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Sanremo

Per nove euro si può visitare il Teatro Ariston

La storia del Festival della canzone italiana è anche la storia del teatro Ariston e dei momenti indimenticabili che hanno segnato i suoi spazi. Ripercorriamo alcune delle pagine più significative della sua storia attraverso i ricordi dei suoi protagonisti.

Non durante il festival, ci mancherebbe, ma durante il resto dell’anno è possibile, come spiega il sito dell’Ariston: “Un percorso guidato nei camerini, nei corridoi e nelle sale da cui sono passati più importanti artisti del mondo. Vi apriremo le porte del teatro come succede ai grandi ospiti per portarvi alla scoperta dei segreti delle curiosità di questo luogo magico. Un’esperienza unica, l’occasione per vivere da protagonisti la storia della musica e dello spettacolo del nostro paese”. È vero: sono passati tutti o quasi da lì, anche Liza Minnelli e Rudolf Nureyev con i rispettivi spettacoli. Quel teatro cinema multisala però è diventato ancora altro quando nel 1977 è arrivato il Festival della Canzone Italiana. È allora che l’Ariston si trasforma pian piano in un luogo dell’immaginario, ogni volta osservato, ricordato, raccontato con un differente punto di vista.

La scatola magica di Sanremo

Doveva essere una sistemazione temporanea, e invece. Spiega Eddy Anselmi, storico del festival: “Come ogni storia di successo, anche quella di Sanremo è fatta di opportunità impreviste, che arrivano nella storia e la cambiano con la stessa modalità aleatoria di una carta del Monopoli. Una di queste è l’inagibilità per motivi di sicurezza del Casinò che nel 1977 rende necessario il trasferimento al Teatro Ariston. E quindi si verificano due coincidenze in una volta: il teatro Ariston e il primo Sanremo a colori. Intanto le radio private appena nate cominciano a mandare le canzoni del festival. Il festival è stato dato per morto l’anno prima perché, pur con numerosi big, non aveva avuto alcun tipo di successo commerciale. Ma il festival del ‘77 invece funziona, e funziona all’Ariston e funziona a colori. Successivamente rimane al’Ariston perché i lavori provvisori del casinò vanno avanti, e perché si capisce la versatilità di questo impianto che ormai è il teatro più importante di Sanremo, molto più del casinò”. Mario Maffucci, storico capostruttura di RAI 1 che si è occupato di molti Festival e di altre trasmissioni in diretta dal teatro, sostiene che: “Gli uomini di televisione sostengono che il palcoscenico dell’Ariston fa, da solo, tre punti di share in più”.

L’opportunità imprevista del ‘77 è colta dalla famiglia Vacchino, che in città gestisce cinema, cafè chantant e teatri fin da inizio Novecento. La loro storia è parte dell’affascinante storia dell’imprenditoria dello spettacolo popolare italiano, ed è raccontata in Ariston. La scatola magica di Sanremo (Salani), a firma di Walter Vacchino, proprietario del teatro che gestisce insieme a sua sorella Carla, e Luca Ammirati, responsabile della sala stampa del teatro. Nel 1953 Aristide Vacchino, padre di Walter, inizia la costruzione dell’Ariston: la volontà è quella di restituire alla città un grande teatro, dopo che il principale, il Principe Amedeo, è stato distrutto dai bombardamenti. Ci vogliono dieci anni, ma ben presto il teatro e cinema multisala Ariston (dal greco ἄριστον, migliore o eccellente, ma anche perché ad Aristide piace la radice Ari in comune) diventa un importante luogo per l’intrattenimento dei sanremesi. Nel 1977 arriva poi il festival, che irrompe nella vita dei Vacchino come un lampo: “Ogni passo che viene mosso in questo mondo, ogni nota, strofa e ritornello destinati a entrare nelle orecchie, nelle menti e nei cuori dei telespettatori, è in parte anche affar nostro” spiega Walter Vacchino nel libro. Nel 1980 muore suo padre, e Walter con sua sorella si trova improvvisamente ad abbandonare i sogni da architetto e a seguire “il suo destino”. C’è nel suo racconto quello sguardo di passione e amore, perché l’Ariston è evidentemente non solo un luogo di lavoro ma un luogo di famiglia, anzi una parte della sua famiglia.

