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Il processo in America Latina. Intervista ad Andrea Occhipinti

Nelle ultime settimane, Il processo è stato tra le serie più viste su Netflix in America Latina. Perché? E cosa ci può dire sulla fiction italiana contemporanea? Ne abbiamo parlato con il produttore.

Scorrendo le classifiche delle serie televisive più viste su Netflix nei vari Paesi del mondo, quelle che la piattaforma ha introdotto da qualche tempo per fornire alcuni appigli e bussole in più agli spettatori, si fanno scoperte interessanti. Per esempio, ci si può accorgere quasi per caso che Il processo, la fiction italiana con Vittoria Puccini e Francesco Scianna alle prese con un delicato procedimento legale, occupa i primi posti tra le visioni di aprile di quasi tutta l’America Latina, con il miglior risultato in Uruguay e piazzamenti importanti in Argentina, Messico, Brasile. Dopo una prova non propriamente brillante su Canale 5, questa miniserie in otto puntate sta ottenendo una seconda vita sulle piattaforme on demand, disponibile su Netflix sia in Italia sia in numerosi mercati stranieri.

Da un lato, si conferma la forte tendenza delle produzioni audiovisive italiane contemporanee a cercare – e, sempre più spesso, trovare – spazio anche altrove, su reti e piattaforme desiderose di aumentare la varietà della loro offerta e sempre attente a tutto ciò che soddisfa standard visivi e narrativi elevati. Non viaggiano solo le grandi coproduzioni internazionali, le serie girate già in inglese o con star di tutto il mondo, i titoli original dei gruppi operanti su differenti mercati, ma anche le produzioni nazionali più ambiziose, pensate in primis per il pubblico italiano ma capaci di toccare corde trasversali. Si attivano i diritti per finestre globali prima sopite, si investe nel doppiaggio in altre lingue: e funziona. Dall’altro lato, il caso de Il processo mette anche in luce la rilevanza di uno specifico mercato, quello latino-americano in lingua spagnola e portoghese, e del suo speciale legame con l’Italia, dalle radici storiche profonde ma rinnovato nel contesto digitale. Sono frequenti, in assenza di dati precisi, le voci industry che attribuiscono il proseguire di questa o quella serie Netflix (da Suburra a Baby e a Summertime) alla sua fortuna nell’America centro-meridionale. Come scrive Ramon Lobato in Netflix Nations, da poco uscito in traduzione italiana, la regione è stata tra le prime traiettorie di espansione della piattaforma di Los Gatos fuori dagli Stati Uniti, per via dell’omogeneità linguistica e di “una classe media numerosa, infrastrutture cable dignitose e una forte familiarità con la pay tv”. Si è investito molto, ha funzionato, e di questo successo godono così pure molte serie italiane, che trovano un pubblico numeroso e inatteso.

Per ricostruire più in dettaglio questa storia, e capire se possa diventare una strada fruttuosa per molta fiction italiana, ne abbiamo parlato con Andrea Occhipinti, il fondatore di Lucky Red. Dopo una lunga carriera nella distribuzione e produzione cinematografica, proprio Il processo è stato il suo esordio con la fiction televisiva. In una chiacchierata su Skype dalle rispettive quarantene, il produttore ha sottolineato i molti ingredienti che hanno permesso la popolarità altrove: i diritti, i legami, il genere, il formato.

Diamo un po’ di contesto. Come è nato Il processo, da dove arriva l’idea, e quali sono stati i suoi primi passi?

Il progetto ce l’ha portato il creatore, Alessandro Fabbri, ed è stato scovato dalla nostra responsabile editoriale, Serena Sostegni, che prima lavorava in Cattleya e da due anni è con noi a Lucky Red. Era un’idea interessante, un procedural come quelli che di solito troviamo nelle serie americane, però italiano. Inizialmente era un po’ diverso, con quattro punti di vista di altrettanti protagonisti che poi in seguito abbiamo concentrato nei due personaggi principali, ossia il pubblico ministero e l’avvocato difensore dell’accusata. C’è il tribunale, c’è il thriller, e c’è anche un aspetto melò. Abbiamo portato questa idea a Mediaset, al direttore della fiction Daniele Cesarano, e ne hanno subito colto la forza. Hanno voluto fare la serie, e noi siamo loro molto grati perché è stato il nostro primo impegno produttivo sulla serialità televisiva: dopo più di trent’anni di produzione audiovisiva, era la nostra prima serie.

