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TeleMilano

Fritto misto

Negli anni dell’esordio televisivo di Silvio Berlusconi, si trova sottotraccia tutta la tv che verrà, nel “ventennio a colori” delle reti private e commerciali.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 17 - TeleMilano 58 del 20 novembre 2014

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Come leggere TeleMilano, la preistoria della televisione commerciale nazionale e dell’avventura politico-televisiva di Silvio Berlusconi? Se guardiamo ai palinsesti, somiglia in effetti a tante altre di quel periodo. Anche fisicamente: fogli scritti a mano o in qualche caso a macchina, sulla base dello schema di ore e giorni che tutti avevano appreso dalla Rai, e che qualche spiritoso laureato in lettere aveva chiamato appunto “palinsesto” pensando alle nozioni di papirologia apprese all’università; fogli che a guardarli oggi danno un senso di improvvisazione non dissimile, nonostante le diverse dimensioni, da quello che si provava vedendo le griglie di programmazione sui tavoli di tanti degli studi che a quel tempo nascevano in appartamenti o magazzini. Anche i palinsesti di TeleMilano, va detto, erano fatti quasi per intero di titoli di film, di telefilm come si diceva allora e si sarebbe detto ancora per molto tempo, di qualche cartone magari la domenica mattina; solo ogni tanto appariva qualche titolo autoprodotto.

Che il progetto fosse notevolmente diverso (per ampiezza di obiettivi prima di tutto) rispetto a quello corrente nelle “private” del tempo lo si capisce, d’altra parte, se si sente Silvio Berlusconi poco più che quarantenne all’inaugurazione di TeleMilano: anzi, il suo discorso era talmente ambizioso che, se non si fosse capito come poi andava a finire, poteva sembrare quello tipico di un semplice baüscia, come del resto tanti allora pensavano fosse. Definirsi direttamente come concorrente della Rai, da parte di un imprenditore appena approdato alla tv commerciale (una parola che si usava ancora poco), non era, diciamocelo, così credibile. Tanto più con un palinsesto giornaliero in fondo così schiacciato sul rumore di fondo delle decine di reti del tempo. Ma se guardiamo a metà strada, per così dire a mezza altezza, tra la sostanziale banalità del palinsesto e la grandiosità delle ambizioni imprenditoriali, troviamo la produzione: i programmi che TeleMilano crea e mette in onda nel 1978-79, e che forse sono la spia migliore di quello che stava veramente accadendo. Partiamo allora dai prodotti, che si chiamano per esempio Chewing Gum, Frittomisto, Sprolippio, e anche I sogni nel cassetto, titolo “storico” che avrebbe poi segnato il passaggio a Canale 5.

Certo, quasi tutti questi programmi, esaminati ciascuno per conto suo, trovano equivalenti e parenti nelle altre televisioni private del tempo o anche nelle radio (uno dei riferimenti, magari inconsapevoli, di Chewing Gum era il Fumorama inventato da Herbert Pagani per Radio Montecarlo); eppure c’è qualcosa che li unisce e questo qualcosa indica una direzione propria. Proviamo a vedere, prima schematicamente e per punti, per poi cercare di trovare un filo conduttore.

Negli studi di TeleMilano

Prima di tutto, non c’è niente di controverso in questi programmi. Non parliamo di controversie politiche, non ci sono neanche i confronti di opinione da bar, gli scontri di correnti musicali; e neppure le semplici provocazioni del tono, come invece nell’esplosione delle radio e tv “libere” del tempo sembrava in generale inevitabile: siamo fuori dal pure assai largo spettro tra il qualunquismo ultracommerciale della pubblicità gridata alla Wanna Marchi e la militanza estremista che in quei tardi anni Settanta aveva ancora ampio spazio. A TeleMilano ogni occasione di scontro sembra sistematicamente evitata, che si parli di “musica leggera”, un’espressione che cominciava già allora a suonare un po’ desueta, o di temi della vita quotidiana come quelli sui quali L’intervistatore mascherato inaugura un format che tornerà utilissimo quando Davide Mengacci sosterrà la prima campagna elettorale di Silvio Berlusconi. Niente Milan contro Inter, niente punk contro il resto del mondo, e in generale “qui non si fa politica, qui si fa tv”.