Lo spazio è lo spettacolo

Se la fine degli anni Settanta è ancora un momento difficile per il festival (ma va così la sua storia, tra alti e bassi), gli anni Ottanta vedono progressivamente la sua rinascita: “Allora si segue la gara fra il palcoscenico e i camerini nei quali è possibile vedere Tina Turner che prova i balletti dietro le quinte, o può capitare di imbattersi in un giovanotto di nome Peter Gabriel mentre fa le smorfie allo specchio”. Il festival rimane all’Ariston, più attrezzato e moderno del Casinò, e avviene così la definitiva unione tra le due entità, spiega ancora Vacchino: “Per molti motivi, questa manifestazione è diversa da ogni altra. Il Festival non rende l’Ariston solamente popolare. Lo rende unico. E l’Ariston fa la stessa cosa con il Festival. È la più straordinaria storia di successo italiana nell’ambito dello spettacolo. L’insegna del teatro finisce ovunque. In televisione, nelle foto che ritraggono artisti famosi, sulle copertine delle riviste. E all’Ariston passa il mondo”.

Quel luogo entra definitivamente negli occhi dei telespettatori italiani. Il loro è un punto di vista fatto di immagini, e poi di ricordi. È lo sguardo che abbraccia tutto il palco, e poi lo stacco per inquadrare protagonisti e cantanti. È un luogo cornice, quasi un quadro, con una visione ravvicinata sui protagonisti ma per lo più frontale, ed evidentemente “teatrale”. Che negli ultimi anni si è fatta più mobile, grazie alla regia che ha giocato attorno alle esibizioni, muovendosi nello spazio e allargando quel che vediamo. E poi c’è la platea, più o meno protagonista, tra applausi e fischi, e che può anche essere un nuovo palcoscenico, come quando Pippo Baudo nel 1996 che presenta Bruce Springsteen. Anche se forse l’operazione più riuscita per desacralizzare e poi risacralizzare l’Ariston e il festival è stata quella di Fabio Fazio nel 1999, quando invitò personaggi di tutti i tipi e persone comuni a presentare i cantanti. Tutti possono essere conduttori, e quindi tutti possono essere all’Ariston.

Il Festival non rende l’Ariston solamente popolare. Lo rende unico. E l’Ariston fa la stessa cosa con il Festival. È la più straordinaria storia di successo italiana nell’ambito dello spettacolo. 

“In effetti a ripensarci con il Sanremo del 1999 abbiamo un po’ dimostrato che tutti potevano avere i loro 15 minuti di sanremità, e lo si vede oggi ormai grazie al televoto, alla condivisione sui social, al FantaSanremo” racconta Pietro Galeotti, storico autore televisivo di diversi programmi e di diversi festival cui quelli di Fabio Fazio (1999, 2000), Giorgio Panariello (2006), Fazio e Littizzetto (2013 e 2014), Claudio Baglioni (2013, 2014). “L’Ariston ha una struttura misteriosa, stratificata. Una cosa che ti sorprende quando arrivi è che quella sensazione di glamour e opulenza in realtà non c’è: è un buon teatro-cinema, ma ha spazi angusti, tanto che sia i cantanti che gli autori sono quasi sempre ammassati nel backstage”. La sala e il palco dell’Ariston infatti sono piccoli: è la prima differenza che noti quando il punto di vista non è più da spettatore televisivo ma da fruitore sul campo, per così dire. La Tv rende più grandi. Però è forse questa particolarità che rende speciali le esibizioni in quel contesto: da un lato un’immensa platea televisiva immaginata e lontana, dall’altro una platea così vicina che la guardi negli occhi.

