrivabili (modellate peraltro dalla stessa industria del porno).

La trasformazione delle gay app in produttori di contenuti lavora dunque su un terreno duplice e spesso contraddittorio: più è alta l’illusione di un’offerta sessuale senza limite, pur con risultati solo di rado soddisfacenti, più si ricorre alle app per saturare i propri desideri ormai potenzialmente infiniti. Al contempo l’aumento dei contenuti offerti aggancia ancora di più l’utente, anche se come si è visto spesso riesce a veicolare messaggi di inclusione e prevenzione che cercano di ovviare alle storture del sistema promiscuo di incontri. È un circolo vizioso che cerca di diventare virtuoso, costringendosi però all’interno di un ecosistema che vuole diventare ermetico: è positivo ampliare i propri interessi e la propria sensibilità, ma solo fino al prossimo match.


Paolo Armelli

Laureato in Lettere Moderne, prestato alla pubblicità, scrive online di libri, moda, media e altre amenità. Ha un blog (liberlist.it).

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