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Videogiochi

Passeggiare per gioco. La narrazione videoludica

Camminare, sia pur in forma mediata. Guardare fuori. Esplorare. Ma anche raccontare in modo nuovo, dare valore a indizi e sfondi. Piccola storia dei walking simulator, genere in costante evoluzione.

Pubblichiamo qui un articolo contenuto nel numero 49 della rivista Hamelin. Storie figure pedagogia, intitolato “Videogiochi. Un altro modo di raccontare”. Ringraziamo l’associazione culturale Hamelin per la disponibilità.

Treno, lato finestrino. Il paesaggio scorre veloce, così veloce che l’occhio fatica a tenere il passo. La situazione si complica se si è seduti dal lato opposto di marcia: in quel caso c’è una variabile in più, fino all’ultimo non sai mai quello che potrà spuntare dal bordo del riquadro. È un gioco di aspettative, di contemplazione, di costruzione progressiva del mondo. Dalla realtà al digitale. Nello sperimentale The Landscape Processor, l’utente ha la possibilità di plasmare in pochi click il proprio panorama ideale, catturando nello spazio il corso del tempo (o viceversa?). Dal finestrino osserviamo lo scenario, in un primo momento vuoto. Man mano che il treno procede, iniziano a comparire i primi alberi; poi alcune rocce; delle casupole stilizzate in lontananza. Scorrono, incuranti di chi osserva, ma chi osserva può decidere di fermare quegli oggetti con un tocco di mouse. Mentre il viaggio prosegue, un paesaggio su misura prende vita dinnanzi ai nostri occhi. Il passo successivo sta tutto nella nostra mente: chissà chi abita in quelle casupole, quali storie quegli alberi potrebbero raccontarci. 

In The Landscape Processor non ci sono sfide né obiettivi, non c’è un racconto precostituito. I più integralisti vi direbbero che non è un videogioco, i meno integralisti che non è un videogioco tradizionale ma che è pur sempre un’esperienza interattiva; la dimostrazione di quanto sia difficile racchiudere, catalogare, confinare. Sorte analoga hanno avuto, a un certo punto della storia videoludica, i cosiddetti walking simulator: un sottogenere degli adventure colpevole di aver dimenticato, secondo molti appassionati, cosa sia un videogame. Anche qui niente obiettivi, niente avversari, non si vince né si perde, nessun game over e interfaccia ridotta al minimo. Esperienze puramente esplorative e narrative, così estranee e differenti da essersi meritate un appellativo a parte, quel “simulatore di passeggiata” che oscilla dal sarcastico al dispregiativo. Nel corso del tempo tutto si elabora, per cui quel sottogenere tanto discusso si è integrato nel mainstream, partorendo declinazioni, contaminando, dimostrando quanto la narrazione videoludica, così come la narrazione tout court, sia un territorio in costante evoluzione, dove risulta poco sensato, se non addirittura inutile, porre paletti e rifiutare visioni.

D’altronde, ben prima che i walking simulator facessero la loro comparsa ufficiale diventando oggetto di riflessione, i videogiochi avevano già iniziato a mettersi in discussione. Al flusso canonico “azione, cut-scene, azione” tipico di tanti giochi degli anni Novanta, si erano contrapposti autori che cercavano piuttosto di fondere azione e narrazione (vedi il caso di Valve con Half-Life): i giocatori non avrebbero più dovuto appoggiare il joypad per diventare provvisoriamente spettatori, ma sarebbero rimasti sempre attivi e presenti, liberi di interagire anche durante i raccordi narrativi. Può sembrare una sfumatura, ma nei fatti rappresenta una presa di coscienza notevole nei confronti del medium videoludico, delle sue caratteristiche e delle sue potenzialità. Il walking simulator non spunta dal nulla, un bel giorno, ma si inserisce in questo più ampio itinerario di maturazione del mezzo. L’unica colpa – se così vogliamo chiamarla – di questo sottogenere è di aver reso terribilmente evidente ai più conservatori che esiste una pluralità di approcci e di meccaniche, che ogni cosa è fluida e che i videogame non sono oggetti granitici, ma sfaccettati. C’è chi sostiene non sia l’interattività – termine troppo generico – il tratto distintivo del videogioco, bensì la manipolazione spaziale, la relazione che si instaura tra l’utente, l’avatar sullo schermo e lo scenario virtuale. Se così fosse, non è forse nell’esplorazione che l’esperienza videoludica si realizza pienamente? I walking simulator partono proprio da qui.

Dear Esther ed Everybody’s Gone to the Rapture

Dear Esther. Lo sguardo si apre sul mare delle Ebridi Esterne. “Cara Esther”, così inizia il monologo della voce narrante. Sono stralci di lettere immaginarie, riflessioni sulla vita, sulle cose, sui luoghi. All’eterna soggettiva del personaggio/ narratore, che cammina tra le fredde e brulle isole scozzesi, fa da contrappunto questo narrare costante, che svela per tappe i sentimenti del protagonista. Si cammina, lentamente; si esplora, affascinati; si ascolta, straniti. Ne scaturisce un’esperienza anomala per l’ambito videoludico, tant’è che Dear Esther viene considerato da più parti il capostipite dei walking simulator.