Come il Festival non vive solo di dirette, anche il suo teatro vive al di là del suo perimetro. Tutto lo spazio attorno diventa palco e platea: la gente si accalca lì per vedere passare cantanti e personaggi, tanto che questa pressione esterna è stata sempre più utilizzata dalla Tv, con le dirette prefestival, i red carpet e perfino qualche esibizione, vedi Laura Pausini nel 2018. Vale anche per il backstage: certo, non coglieremo mai i cantanti così alla sprovvista come Vacchino, però qualcosa ci arriva grazie al documentario Tra palco e realtà. Pure la sala stampa, all’ultimo piano del teatro, è diventata sempre più negli anni un luogo visibile, grazie anche alle dirette in streaming delle conferenze. Senza contare tutto quello che arriva dai social, e cha ha contribuito a moltiplicare ulteriormente lo spazio del Teatro Ariston.

Questo allargamento degli spazi e dello stesso festival è ben spiegata da Galeotti: “Sanremo è un canone e quindi ci sono delle regole da rispettare: la scala, i fiori, le canzoni. Chiaro che poi ti concentri su quello che deve essere detto su quel palco, ma dal punto di vista tecnico la parte più difficile è la costruzione di una scaletta: da un lato cerchi di essere creativo ma dall’altro lato devi gestire i cosiddetti inciampi tecnici della diretta in modo da poter fare uno spettacolo fluido. Ad esempio quando è necessario fare un cambio palco perché magari deve entrare una band, decidere dove mettere il conduttore e come riempire quel momento. Una volta si tendeva a fare lo spettacolo tra le canzoni, adesso si cerca di amalgamare di più lo spettacolo nelle canzoni. D’altra parte adesso anche lo spazio fuori dall’Ariston è diventato uno spazio per il festival, poter uscire ti consente di ripulire il palco per esigenze tecniche e di moltiplicare le occasioni di scrittura. In un certo senso il centro stesso della città di Sanremo è un unico set, che consente agli autori occasioni di spettacolo che prima non avevi perché dovevi sottostare alla dura legge del cambio palco”.

Il teatro dei ricordi

Sanremo è anche uno spazio di lavoro. Ricorda sempre Galeotti: “Nel 1999 la sala autori era una stanzetta dove adesso c’è il terrazzino dal quale di solito i conduttori si affacciano e fanno i saluti prima della diretta. Successivamente per fortuna la sala autori si è piano allargata ed è diventata più funzionale, quando ci ho lavorato era all’ultimo piano dell’Ariston. È un ambiente particolare, condiviso: perfetto se sei come me e ami lavorare nel casino, se ami il lavoro collettivo fatto anche di chiacchiere, non è certo un posto isolato e silenzioso”. La stessa fluidità caotica che si trova nella sala stampa – ben diversa ad esempio da una sala stampa di un festival cinematografico. Sarà anche che qui i giornalisti hanno nei confronti dello spettacolo un confronto costante e in diretta.

Marta Cagnola, giornalista di Radio24, esperta del festival che segue da diversi anni, così racconta il punto di vista di chi racconta sui media il festival da quei luoghi: “La sala stampa dell’Ariston è intanto un luogo emotivo, un luogo del cuore, perché ti dà un senso di appartenenza all’evento. Il fatto di aver spostato per gli anni della pandemia la sala stampa al Casinò non ha comportato difficoltà né logistiche né lavorative. Era semplicemente un altro luogo, peraltro un luogo nel quale siamo stati comunque molto bene accolti. Però essere nella sala stampa dell’Ariston ti permette di avere questo senso di appartenenza alla comunità del festival, pur ovviamente nell’autonomia di pensiero del giornalista. Puoi svolgere il tuo ruolo all’interno della manifestazione e non dislocata altrove. Darsi appuntamento con un artista o con un direttore d’orchestra al bar dell’Ariston o andare sul terrazzo e controllare quanta folla c’è davanti al teatro un po’ di differenza la fanno. Provo inoltre grande affetto per il bar dell’Ariston: non solo perché ci sostenta, ma perché ci ho fatto delle bellissime interviste. Quella che ricordo con maggiore affetto è all’autore Franco Migliacci. Abbiamo parlato per mezz’ora di tutta la storia del Nel blu dipinto di blu. Però la cosa pazzesca è che non mi sono accorta di averla registrata in modo che si sentissero più i cucchiaini dei caffè che la voce di Migliacci!”.

Ogni tanto si parla di creare un altro luogo per il festival, più grande e moderno. Ma dove? Qualcuno sostiene che ci vorrebbe un palazzo in stile Eurovision, ma sarebbe un peccato che l’esperienza della famiglia Vacchino andasse perduta.

