Gioie e dolori, inciampi e retoriche di una figura professionale ormai tanto importante da essersi moltiplicata e specializzata. Non è (più) un lavoro da stagisti!
Il social media manager è un mestiere fluido, ibrido, complesso. Un mestiere che richiede molteplici competenze. Quali siano i suoi compiti e in cosa consista il suo lavoro non è sempre facile da spiegare ai non addetti ai lavori, e per questo, ancora oggi che l’importanza dei social dovrebbe essere un fatto assodato, può capitare che il social media manager sia preso poco sul serio, considerato “quello che sta tutto il giorno su Facebook”, pagato per fare quello che gli altri fanno per svago. Nel grande racconto popolare, poi, assume sempre la figura mitologica di uno stagista abbandonato al suo destino, che ogni tanto si fa notare per un epic fail, prontamente rilanciato da una seguita pagina Facebook. Nella realtà le cose vanno meglio: il social media manager è una figura molto richiesta, è facile trovare lavoro e spesso è ben retribuita. Purtroppo, capita che nelle aziende piccole si ritrovi a fare il tuttofare: copywriter, regista, producer, giornalista, pr, media planner, art director, analyst. Nelle aziende e agenzie di comunicazione più grandi, invece, il social media manager che lavora da solo non esiste più: i compiti si sono separati, le figure si sono iper-specializzate, tutti si muovono all’interno di team allargati dove la comunicazione con i reparti media tradizionali è indispensabile.
Complicazioni progressive…
Questo perché si sono moltiplicati non solo i social network, ma anche i formati messi a disposizione da ogni social network. Inoltre, è andata sempre più a distinguersi la parte editoriale da quella prettamente media. Infine, perché le campagne pubblicitarie tradizionali sono diventate campagne integrate in cui la stessa creatività deve “atterrare” su tutti canali: online e offline. Tradotto sarebbe: lo spot che vedete passare in tv, l’affissione in piazza, la pagina pubblicitaria del giornale patinato devono essere adattati e trasformati in un post di Facebook, un tweet, una o più stories di Instagram, un video su YouTube. Con la differenza che sui social media il feedback è immediato e quindi è indispensabile non solo sfornare idee creative, ma conoscere gli umori delle community.
Fino a qualche anno fa, gli evangelisti della nuova era massmediale alla ricerca della ricetta per “diventare virali”, citavano continuamente nelle loro slide il famoso saggio di Bill Gates: “Content is the King”. Non è più così: Data is the King. I piani editoriali e i piani media sono data driven, ossia sono elaborati dopo complesse analisi dei dati. In tal senso, la figura dell’analyst, che raccoglie ed elabora attraverso sofisticati tool una grande quantità di informazioni, è ora fondamentale. Con i social media si è realizzato il grande connubio tra pensiero creativo e informazioni razionali.
L’evoluzione è stata così rapida da non essere ancora metabolizzata. I cambiamenti repentini hanno creato confusione: basti pensare come internet in un decennio è passato dall’essere un possibile candidato al Premio Nobel al principale responsabile dell’ondata populista.
A metà degli anni Duemila, in Italia non esisteva la professione del social media manager, anche perché non erano ancora arrivati i social. Esistevano però le redazioni web dove giovani volenterosi, appena usciti da Scienze della comunicazione, aggiornavano siti di quotidiani, portali delle aziende, dei partiti, delle varie organizzazioni. I contenuti non erano quasi mai originali, si trattava spesso di rilanciare contenuti creati per altre destinazioni. C’erano le photo-gallery che venivano riempite con immagini di bassa qualità scattate con le fotocamere dei redattori durante gli eventi. C’erano le web-tv, curate da quelli che in principio volevano fare i registi e gli inviati, con risultati più amatoriali di quelli delle tv locali. Alcuni di loro hanno pensato di aprire un blog. E tra i blogger, nati già vecchi, c’era chi si era portato avanti: si era iscritto a MySpace e a Flickr, e aveva intuito che qualcosa stava cambiando. Che le società piramidali dei forum, le dinamiche dell’instant message, i primordiali flame, le armate dei troll, la carovana dei famosi su internet e tutto il paese reale stavano confluendo verso i social network.
I top manager delle aziende, nel frattempo, si chiedevano se tutto questo sarebbe stata davvero un’opportunità di business o una fregatura. Comunque, non c’era più tempo per la risposta: bisognava iscriversi a Facebook, bisognava aprire una fanpage e un canale YouTube, esserci, presidiare. E così quelli che nel 2005 erano redattori web, nel 2010 sono diventati social media manager. Non essendo il social media management una scienza esatta, si procedeva per esperimenti, cercando di empatizzare con le community per capirne i bisogni e solleticarne gli istinti. Gli strateghi del web sfornavano slide su slide alla ricerca della ricetta per avere successo, continuavano a riempirsi la bocca di americanismi quali funnel e gamification. I piani editoriali dei brand non dovevano solo recapitare il messaggio pubblicitario ma offrire un’esperienza, regalare un’emozione.