C’è chi sostiene non sia l’interattività – termine troppo generico – il tratto distintivo del videogioco, bensì la manipolazione spaziale, la relazione che si instaura tra l’utente, l’avatar sullo schermo e lo scenario virtuale. Se così fosse, non è forse nell’esplorazione che l’esperienza videoludica si realizza pienamente? I walking simulator partono proprio da qui.

Le Ebridi appaiono disabitate, paesaggi del tutto contemplativi. L’emblema del non-fare, direbbero i più conservatori. È tuttavia una passeggiata rivelatrice, in cui il fare non si esprime nella varietà delle azioni, bensì nella profondità di interpretazioni sospese tra ciò che accade sullo schermo e ciò che viene elaborato nella propria mente durante il tragitto. In un’opera come Dear Esther, ma il concetto potrebbe essere allargato anche agli altri esponenti del genere, il giocatore diventa testimone e interprete significativo, osservatore a cui viene concessa la libertà di decodificare il mondo, di catturarne istanti, tasselli, dettagli. Ne deriva che ogni storia, all’interno di un contesto dato, è una storia a sé.

Lo studio inglese The Chinese Room si è poi nuovamente cimentato col genere con il successivo Everybody’s Gone to the Rapture, titolo che può essere definito il successore spirituale di Dear Esther. Per l’occasione il setting s’è spostato dalle isole scozzesi alla contea dello Shropshire, Inghilterra. È successo qualcosa nell’immaginaria cittadina di Yaughton: sono spariti tutti. Solo alcune misteriose luci vagano tra le case e le auto abbandonate. Di quanto accaduto rimangono tracce qua e là: tra vita e non-vita c’è di mezzo un universo intero. L’esplorazione prende il via nei pressi dell’osservatorio astronomico. Le strade sono deserte, gli edifici incustoditi. L’atmosfera è surreale e disagiante: sono fuggiti tutti? Si è trattata di una scomparsa improvvisa, soprannaturale? L’interazione con radio e telefoni disseminati lungo il percorso consente di ascoltare stralci di vecchie conversazioni, testimonianze dei cittadini. La situazione si fa ingarbugliata, perché è chiaro che qualcosa è accaduto, forse persino qualcosa di brutto, ma non abbiamo elementi sufficienti per fare chiarezza. 

Poi una luce, immobile. Pochi istanti dopo, dalla luce emergono due figure indistinte che iniziano a parlare tra loro: non viene detto, ma è chiaro che sono simulacri di un evento passato accaduto in quel luogo. Giunti quasi nei pressi del centro abitato, in lontananza si scorge un’altra luce: questa volta si muove, si agita, cambia repentinamente traiettoria. Viene naturale seguirla, come fosse una linea narrativa che ci prende per mano. Oppure no, possiamo continuare liberamente a esplorare Yaughton; scoprire per esempio che il pub del paese era stato chiuso per malattia: “Abbiamo l’influenza”, recita l’avviso posto vicino alla porta d’ingresso. Un cartello che potremmo anche non notare: d’altronde sta a noi decidere come e in che misura essere osservatori, raccogliere indizi. Everybody’s Gone to the Rapture affascina per ciò che suggerisce, per ciò che racconta senza raccontare. La sua è una narrazione del tutto ambientale, coadiuvata sì da tracce sonore del passato, ma fortemente ancorata allo scenario, alla capacità di rapportarsi con lo spazio, di farlo proprio, di diventarne testimoni. Ne consegue che ogni sessione di gioco differisce da utente a utente, perché ognuno potrà farsi la propria idea, interpretare quell’universo in base al modo in cui l’ha vissuto e percorso. Gli oggetti narrano più di quanto non si vorrebbe vedere, basta porvi attenzione.

Non si intende comunque suggerire che opere simili non mettano in scena una vicenda ben precisa definita in anticipo dall’autore, ma è intorno a questo canovaccio che riescono a esprimersi al meglio: non conta la meta ma il viaggio, verrebbe da dire, prendendo in prestito un’espressione assai abusata. 

Volendo tracciare un parallelo col mondo del fumetto e dell’illustrazione, come non citare Qui, il celebre graphic novel di Richard McGuire? Una grande epopea racchiusa all’interno di una singola stanza, il salotto di casa. Un salotto che ha attraversato secoli e in cui i piani temporali si sovrappongono e si intersecano, così come i riquadri. Poche le parole, tante le suggestioni. Il lettore diventa esploratore dell’immagine, soggetto chiamato a compiere un tragitto lineare nella realtà (sfogliare le pagine) ma reticolare nella finzione, nelle interpretazioni, negli accostamenti. Qualcosa di analogo, seppur declinato con stile e atmosfere differenti, è ravvisabile nei libri delle stagioni di Rotraut Susanne Berner. Qui l’attenzione si sposta sugli oggetti quotidiani, sullo scorrere del tempo capace di gettare, di volume in volume, nuova luce su cose, personaggi e situazioni. Ogni albo è composto da poche facciate, ma potremmo trascorrere ore all’interno di quelle stagioni, rintracciando elementi, ricostruendo attimi e circostanze. Gli spunti si moltiplicano; ogni sezione è un pullulare di dettagli ed eventi. I lavori di McGuire e Berner suggeriscono che il concetto di walking simulator potrebbe espandersi anche al mondo del fumetto e dell’albo illustrato, per definire quelle opere in cui l’occhio è libero di muoversi per cogliere minuzie, identificare oggetti sparpagliati sui fogli, immaginare. Vere e proprie passeggiate visive.