Una prima volta, insomma…

Sì. E ci tenevamo a farla bene, a dare attenzione a ogni dettaglio, alla scrittura, alla qualità visiva, all’ambientazione. Per esempio, non volevamo collocare il racconto a Roma o a Milano, come previsto in origine, e abbiamo avuto la fortuna di trovare la disponibilità di Mantova, una piccola città, un contesto molto italiano, con palazzi storici e location affascinanti, che caratterizzano in modo forte e originale Il processo dal punto di vista visivo. Abbiamo cercato a lungo il regista, e poi Stefano Ludovichi si è appassionato alla serie e le ha dato un tocco in più, uno smalto moderno, un’aria da produzione più nordeuropea – come ci è stato fatto notare al MIA dell’anno scorso. Lo stesso vale per la musica, per la costruzione dei personaggi. Serviva un volto televisivo forte e siamo stati tutti d’accordo su Vittoria Puccini, una scelta vincente, e su Francesco Scianna, attore brillante e istrionico. Insomma, abbiamo assemblato una serie di elementi secondo noi vincenti, e ne siamo molto soddisfatti.

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Il pubblico generalista italiano non sembra però aver apprezzato particolarmente questo sforzo produttivo.

Peccato, peccato davvero. Il tentativo di dare un corso nuovo alla fiction di Mediaset è un segnale importante, per noi produttori è vitale che alcuni titoli stiano segnando un cambiamento nello stile e nella scrittura. Le prime due puntate però non sono andate bene [share del 10,22%, n.d.r.] e le successive sono state allora accorpate in due serate. Nel frattempo, anche Netflix ha visto la serie e ne ha capito le potenzialità per il suo pubblico: quindi l’ha comprata, e da aprile è in tutto il mondo.

Cosa ha portato Lucky Red a spostarsi sulla produzione di fiction?

Lucky Red è società che ha sempre avuto cambiamenti ed evoluzioni, incorporando nuove cose. Nasce come piccola società di distribuzione di film d’autore, spesso poco conosciuti, o che comunque sono diventati conosciuti pian piano: Kaurismäki, Ang Lee e così via. Poi abbiamo allargato l’orizzonte, cominciando a distribuire film più commerciali, produzioni americane o europee con potenzialità, ed è stato un passaggio importante, per poter lavorare anche sui diritti televisivi, pay e free, in cui il mondo dell’arthouse cinema ha meno valore. Qui è stato fondamentale stabilire rapporti solidi con i broadcaster e le reti, a cui fornivamo prime serate o comunque film televisivamente importanti. Questa è stata la prima rivoluzione. La seconda rivoluzione è stata invece l’incremento della produzione. Dal 1995 in poi avevamo occasionalmente partecipato ad alcune produzioni, quasi sempre con altre società che avevano un ruolo esecutivo: è successo con Sorrentino insieme a Indigo, con Martone e tanti altri film. Abbiamo deciso di entrare in prima persona nella produzione dopo l’arrivo delle piattaforme: spesso nei mercati le cose a cui eravamo interessati erano comprate da loro, certi titoli che avevamo già acquisito erano poi ricomprati dai titolari dei diritti in buy-back perché erano arrivate la Netflix o l’Amazon di turno che volevano il film per tutto il mondo. Avevamo più difficoltà a trovare film interessanti, importanti. E intanto sono nate molte più opportunità a livello locale: la legge Franceschini e il tax credit, gli obblighi di investimento delle televisioni, l’arrivo prima di Sky e poi dell’on demand che ha dato nuovi stimoli e vitalità alla produzione audiovisiva italiana. Mediaset prima aveva una sua linea, Rai aveva una sua linea, ma poi è arrivata Sky che ha fatto da apripista nei linguaggi, nelle innovazioni, nel rischio, da Romanzo criminale a Gomorra e così via; e ora Netflix e Amazon hanno accelerato ancora, e anche per tutti gli altri si è alzata un po’ l’asticella. Il processo nasce in questo quadro, ha standard più elevati, cinematografici. C’erano molte più opportunità, e ci è sembrato cruciale fare quel passo deciso, prima nella produzione di singoli film (anche per Netflix) e poi allargandoci alla serialità. Una scelta giusta, e ce ne siamo resi conto anche in queste settimane di emergenza, quando broadcaster e piattaforme hanno accelerato lo sviluppo di nuovi progetti, le richieste di film e serie da fare e produrre. Sono mesi movimentati. E poi abbiamo molteplici attività: la distribuzione internazionale di film insieme a Indigo con True Colors, la nuova piattaforma digitale MioCinema che vuole porsi come un’estensione dell’esperienza in sala.

Torniamo al caso de Il processo. Com’è avvenuta la ripartizione dei diritti con Mediaset, e quindi quali margini ci sono stati per la creazione di una seconda finestra, italiana e globale, su Netflix?

Sull’Italia Mediaset ha la totalità dei diritti di messa in onda free, mentre noi abbiamo il 100% dei diritti pay e home video e ci dividiamo a metà quelli per il subscription-video-on-demand (Svod). Sull’estero, invece, i diritti sono del tutto nostri. Anche questo è un effetto positivo della legge Franceschini: la condizione per ottenere il 30% di tax credit è che il produttore conservi una parte dei diritti e non si limiti soltanto a fare da fornitore per un broadcaster o una piattaforma.

