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La Francia e il cinema delle banlieue

Tra le narrazioni francesi contemporanee, torna al centro il racconto, prima esploso e poi sottotraccia, dei conflitti che avvengono nelle periferie. Mappatura di uno scontro tra marginalità disperate.

Nel 1995 L’odio, grazie alla personalità di un regista di ventisette anni con un’idea chiara di stile, Mathieu Kassovitz, assistito dalla forza di un racconto legato all’attualità e da un cast ispirato e affiatato, ha avuto un exploit internazionale innescato dal premio per la miglior regia a Cannes. Questo successo ha indirizzato e segnato il racconto cinematografico moderno delle periferie francesi e dei loro abitanti: dall’uscita del film in poi, i blocchi di cemento delle banlieue sono diventati una zona di pena da cui le nuove generazioni non riescono a fuggire perché ogni aspettativa viene loro negata, spesso con modi brutali. Ci sono state anche commedie o film d’azione con la stessa ambientazione ma questo approccio sociorealista è diventato predominante, per quanto negli anni si sia arricchito di punti di vista.

Linee del colore

L’odio è ambientato nella citè Muguets, nel dipartimento parigino 78, e si svolge nella giornata successiva a una notte di scontri tra gli abitanti dei palazzoni del quartiere e i poliziotti, colpevoli di aver ferito gravemente un sedicenne della zona durante un interrogatorio. I tre ragazzi protagonisti condividono le ore per strada ammazzando il tempo e nutrendosi del conflitto verso il mondo estraneo al loro ambiente, che si tratti delle forze dell’ordine, l’unica presenza tangibile dello Stato nella zona, o degli abitanti del centro città in cui “sconfinano”. Il più assennato Hubert, il più impulsivo Vinz e il più chiacchierone Said rappresentano l’anima multietnica della società francese racchiusa nell’espressione popolare Black Blanc Beur (nero, bianco, arabo) che fa il verso al tricolore della bandiera (Bleu Blanc Rouge). Il film onora questa convivenza sociale, ma la confina in questa zona isolata a circa un’ora da Parigi in cui la gente condivide, prima di tutto, le difficoltà economiche. Fuori da questa e altre messinscene cinematografiche, il trinomio Black Blanc Beur è stato celebrato dai mass media e dai politici francesi in particolare grazie ai grandi successi sportivi di squadra ma screditato appena qualcosa si è incrinato. Nicolas Anelka, ex calciatore della nazionale che non ha mai cantato La Marsigliese, nel 2010, pochi mesi dopo essere stato cacciato dal Sudafrica durante la Coppa del mondo a seguito di un duro diverbio con l’allenatore Domenech, ha dichiarato a Les Inrockuptibles: “Quando non si vince, in Francia si parla subito di religioni e colori…”. Parte del dibattito pubblico stava puntando sulle origini africane e sulla fede musulmana di una parte della selezione, Anelka compreso.

Gli elementi predominanti con cui questi film ritraggono le banlieue sono la disoccupazione dei suoi abitanti, un sistema scolastico che fatica ad affrontare questa realtà, un ozio permanente che porta a stare ore e ore sui gradini dei palazzi e sulle panchine, la totale assenza di servizi, il machismo imperante e un conflitto esasperato tra i più giovani residenti dei blocchi di cemento e i poliziotti.

Sulla scia de L’odio sono usciti altri film focalizzati sul disagio sociale di queste periferie metropolitane e sul conflitto tra i suoi abitanti più giovani e la polizia, come per esempio Ma 6-T va crack-er (1997) di Jean-François Richet e Wesh wesh, qu’est-ce qui se passe? (2001) di Rabah Ameur-Zaïmeche. Nel 1999, invece, un regista affermato come Jacques Doillon e poi, nel 2003, Abdellatif Kechiche, reduce dal successo di Tutta colpa di Voltaire, hanno aggiunto elementi a questa rappresentazione. Il primo, con Petits Frères, ha messo al centro del racconto una adolescente: in precedenza, nella maggior parte dei film ambientati in banlieue, i personaggi femminili erano marginali e ancora oggi spesso si tratta di madri che cercano di gestire i problemi e drammi dei figli. Qui, invece, la protagonista è una tenace tredicenne che fugge da una violenta situazione familiare. Il secondo, con La schivata, invece, si è concentrato su un gruppo di adolescenti misto: in questo caso gli elementi originali del film sono lo sguardo sui sentimenti più intimi dei personaggi – non solo su rabbia e frustrazioni – e sul loro rapporto con arte e cultura. Alla fine, però, anche qui resta impresso nello spettatore soprattutto il controllo che una pattuglia di polizia fa a questa compagnia di amici: una lunga sequenza in cui la violenza della perquisizione sale secondo dopo secondo, squarciando un momento di ordinaria socialità e traumatizzando chi dovrebbe vivere l’età della formazione badando a tutt’altro.