A proposito di “monitorare la folla davanti all’Ariston”, così racconta Vacchino quanto accaduto con l’arrivo dei Duran Duran nel 1985: “La situazione di quella sera fuori dall’Ariston posso vederla, tra incredulità e preoccupazione, dalle scale antincendio che danno sul cortile sul retro da cui entrano ed escono gli artisti. Ci sono cinquemilla ragazze e ragazzi, agitati e strepitanti: sgomitano per mantenere la posizione, fanno praticamente a botte per guadagnarne una migliore, occupano tutta via Roma dalla tipica fontana dello Zampillo con i getti d’acqua che sovrastano l’iconica scritta ‘Sanremo’, passando per la linea del traguardo della Milano-Sanremo e fino all’area della vecchia stazione di fronte al Casinò nella strada che apre al mare”. Come farli uscire dall’Ariston e farli arrivare in hotel senza incidenti? Beh, li si mette di nascosto sull’ambulanza che staziona sempre fuori dal teatro. “A metà percorso, però, il trucco viene scoperto e non credo che altri mezzi di soccorso, nella loro importantissima e onorata carriera, siano stati oggetto di ovazioni di tale portata”

Sul palco anche può succedere di tutto. L’ultimo “grande scandalo” è quello che ha coinvolto lo scorso anno Blanco e le rose. Racconta Vacchino: “Avevano fatto le prove e mi avevano interpellato affinché il nostro personale di pulizia fosse allertato e addirittura potenziato per accelerare i tempi e liberare il palcoscenico quanto prima per riprendere con la trasmissione. Poco prima dell’esibizione sono stato nuovamente chiamato per aumentare di un paio di unità le donne delle pulizie. Ci sarebbe stato un atto contro le rose, previsto dal copione. Poi, a causa dell’inconveniente audio che si è verificato, il tutto è stato esasperato e ne è scaturito un attacco di rabbia incontrollata. Non è stata una bella immagine né per chi vi ha assistito né per lo stesso Blanco. Dell’intero episodio, la fotografia di gran lunga migliore, di maggior classe e da conservare è quella di Gianni Morandi che dà una mano a spazzare con una scopa che conserviamo gelosamente nei nostri uffici con il cartello ‘Non usare’”.

Ogni tanto si parla di creare un altro luogo per il festival, più grande e moderno. Ma dove? Se si va fuori città i disagi non sono pochi, tra traffico e spostamenti, come successe nel 1990 quando il festival andò ad Arma di Taggia, al Palafiori, per via dei lavori di restauro dell’Ariston. Qualcuno sostiene che ci vorrebbe un palazzo in stile Eurovision, “sarebbe sempre esaurito tutte le sere”, spiega Eddy Anselmi, ma sarebbe anche un peccato che l’esperienza della famiglia Vacchino andasse perduta: “Sanremo ha bisogno di una Ariston Arena che riprenda probabilmente tanto, a cominciare dalla gestione della proprietà, del know-how, del garbo e dell’accoglienza di chi ci è stato continuativamente per questi ultimi, ovvero Walter Vacchino, qualcuno dice il vero sindaco di Sanremo”. A domanda diretta sul tema Vacchino risponde così: “Confrontiamoci. Questo teatro ha ancora altre possibilità e potenzialità. Bisogna integrare il sogno e la realtà, il presente e il futuro”.

Ad una recente presentazione del libro, Peppe Vessicchio ha raccontato la sua prima volta su quel palco come direttore d’orchestra nel 1990 con Mia Martini e Mango: “Quando si accende la luce rossa – mi avevano spiegato – verrà fatto il tuo nome. Devi guardare in quella direzione, devi fare l’inchino… ma tutto questo nessuno te lo insegna e non lo puoi provarlo neanche allo specchio, ti senti un imbecille! Quando in quel momento mi girai cercai innanzitutto le telecamere, perché non riuscivo a vedere dove fossero. E mi sono accorto che avevo una vena nel collo che batteva fortissimo… Poi si è spenta la lucina, e questo voleva dire che era terminata l’inquadratura. Allora mi sono girato verso l’orchestra ed è sparito tutto. Ero tornato a casa, ero tornato in possesso delle mie facoltà”.