Tra i blogger, nati già vecchi, c’era chi si era portato avanti: si era iscritto a MySpace e a Flickr, e aveva intuito che qualcosa stava cambiando. Che le società piramidali dei forum, le dinamiche dell’instant message, i primordiali flame, le armate dei troll, la carovana dei famosi su internet e tutto il paese reale stavano confluendo verso i social network.
Prova ed errore
Era anche divertente: non essendoci ancora algoritmi con soglie di sbarramento, bastava poco per creare contenuti virali. E anche incappare in epici social media fail: tra i primi si ricordano il caso Patrizia Pepe, risalente all’aprile 2011. Il brand aveva postato su Facebook una serie di contenuti di una campagna che vedeva come protagonista una modella giudicata molto magra, un modello negativo che poteva spingere le giovani ragazze all’anoressia. I post della campagna si erano riempiti di commenti critici nei confronti della casa di moda, e in un primo momento questi erano cancellati dal brand (classico errore) ma poi il flame si era esteso talmente tanto da causare la cancellazione della campagna.
Sbagliando s’impara: le community non sono nemiche ma alleate. Ed ecco che i piani editoriali di rispettabili brand si sono adeguati ai contenuti che piacevano a tutti: aforismi, animali carini, notizie curiose (troppo curiose: erano in maggioranza fake news), buongiornissimi. E poi l’appropriazione culturale del linguaggio memico, “fenomeno di internet” per eccellenza, da parte di marche di birra, di condom e di agenzie funebri. Gli obiettivi? Fare engagement, anche generando sentiment negativo (anzi polarizzando il più possibile), aumentare la reach (che corrisponde all’incirca all’audience televisiva), generare conversion (spingere gli utenti a compiere un’azione concreta: iscriversi a una newsletter, cliccare sul link che porta al sito, acquistare quello che c’è da acquistare).
Creare un piano editoriale è estremamente complesso: è difficile trovare un contenuto che possa andare bene ad una identità collettiva che ha in comune solo l’aver messo mi piace ad una pagina Facebook. La stessa identità collettiva che non aspetta altro che la figura mitologica del social media manager (che nell’immaginario è sempre e solo uno stagista) si schianti sul muro del fail, per prenderlo e appenderlo al palo della vergogna, appunto lo screenshot da mandare alla pagina Social Media Epic Fail.
In realtà, lo stagista di solito è un’intera divisione di un’agenzia digitale e relativi referenti dell’azienda per cui lavorano: account, project manager, community manager, art director. Ma quindi idealmente com’è strutturato un “team social”? Al vertice c’è un social media strategist, che decide la strategia comunicativa a monte, su quali social intervenire e con quale profondità, quali sono le parole chiave da comunicare, qual è il mood e il tone of voice. Soprattutto, decide gli obiettivi da raggiungere, facendosi aiutare dal data analyst: che tradotto sarebbe quanti like, commenti e condivisioni (ma anche quante visite al sito) genererà una strategia all’interno di un arco temporale definito. Poi c’è il social media manager, quello effettivo, che traduce la strategia in piani editoriali concreti, realizzati in collaborazione con una coppia creativa (art director e copywriter). Fondamentali sono diventati negli ultimi tempi i video, complicando ulteriormente la situazione.
Il community manager si occupa della parte di social caring: risponde agli utenti che hanno bisogno di supporto, interagisce e sollecita il dialogo nella community. Fondamentale è inoltre la figura del biddable media manager che si occupa della gestione delle campagne pubblicitarie; ormai anche Facebook, Instagram, Twitter, YouTube sono dei veri e propri centri media, pertanto vanno acquistati degli spazi promozionali, settando budget e target. La visibilità organica (spontanea) sui social media si è progressivamente ridotta, se si vuole essere visibili bisogna pagare. Infine, bisogna anche citare chi si occupa delle digital pr, lo scottante argomento degli influencer, che visto in quest’ottica, è solo uno dei tanti tasselli di una strategia comunicativa molto più grande, integrata, sofisticata.
Insomma, ben poco è rimasto dello stagista solitario che va in giro a scattare foto che poi posta sui social. Per fare questo mestiere tocca essere esperti conoscitori di meme, ammaestratori di community, bisogna saper leggere il futuro nei dati, essere alla bisogna pompieri che spengono il flame o piromani che lo accendono. Sempre avere moltissima pazienza, di fronte a ogni commento. Essere lesti col tasto block. E soprattutto sorridere sempre quando qualcuno dice: “Ma stai sempre su Facebook?”.
Laura Fontana
Lavora da più di dieci anni come esperta di comunicazione digitale per brand nazionali e internazionali. Si occupa di società digitale e analisi del web. Scrive di internet e pop culture, influencer e creator economy su Rivista Studio e altri magazine.
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