Fermo e ripartenza

Passato questo periodo a cavallo tra i due secoli ed entrati nell’era delle grandi stragi terroristiche, con la Francia coinvolta sempre più intensamente, il dibattito pubblico si è concentrato sulla convivenza tra culture e religioni diverse (vedi il caso Anelka) e il punto di vista sociorealista del cinema sulle banlieue è diventato sempre più divisivo e rischioso, così questo approccio, per qualche anno, si è ridimensionato. A riaccenderlo è stato Diamante nero (2014) di Céline Sciamma a cui hanno fatto seguito tre film realizzati da chi è cresciuto in banlieue: Divines (2016) di Houda Benyamina (Caméra d’or a Cannes), I miserabili di Ladj Ly e Vita nella banlieue (Banlieusards) del rapper Kery James, entrambi del 2019.

Ladj Ly, dopo la regia di vari videoclip musicali e documentari, con il suo primo lungometraggio, I miserabili, sembra proprio aver raccolto l’eredità de L’odio. Nelle scene iniziali, girate nei bei quartieri di Parigi, vediamo una marea di bandiere tricolori indossate e sventolate per festeggiare la vittoria della nazionale di calcio ai mondiali del 2018. Ma quando, poco dopo, uno dei ragazzini festosi (di origine africana) torna a casa nella citè Les Bosquets, nel dipartimento 93, l’atmosfera cambia radicalmente. In questo caso i tre personaggi principali sono poliziotti che scorrazzano per il quartiere atteggiandosi a padroni. Come nel film di Kassovitz i tre rappresentano altrettante inclinazioni: uno è affetto da una violenza del tutto cinica, un altro appare corretto e posato ma destinato a cedere e nel terzo, l’unico di origine africana, cresciuto nel quartiere dove è di pattuglia, sembra resistere un’ombra di umanità connessa al suo passato. Lo spettatore gira in macchina per il quartiere con loro ma è portato a identificarsi prima di tutto con il gruppo di ragazzini vessato di continuo. Questi “microbi” – come li chiamano gli agenti – poi decidono di reagire alla legge dettata dai rappresentanti dello Stato e il loro piano d’azione porta a un finale sospeso che lascia pochi spiragli alla speranza (come ne L’odio). 

Prima che i poliziotti siano arrestati, il loro nemico è il quartiere-ghetto che, in pratica, rappresenta il personaggio cattivo del film. La citè marsigliese dove ha luogo l’operazione non è mostrata come un territorio che lo Stato francese ha trascurato e reso estraneo al resto del Paese, ma come un fortino in cui la criminalità organizzata si è arroccata. Un ribaltamento totale di prospettiva.

Il film di Kery James è ambientato nella cité di Bois-l’Abbé, nel dipartimento parigino 94, e ancora una volta ha una triade di personaggi principali, tre fratelli cresciuti dalla madre di origine maliana: il maggiore è uno spacciatore, il secondo un brillante studente di legge, il terzo, in piena età formativa, è combattuto tra questi due modelli. La scelta diffusa di eleggere tre personaggi principali esprime la volontà di rappresentare la complessità delle reazioni umane di fronte alle situazioni “misere” a cui queste zone sembrano condannate senza, però, spersonalizzare troppo il racconto. Più in generale gli elementi predominanti con cui questi film ritraggono le banlieue sono la disoccupazione dei suoi abitanti, con tutte le conseguenze pratiche e psicologiche che produce, un sistema scolastico che fatica ad affrontare questa realtà, un ozio permanente che porta a stare ore e ore sui gradini dei palazzi e sulle panchine, la totale assenza di servizi, il machismo imperante e un conflitto esasperato tra i più giovani residenti dei blocchi di cemento e proprio quegli unici rappresentanti dello Stato che costantemente presidiano e perlustrano la zona e regolarmente diventano violenti, i poliziotti.