È Mike Bongiorno del resto a presentare “la televisione commerciale” come un insieme di regole, in modo non dissimile da quelle proprie dei giochi che conduce. Al posto della trasgressività anarcoide delle radio libere comincia a imporsi un modello già istituzionalizzato, competitivo ma mai aggressivo. Il comportamento del pubblico in studio del resto è coerente: quello giovanile, seguendo lo stile Cecchetto, un dj decisamente pacato, balla o meglio si dimena appena, segue le classifiche senza soprassalti tra una canzone e l’altra, per diverso che fosse il genere, in un clima infinitamente meno partecipativo delle Hit Parade e Bandiera gialla di venti e più anni prima; quello adulto applaude senza mai fare il tifo. Niente controversie, niente emozioni violente, scarsa quella partecipazione esaltata da Gaber pochi anni prima e che a fine anni Settanta era ancora al centro di una visione del mondo relativamente trasversale alle parti politiche. I giovani, come gli adulti, stanno diventando esplicitamente target e i loro rappresentanti in studio dei campioni rappresentativi. Pregati di accogliere tutti i prodotti con la stessa educata disponibilità.

E visto che parliamo di trasgressività: di cosce femminili o movenze allusive non se ne vedono, o se ne vedono pochissime. Una delle cose più “peccaminose” è la gonna di Sabina Ciuffini che si solleva leggermente in una sigla (Guarda un po’ cosa ho trovato) ma il colpo di vento sembra più una citazione, in tono decisamente minore, da Quando la moglie è in vacanza che un oltraggio a qualsiasi pudore. Una retorica diffusa, d’impronta prevalentemente catto-comunista, dirà poi che il berlusconismo in Italia ha usato come veicolo la nudità femminile, che si è fatta forte dell’Italia di Drive In, quasi che le ballerine di quel programma avessero condotto il paese in una sorta di Sodoma qualunquistica; ma quale che sia il giudizio da dare sul programma di Ricci, a TeleMilano Drive In non c’era, né tanto meno c’era lo strip casereccio di Colpo grosso. Sexy game al casinò, anche se c’era già quell’Umberto Smaila che quasi un decennio dopo ne sarebbe diventato il conduttore. Di sesso in generale pochissime tracce, anche là dove uno si potrebbe aspettare almeno qualche allusione: come in Un bel giorno c’incontrammo, dove si parla dopo tutto di incontri amorosi, officiante Claudio Lippi. Semmai qualche vago e moderatissimo (coperto già allora dai famosi beep) accenno di turpiloquio, e soprattutto, in Frittomisto, di scatologia da rutti e dintorni, affidata ai Gatti di vicolo Miracoli: alcuni dei quali sarebbero poi diventati protagonisti di un’intera stagione di cinema “basso” prima del trionfo del cinepanettone. C’è da stupirsi? Beh, erano anni nei quali in tv si vedeva e si sentiva veramente di tutto, la parola “cazzo” era stata sdoganata nel 1976 da Cesare Zavattini ai microfoni Rai.

In quella tv che si chiamava TeleMilano, di milanese non c’era molto: se si parlava (poco) del dialetto lombardo era per spiegarlo, anche agli immigrati, ma non si parlava mai veramente in dialetto. Perché si stava preparando il progetto di una tv nazionale? Forse. Ma probabilmente ancor di più perché si trattava di una televisione standard, che non escludeva nessuno.

Nonostante questo clima generale, TeleMilano al suo pubblico garantiva un intrattenimento contenuto, non tanto in un senso propriamente censorio quanto piuttosto di bonaria prevedibilità. Moderato.

Questo non toglie una certa dose di improvvisazione dichiarata. Fino a una curiosa anticipazione di Paperissima, in un programma ancora di Claudio Lippi. Non era la Rai, dopo tutto, anche se questa differenza che tante altre reti radiofoniche e televisive rivendicavano, Berlusconi la lamentava esplicitamente all’inaugurazione del 1978 (se si fosse potuto avere il know how dei professionisti, allora sì che si sarebbe partiti subito con il piede giusto, ma per ora ci si doveva accontentare). In questa situazione, nella quale un po’ d’improvvisazione è inevitabile, il backstage esibito nella sua pasticcioneria può diventare una cifra retorica: le imperfezioni ci sono e diventano anche quelle un divertimento, ma rigorosamente per famiglie. Il disordine non è tanto liberatorio, però, quanto complice: siamo abbastanza come voi da potervi fare vedere le nostre debolezze. Siamo lontani dal “grande è il disordine sotto il cielo” della più citata delle citazioni di Mao; e soprattutto i ruoli restano ben definiti: il pubblico può guardare nel buco della serratura, per un attimo. Ma resta pubblico, può ridere e applaudire e niente di più.