Gone Home e What Remains of Edith Finch

Il sovraccarico di oggetti che caratterizza le opere di R.S. Berner e la narrazione “familiare” di Qui trova probabilmente un corrispettivo videoludico in un altro celebre walking simulator, Gone Home. Il titolo di Fullbright è ambientato all’interno di un unico edificio, l’abitazione della famiglia Greenbriar. Dopo un anno di lontananza, la giovane Kaitlin ritorna a casa ma ad attenderla non c’è nessuno; la porta è chiusa e no, la chiave non è sotto lo zerbino. Samantha, la sorella, le ha lasciato all’ingresso un foglio che riporta un messaggio ambiguo, poco rassicurante. Inizia così la (ri)scoperta di un contesto casalingo in cui i toni sembrano immediatamente virare verso l’horror. Le stanze e i corridoi assumono l’aspetto di un labirinto e tra le mura non mancano passaggi segreti. Sono gli oggetti, i soprammobili, le immagini appese, le note sparse per casa a delineare l’ambientazione, ad arricchirla. Siamo negli anni Novanta, i cellulari non sono ancora diffusi, in tv trasmettono Beverly Hills 90210 e nella propria camera Samantha ha appeso alcuni ritagli di attrici particolarmente note all’epoca e di cui probabilmente è fan. Anche in questo caso, la storia privata di Samantha si mescola con la costruzione di una scenografia domestica che si rivela soprattutto attraverso le nostre inferenze. Lo spirito d’osservazione, inteso non come gara a chi scopre più dettagli, ma come piacere di sondare un mondo virtuale denso e stratificato, viene chiaramente premiato in Gone Home e in generale in questo tipo di opere.

Ogni sessione di gioco differisce da utente a utente, perché ognuno potrà farsi la propria idea, interpretare quell’universo in base al modo in cui l’ha vissuto e percorso. Gli oggetti narrano più di quanto non si vorrebbe vedere, basta porvi attenzione.

Nel corso del tempo anche il walking simulator si è declinato e ha mutato forma, sperimentando integrazioni e variazioni sul tema. What Remains of Edith Finch rappresenta probabilmente il picco più alto raggiunto dal genere, un’opera in cui la struttura esplorata finora passa al livello successivo.

La famiglia di Edith non può dirsi esattamente canonica: una stravaganza che si riflette sulla sua abitazione, un agglomerato di stanze disposte su più piani, un edificio che non passa certo inosservato. L’aspetto più bizzarro dei Finch è che sono morti tutti, uno dopo l’altro, a causa di quella che sembrerebbe una maledizione ma che in fondo è solo una profezia che si autoavvera. What Remains of Edith Finch tratteggia un ritorno alle proprie origini. Di stanza in stanza, attraverso un itinerario tutto sommato lineare, giocatori e giocatrici rivivono la storia di ognuno dei membri della famiglia. Sebbene la struttura rimanga quella tradizionale e l’esplorazione regni sovrana, i trascorsi di ogni personaggio vengono narrati in una serie di flashback, capitoli collaterali che vanno ad attingere da diversi generi videoludici e da differenti mezzi espressivi, dal fumetto alla fotografia. La morte della giovane Barbara Finch, stella (cadente) della cinematografia horror anni Cinquanta, viene per esempio condensata all’interno di un fumetto: le pagine sfogliate si alternano a momenti in soggettiva in cui l’utente assume il controllo del personaggio nel riquadro. Chissà se Barbara è stata davvero uccisa dai mostri da B-movie americano che tanto l’avevano resa celebre! Nel gioco, realizzato dallo studio californiano Giant Sparrow, il walking simulator viene così a contaminarsi, la tradizione si riaffaccia ma è troppo tardi, la narrazione si è ormai definitivamente evoluta.
Al termine di questo percorso una riflessione è d’obbligo. Come quel plot twist finale che non ti aspetti, mettiamo al bando il concetto di walking simulator. A furia di chiamarle passeggiate si rischia di ridurre il valore di opere che, al contrario, mostrano quanto i confini del medium siano malleabili, le potenzialità narrative composite. Chiamiamole piuttosto avventure. Un genere videoludico che esiste dall’alba dei tempi, ma anche un termine che inquadra al meglio questo tipo di esperienze: viaggi inaspettati, intriganti, multiformi.


Andrea Dresseno

Project manager dell'Italian Videogame Program (IVIPRO), ha fondato l'Archivio Videoludico presso la Cineteca di Bologna. Insegna in accademie e università.

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