Diamante nero e Divines, però, aggiungono degli elementi perché mettono in mostra l’intraprendenza estrema di chi ha poche opportunità e ancora meno prospettive e, come in Petits Frères, rimarcano ancora di più il machismo mettendo al centro del racconto un personaggio femminile, un’adolescente ostinata con alle spalle una situazione familiare difficile, determinata a trovare una via di fuga – che inevitabilmente diventerà accidentata. 

Altro dibattito

Recentemente, ad alimentare il dibattito sulle banlieue ha contribuito un film a priori molto differente da questi, un po’ perché è ambientato a Marsiglia ma soprattutto perché è un poliziesco: BAC Nord (2021), oltre a essere ispirato a una storia vera (non semplicemente alla realtà quotidiana o a una serie di fatti di cronaca), infatti, assume totalmente il punto di vista dei poliziotti. Il regista, Cédric Jimenez, si è basato sul racconto dei protagonisti reali della storia e noi spettatori vediamo tutto tramite i loro occhi. La triade di personaggi principali c’è anche qui: tre poliziotti della Brigade Anti-Criminalité (BAC) conducono un’operazione contro il traffico di droga scontrandosi duramente con gli abitanti di una citè nei quartieri nord di Marsiglia. Nonostante il successo dell’operazione, i tre sono arrestati per traffico di droga: per ottenere una soffiata, hanno offerto alla loro talpa una ricompensa di 5 kg di droga recuperata tramite una serie di controlli non proprio ineccepibili fatti a questo scopo. Nella conferenza stampa del film al Festival di Cannes, il primo giornalista che ha preso la parola, l’irlandese Fiachra Gibbons, dopo aver fatto i complimenti per il film si è detto imbarazzato da una cosa: “Oltre al ragazzino – la piccola bestia selvaggia che finisce nella macchina della polizia e viene calmata solo con il rap –, tutta la gente delle citè viene mostrata come delle bestie. Nei media e nella stampa francese c’è sempre l’immagine di queste zone in cui non si può passare, fuori dalla civilizzazione e dalla legalità, in cui la legge francese deve essere reimposta. Il film è molto bello ma questo è un problema”.

In BAC Nord, in effetti, lo spettatore è portato a identificarsi prima di tutto nelle difficoltà umane e nei problemi pratici dei poliziotti protagonisti, di per sé non certo una cosa nuova. È spiazzante, però, come la forza antagonista sia rappresentata in blocco dalla banlieue: prima che i poliziotti siano arrestati, il loro nemico è il quartiere-ghetto che, in pratica, rappresenta il personaggio cattivo del film. La citè marsigliese dove ha luogo l’operazione, inoltre, non è mostrata come un territorio che lo Stato francese ha trascurato e reso estraneo al resto del Paese, ma come un fortino in cui la criminalità organizzata si è arroccata e un po’ tiene in scacco un po’ ha assoldato il resto degli abitanti. Un ribaltamento totale di prospettiva rispetto agli altri film citati. Nella risposta a Gibbons, Cédric Jimenez ha detto che “I poliziotti hanno a che fare con gli spacciatori, con dei delinquenti e non con l’insieme della popolazione dei quartieri Nord, che è molto importante a Marsiglia ed equivale a quasi metà della città. Insomma, questo è un punto di vista, un’angolazione”. Vengono in mente anche le parole di Ladj Ly che, parlando del suo I miserabili, ha spiazzato una parte degli spettatori spiegando che, per quanto lo riguarda, “il nemico in comune tra gli abitanti del quartiere e i poliziotti è la miseria”.Questi registi continuano a prendersi la responsabilità di eleggere un punto di vista per raccontare una realtà complessa e dibattuta da decenni come quella delle banlieue. Il cinema francese, dopo qualche tentennamento, insomma, ha ripreso a osservare i quartieri sensibili della periferia metropolitana e lo fa da prospettive non sempre scontate o già viste; dunque se, con una forzatura, si considerano questi film come un filone, si ha un quadro di insieme verosimile su un pezzo di società importante d’oltralpe.


Luca Gricinella

Ha scritto due saggi per Agenzia X: il primo, Rapropos (2012), esplora il legame tra la società francese e il rap, il secondo, Cinema in rima (2013), ripercorre la storia della presenza dell'hip hop nei film, con qualche accenno alle prime serie tv in cui ci sono tracce di questa cultura. Ha collaborato con varie testate e attualmente scrive soprattutto su Rumore, Alias (Il Manifesto), CheFare e WU magazine. Lavora anche da ufficio stampa in campo musicale.

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