Se un ingrediente importante è la disponibilità dei diritti, l’altro è avere dei contatti già avviati con gli operatori, ed è sicuramente stato il vostro caso con Netflix. Questo vi ha aiutato a vendere i diritti de Il processo?

Essendo, per così dire, uno dei fornitori di Netflix in Italia avevamo un dialogo. Sulla mia pelle è stato uno dei film più visti sulla piattaforma, uno dei prodotti che l’ha fatta conoscere in Italia, e da allora per loro siamo stati un interlocutore importante. Questo facilita, ma si tratta di proposte, di richieste, c’è un mercato. Seguono con attenzione quello che facciamo, valutano i progetti che abbiamo in cantiere.

E questo ha posto le basi per la circolazione internazionale della serie, per la sua seconda vita…

Sì, Netflix ha reso disponibile Il processo non solo in Italia ma anche nel resto del mondo. Non abbiamo dati precisi, solo indicazioni, ma possiamo dire che in molti mercati è stata un successo. La serie è stata prima sulla piattaforma in Uruguay (davanti a La casa di carta!), terza in Argentina, terza in Messico, settima in Brasile, e in generale ha avuto ottimi risultati nel mercato latino-americano nel primo mese. Molti quotidiani e riviste locali ne hanno scritto, se n’è parlato. Ed è andata molto bene anche in Belgio, Olanda e Lussemburgo, e in Francia, dove abbiamo avuto critiche ottime, anche su Le Figaro. E i motivi credo siano tanti. Per esempio l’attrice, Vittoria Puccini, che è molto conosciuta anche grazie a un film da noi prodotto come 18 regali, anch’esso distribuito nel mondo da Netflix. Netflix ha creato uno spazio che prima non c’era, un’utenza per produzioni italiane che di solito non circolano altrove.

Un fattore spesso trascurato è anche il doppiaggio, visto che Il processo è stato reso in altre lingue…

Sì. Netflix ha deciso di doppiare in varie altre lingue: lo spagnolo, il portoghese, l’inglese, il francese. È una decisione che prendono a partire da considerazioni sulle potenzialità della serie in un territorio o in un altro. In particolare, puntavano sull’America latina, perché il doppiaggio non è fatto in castigliano-spagnolo ma ha un accento generico latino-americano. Che per gli spagnoli è un po’ strano.

“La serie è stata prima sulla piattaforma in Uruguay (davanti a La casa di carta!), terza in Argentina, terza in Messico, settima in Brasile, e in generale ha avuto ottimi risultati nel mercato latino-americano nel primo mese. Molti quotidiani e riviste locali ne hanno scritto, se n’è parlato. Ed è andata molto bene anche in Belgio, Olanda e Lussemburgo, e in Francia”.

Quali altre ragioni vi siete dati per spiegare questa fortuna in numerose aree del mondo?

Credo contino lo stile, il ritmo, le musiche, combinate a un’ambientazione molto da vecchia Europa, con il borgo italiano, la città d’arte come Mantova, il contrasto tra l’ambientazione classica e la patina moderna. Poi il thriller, i colpi di scena, l’aspetto anche un po’ melodrammatico, la storia personale di lei, la figlia data in adozione. Penso che sia stato questo a colpire il pubblico latino-americano.

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Forse conta anche il genere del racconto, estremamente chiaro e facile da decodificare e riconoscere? Alcune ricerche universitarie come DETECt stanno indagando proprio la dimensione europea e globale del crime: la variante procedural, all’americana, fa parte magari di un linguaggio comune, condiviso, e diventa così un valore aggiunto?

Sì, è un classico, uno dei generi che più funziona perché in qualche modo è adattabile a ogni realtà. C’è sempre un po’ di morbosità dietro al crimine, alla volontà di capire cosa c’è nella mente dell’assassino o come sono andate le cose. È un fattore che aggancia il pubblico sempre. E anche oggi è uno dei generi che più funziona, in televisione e anche al cinema, ha soppiantato l’azione. Quello che fa la differenza sono le diverse declinazioni che puoi dare al genere. Gomorra è una declinazione specifica, Suburra pure, ognuno ha la sua strada, la sua particolarità e la sua grana visiva, il suo linguaggio. Una conversazione interessante che abbiamo avuto con Netflix è stata rispetto a una serie che volevamo fare, ed eravamo in dubbio se addirittura realizzarla in inglese, ma ce l’hanno sconsigliato: “di serie inglesi e americane ce ne sono tantissime, it’s just another series”, mentre altre lingue sono diventate un valore, l’esotismo che incuriosisce il pubblico. Sulla piattaforma c’è un miscuglio di produzioni locali di tutto il mondo, e trovi roba brasiliana, asiatica, messicana, e spagnola, francese, italiana. E gli spettatori sono interessati.