Se i programmi di TeleMilano parlano di un modello televisivo incipiente infatti, questo ha al centro il protagonismo rassicurante e medio/mediatore/mediocre del conduttore. Mike Bongiorno, il vecchio divo, la continuità con la televisione classica, ne è la bandiera: dimenticata la zazzera che lo aveva contagiato nei primi anni Settanta, è tornato al taglio di capelli e al taglio del discorso e di vocabolario, che era stato di Lascia o raddoppia. Un po’ più maestrino per età e per convinzione, possiamo dire ideologica, ma dell’ideologia senza progetti del mercato come regola a se stesso. Il divo televisivo per eccellenza, come aveva capito benissimo McLuhan e meno bene (per una diversa convinzione ideologica) Umberto Eco, è quello che chiede al pubblico un’identificazione sì, ma senza impegno e senza fatica; quello che assume il ruolo di guida non indossando la maschera dell’eroe o del seduttore/seduttrice ma restando un se stesso che rassicura anche perché è a lui che tutto è ancorato: l’andamento del programma, la continuità da una settimana all’altra, l’investimento “dei nostri sponsor”.

In questa tv commerciale degli inizi, in questa sperimentazione proto-berlusconiana, il ruolo centrale è di chi conduce, una posizione di forza (non sarà Conducator l’appellativo obbligato di Ceausescu?) ma anche, nella tv soprattutto commerciale, una posizione di mediazione dichiarata. Il conduttore può dare il nome a un programma, come accade con lo sventurato titolo Sprolippio, come avverrà poi con gli show “firmati” a partire da Maurizio Costanzo, ma per certi aspetti costituisce, più che il centro, l’orizzonte del programma. Qualcuno che è diventato parte delle nostre vite, anche se il perché lo sappiamo solo in parte. Una faccia nota, non uno che vorremmo diventare. TeleMilano nei suoi programmi visti con il senno di poi è una parata di conduttori e jockey presenti e futuri: Bongiorno e Lippi, Cecchetto e Barbara D’Urso. Che sia una palestra per divi futuri significa pur qualcosa: non tanto per la lucidità del progetto quanto per l’idea di televisione che si stava profilando.

Come i loro conduttori tutti i programmi parlano italiano, un italiano standard che è quello della Rai, certo, ma anche dei settimanali popolari da TV, Sorrisi e Canzoni (non ancora nella stessa famiglia editoriale) ai fotoromanzi, fino a Gente: sul quale non c’è né da perdersi negli stucchevoli elogi del maestro Manzi né da lasciarsi andare a snobistiche ironie. L’italiano di un Paese che stava proprio allora completando l’affermazione della scuola elementare e media dell’obbligo, e che le migrazioni interne avevano unificato al di là del permanere delle spaccature storiche tra nord e sud. In quella tv che si chiamava TeleMilano, di milanese non c’era molto: se si parlava (poco) del dialetto lombardo era per spiegarlo, anche agli immigrati, ma non si parlava mai veramente in dialetto e, salvo eccezioni (come i programmi dell’attore Piero Mazzarella), si evitavano anche gli accenti troppo forti. Perché si stava preparando il progetto di una tv nazionale? Forse. Ma probabilmente ancor di più perché si trattava anche in questo di una televisione standard, che non escludeva nessuno. E il riferimento alla città non era localistico né tanto meno rivendicativo o pre-leghistico; infatti sarebbe presto sparito dal nome, anche se una milanesità simbolica sarebbe rimasta comunque indelebile nel dna del gruppo: non tanto quella (provvisoria) della “Milano da bere” quanto quella assai più duratura della capitale morale, del “tutta l’Italia dovrebbe fare come noi”.