Chissà cosa deve aver provato invece nel 2013 Maurizio Crozza quando nei panni di Berlusconi venne accolto dai fischi: sembrava che attorno a lui ci fosse il vuoto, come se il palco lo stesse inghiottendo. Ci sono i momenti in cui tutto quello che sta attorno al palco prende il sopravvento. Talvolta anche quello che sta fuori dall’Ariston preme per entrare. Come quando Beppe Grillo arrivò minaccioso all’Ariston, mettendo in scena una sorta di assalto al fortino per le strade della città inseguito dai giornalisti. Sempre quello stesso anno – il 2014 – alcuni operai dalla balaustra richiamano l’attenzione di Fabio Fazio. Nel 1984 altri operai – dell’Italsider di Genova a rischio chiusura – salgono invece sul palco dopo un accordo con l’organizzazione. E poi nel 1992 Cavallo Pazzo, cioè Mario Appignani, attivista e personaggio televisivo, che sale sul palco e urla a Baudo: “Questo Festival è truccato e lo vince Fausto Leali”. E poi il più clamoroso capovolgimento di punto di vista e prospettiva spaziale mai avvenuto lì dentro: nel 1995 Pino Pagano minaccia di gettarsi dalla balaustra della galleria, e Baudo che si sporge per fermarlo.

A proposito di profanazioni, ricorda ancora Vacchino, sempre a proposito di quella notte coi Duran Duran: “A un certo punto, dopo la loro fuga, le donne delle pulizie ci avvisano: ‘Guardate che i Duran Duran hanno spaccato tutto’. Lì per lì pensiamo a un’esagerazione, un eccesso di zelo da parte loro. Ma quando arriviamo scopriamo che sono state sin troppo leggere nel giudizio. Troviamo il camerino completamente devastato. Le sedie sono ribaltate, i tavolini divelti, il pavimento è cosparso di mozziconi di sigarette, avanzi di cibo e schegge degli specchi. Per quanto sia sbigottito, né le mie gambe né la mia pazienza cedono. Ripristiniamo tutto a nostre spese già l’indomani, perché il camerino deve accogliere altri ospiti”. The show must go on, etc etc, anche all’Ariston. E possiamo pure ridimensionare, decisamente, l’atto contro le rose di Blanco.

A proposito di ricordi, conclude Galeotti: “Una cosa che mi ricordo è nel 2000 la faccia di Luciano Pavarotti quando vide il suo camerino: forse pensò che non aveva fatto bene ad accettare. Poi si è adattato da gran signore qual era. Ma uno dei ricordi più divertenti che ho è quello del 1999. A quella serata erano ospiti sia Gorbaciov sia il fratello di Clinton che suonava il sax. Quella sera a Sanremo forse c’erano i servizi segreti di tutti i paesi: sembrava di essere a Jalta nel 1945. C’erano un sacco di controlli. Ad un certo punto però durante la diretta dietro il palco – c’eravamo io e Fabio Fazio – si presenta un signore vestito di bianco, un imitatore, e dice di essere appena arrivato dalla Germania e che adesso deve salire sul palco per esibirsi. Ci guardiamo io e Fabio, e poi avvertiamo Maffucci: non so chi abbia chiamato ma quel signore poi non l’ho più visto… Questo per dire dell’impenetrabilità dell’Ariston. Chissà, magari c’è qualche tunnel segreto che porta direttamente sopra il palco”. Ecco una cosa che andrebbe di sicuro chiesta a Vacchino.


Stefania Carini

Si occupa di cultura, media e brand. Collabora con Il Post, la Radio Svizzera Italiana, Corriere della Sera, Il Foglio. Ha realizzato podcast (Da Vermicino in poi per Il Post) e documentari per la tv (Televisori, Galassia Nerd, L'Italia di Carlo Vanzina). Tra le sue pubblicazioni, Il testo espanso (2009), I misteri de Les Revenants (2015), Ogni canzone mi parla di te (2018), Le ragazze di Mister Jo (2022).

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