Una combinazione di elementi e meccanismi narrativi globali, pressoché universali, quali il crime, e di caratteristiche invece iperlocali, specifiche, inedite, insomma. Un’altra possibile ipotesi per questo successo ci è sembrata anche il formato…

Otto episodi, una stagione compatta. Per come è scritta, vuoi arrivare velocemente alla soluzione del caso. È concentrata, crea una serie di abboccamenti e piste che portano presto alla conclusione. Ho sempre trovato una struttura simile particolarmente intrigante, una limited series che ti tiene dentro, che non puoi guardare distrattamente con il rischio di perdere dettagli e retroscena. Forse è questo che ha tenuto lontano il pubblico generalista, più distratto, ma anche che garantisce il successo on demand.

Quali lezioni si possono imparare, secondo te, dal caso distributivo de Il processo? C’è un percorso diverso dalla coproduzione che è percorribile anche da altre fiction italiane?

Sì, per certe narrazioni è un percorso adatto. Ci sono le produzioni tipicamente nazionali e che difficilmente viaggiano, come le commedie. Ci sono i progetti da subito internazionali. Questa terza strada è un’opportunità interessante, una conferma del buon riscontro che grandi e medie produzioni italiane possono ottenere all’estero. Prima non succedeva, contava solo l’ascolto della prima serata di Raiuno o Canale 5, non c’era neanche la preoccupazione di dare un respiro globale. Ma ora, grazie al cinema e sempre più spesso alla televisione, siamo abituati a questo dialogo, a questo sguardo, su quanto di italiano può funzionare all’estero. Se non si può coprodurre, ipotizzare una seconda vita all’estero è la strategia ideale per molti titoli, un guadagno ulteriore e una nuova brillantezza.

A che punto siamo, nell’evoluzione della serialità televisiva di produzione italiana? Dopo una fase di grande sviluppo, c’è una sorta di assestamento o intravedi ancora margini di crescita?

Non ho una visione così completa o globale su quello che succede, ma la mia percezione è che non c’è dubbio che l’Italia sia ora molto più centrale rispetto a qualche anno fa nel mondo dell’audiovisivo. C’è molta più curiosità, più interesse per quello che viene da noi. E c’è una varietà di proposte. Mi sembra un buon momento. Un buon numero di società di produzione si muove abbastanza bene in termini di proposte, relazioni, sviluppo di progetti. C’è un buon tessuto, più piccolo rispetto alla Francia o Spagna ma non di molto, e che sta riscuotendo interesse. Il fatto che molte case siano acquisite vuol dire che c’è attenzione ai loro talenti e alle loro potenzialità. Sarei più ottimista che pessimista, insomma. Come ha detto Reed Hastings quando a ottobre 2019 ha presentato i progetti in collaborazione con Mediaset, anche in Italia i prossimi cinque anni saranno un buon momento per i produttori, non c’è dubbio.

“Ci sono le produzioni tipicamente nazionali e che difficilmente viaggiano. Ci sono i progetti da subito internazionali. Questa terza strada è un’opportunità interessante, una conferma del buon riscontro che grandi e medie produzioni italiane possono ottenere all’estero. Prima non succedeva, non c’era la preoccupazione di dare un respiro globale. Se non si può coprodurre, ipotizzare una seconda vita all’estero è la strategia ideale per molti titoli, un guadagno ulteriore e una nuova brillantezza”.

Certo l’ha detto però alle soglie di un’emergenza del tutto inattesa, che ha travolto anche i media e la produzione tv. Come sarà, secondo te, l’autunno che ci aspetta, da questo punto di vista?

Paradossalmente queste settimane hanno rafforzato in modo pazzesco questo mondo, piattaforme che non sono mai sembrate così stabili. L’asse della Terra improvvisamente si è spostato un po’, e da questa botta Netflix è più forte che mai. Noi stiamo continuando a lavorare molto, nello sviluppo dei progetti, nella scrittura. Poi certo il tema principale ora è come potremo girare, perché un sacco di produzioni devono entrare in cantiere e non è chiaro come faremo. Stiamo ragionando sui protocolli, li stiamo confrontando tra le nazioni. Sarà più complicato, sarà più costoso, richiederà più tempo. Vedremo.


Luca Barra

Coordinatore editoriale di Link. Idee per la televisione. È professore ordinario presso l’Università di Bologna, dove insegna televisione e media. Ha scritto i libri Risate in scatola (2012), Palinsesto (2015), La sitcom (2020) e La programmazione televisiva (2022), oltre a numerosi saggi in volumi e riviste.

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