L’inizio di un ventennio a colori

Possiamo trarre, da caratteri che accomunano i prodotti della TeleMilano 1978-79 (assenza di controversie, limitata se non nulla trasgressività erotica e linguistica, centralità del conduttore magari lievemente auto-ironico ma saldamente al comando, linguaggio standard) qualche indizio per capire la direzione nella quale sarebbe andata, non solo la tv targata Fininvest poi Mediaset, ma più in generale quel vasto segmento di cultura nazionale che avrebbe finito con l’identificarvisi sul mercato e nella scheda elettorale? Nel 1994-95 ho scritto Un ventennio a colori, dedicato ai primi vent’anni della televisione privata prima del Berlusconi politico. È interessante oggi, dopo un secondo ventennio che lo ha visto ininterrotto protagonista, usare i segnali che ci vengono da quei documenti remoti e apparentemente marginali per verificare (solo una primissima verifica) se alcune delle mie ipotesi interpretative reggano, e magari possano essere estese. In particolare, in quel piccolo libro proponevo tra le cifre essenziali del sistema di valori che si era imposto — dapprima sottilmente, poi massicciamente a partire dai secondi anni Settanta — la conciliazione apparentemente impossibile tra il ribaltamento del vecchio sistema istituzionale e regolativo e il conservatorismo tradizionalista: con il paradosso, ma di grande successo e di lunga tenuta, di un “Carnevale moderato”; parlavo di una curiosa forma di anti-intellettualismo, fondato non tanto sull’odio di tanta destra tradizionale per la cultura come tale, quanto sul fastidio di una società “post-alfabeta” verso chi pretende di saperne di più; sottolineavo l’altro paradosso apparente di un imprenditore televisivo che evidentemente pensava da un po’ di tempo alla possibilità di fare politica, ma che per oltre un decennio aveva proposto una televisione senza notizie e senza politica, e avrebbe poi scelto, nel momento di cominciare a fare giornalismo, la via di un’informazione centrata sulla cronaca, evitando per quanto possibile sia il “palazzo” sia le controversie che potessero anche vagamente apparire ideologiche. Che sarebbe arrivato al trionfo politico sull’onda di una televisione (apparentemente) apolitica.

Ecco, nei programmi di TeleMilano si leggono diversi segni del mondo che il “ventennio a colori” stava cominciando a costruire: nel linguaggio sistematicamente medio e standardizzato; nella moderazione come valore non tanto esaltato quanto dato per scontato (con il rifiuto delle controversie, come con il controllo di ciò che poteva apparire trasgressivo: controllo che la tv di Drive In avrebbe preservato, salvo un tono leggermente più carnevalesco); nella scelta di non osare mai niente che si presentasse a qualsiasi segmento del pubblico come difficile o condiscendente. Valori che il berlusconismo diventato forza politica attiva avrebbe codificato in modo sistematico: nel rifiuto del cosiddetto “teatrino della politica”; nell’escamotage verbale, passato nel parlare comune senza colpo ferire, che lo voleva rappresentante del “centro-destra”, cioè della larga maggioranza degli italiani, contro una “sinistra” per definizione animosa e attaccabrighe; nel favorire (con la piena complicità del resto del PCI-PDS eccetera) lo spostamento della faglia elettorale dall’opposizione tra gli interessi di diverse fasce sociali all’opposizione tra un partito “dei professori” e una più magmatica somma di quelli che di professori non volevano sentire, a torto o a ragione, parlare.

Ma, forse, la lettura di quei vecchi programmi ci dice anche qualcosa di più, ci apre nuove piste. Ne indico due. Prima di tutto il ruolo del conduttore: l’unico vero protagonista nell’avvicendarsi dei partecipanti, l’unico possibile divo televisivo, volto familiare senza sapere bene perché, dotato di un potere che sta nel fatto stesso di occupare lo schermo giorno dopo giorno; è rassicurante perché, per riprendere un’espressione americana leggermente diversa, è l’“ancora” a cui è saldamente legato quello che si avvicenda sulle onde del flusso. Per molto tempo la sinistra italiana ha amato, anche a partire da un libro di Giuseppe Fiori, paragonare Silvio Berlusconi a un “venditore”, a una sorta di piazzista che come spesso accade (e accade senza dubbio in una televisione fondata sulla pubblicità) esaltava merci di dubbio valore.

Niente controversie, niente emozioni violente, scarsa quella partecipazione esaltata da Gaber pochi anni prima e che a fine anni Settanta era ancora al centro di una visione del mondo relativamente trasversale alle parti politiche. I giovani, come gli adulti, stanno diventando esplicitamente target e i loro rappresentanti in studio dei campioni rappresentativi. Pregati di accogliere tutti i prodotti con la stessa educata disponibilità.

Per quanto fortunata, è una metafora che contiene vari elementi ingannevoli: prima di tutto un notevole snobismo verso l’attività commerciale in quanto tale, che pur sempre interessa un’ampia parte della popolazione; poi l’equazione, suicida per una forza politica che si vuole popolare, tra il pubblico televisivo (che coincide ancora oggi con la larga maggioranza delle popolazione) e una massa di babbei pronti a farsi prendere all’amo; infine, e forse soprattutto, la rappresentazione dello stesso Berlusconi che, certo, in diversi momenti della sua carriera politica ha fatto un po’ il piazzista di se stesso, dalla discesa in campo all’abolizione dell’ICI in diretta televisiva fino al falso rimborso dell’IMU, ma fuori dai momenti di campagna elettorale ha assunto ben poco le vesti del venditore, cercando piuttosto di tenere quelle dell’“uomo di Stato”. E se la metafora giusta fosse invece proprio quella del conduttore e dell’uomo-ancora? Una forma tipicamente televisiva di divo, il cui protagonismo sta nel controllare il campo, il cui successo sta nell’avere avuto successo, la cui “eleganza” (non stiamo parlando di Funari o Santoro) sta in un eloquio un pochino forbito ma in una lingua decisamente standard, il cui potere sta nell’intervenire quando si vuole ma presentandosi come superiore alle parti (e ai “teatrini”). Rassicurante proprio perché il programma è suo: anzi, in questo caso, tutta la televisione lo è. Desideroso di essere accolto non come leader di una parte, ma come colui a cui tutti dovrebbero, se non fossero faziosi o invidiosi, fare riferimento, se non altro per il successo che ha avuto. Se sono arrivato fin qui, un motivo ci sarà.

Seconda pista, che ci riporta con TeleMilano a un momento ancora iniziale del primo dei due ventenni. Erano stati fino ad allora anni di intensa volontà espressiva, nei quali l’individuo era invitato a dare voce a desideri e sentimenti, armato eventualmente, alla radio o in tv, di telefono come nelle assemblee dalla scuola alla piazza lo era di megafono o microfono, nei quali le diverse identità sociali ma anche più profonde (dal genere alla preferenza sessuale, fino alle culture etniche e locali) trovavano spazio proprio perché non accettavano più di tacersi ed essere taciute, chiedevano al contrario di “venire fuori”; anni nei quali la sincerità era valore indiscusso e sovversivo e i principali crimini delle istituzioni erano il segreto e la “mistificazione” ipocrita; e nei quali la stessa liberalizzazione della pornografia veniva definita “liberatoria” contro la repressione dominante. Anche le radio “libere” e in misura solo in parte minore le tv private erano nate sotto questo segno: la loro principale legittimazione, almeno all’inizio, stava nel dire quello che la Rai aveva sempre taciuto, nel dare la parola a chi non l’aveva mai avuta. Nei programmi di TeleMilano, sul finire del decennio cominciato nel ’68, non troviamo niente di tutto questo: il registro che più si fa sentire è blando, se non decisamente in-espressivo. Compito di Lippi e degli altri conduttori è riportare tutto a un tono medio e garbato, usando semmai una lieve ironia se qualcuno esagera; Cecchetto riusciva a rendere inespressivo del resto anche il rock.

Forse era l’intuizione di un vento che stava cambiando, di una stanchezza verso una fase gridata e per alcuni aspetti (ma solo alcuni, lo stiamo capendo ora) inconcludente. Forse era la ricerca di una parte di pubblico che non aveva voce per definizione, ma che era assai più grande di quanto potesse apparire: quella che dava ormai per scontata la fine dei monopòli e poteva apprezzare un po’ di disordine in più, ma di esprimersi non aveva particolare desiderio, come neppure di sentire le grida o i lamenti degli altri. Che voleva vedere il mondo in un rosa moderato, sconfinante nel grigio.


Peppino Ortoleva

Professore ordinario di Storia e teoria dei media all'Università di Torino, è direttore scientifico del Master in Giornalismo. Tra i suoi libri, Il secolo dei media (Il Saggiatore, 2009) e Dal sesso al gioco (Express, 2012). È inoltre curatore di musei e mostre.

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