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Nuovo cinema brutto

Podcast, video, blog, persino programmi tv, tutto: dove c’è un mezzo di comunicazione, qualcuno lo userà per commentare i brutti film – e ridere insieme.

Durante un episodio del podcast How Did This Get Made?, uno tra i molti registrati davanti a un pubblico in carne e ossa, il comico Jason Mantzoukas si accorge che due spettatori hanno portato con sé il figlio di pochi mesi. Quello è il punto in cui l’episodio cambia tono di colpo. Era una discussione sul film per spacconi maggiorenni Il duro del Road House, si trasforma in un monologo con Jason protagonista assoluto: “State forse dicendo che io sono stato qui per tutto questo tempo a parlare di perdite vaginali di fronte a un bambino? Portatemi subito il bambino! Le mie battute farebbero molto più ridere se tenessi in braccio un bambino!”. Il pubblico esulta, perché sta ottenendo ciò che desiderava: una chiacchierata sui vizi e sulle virtù di un film tradizionalmente considerato brutto, e un elemento imprevisto che irrompe dirottando la conversazione in un territorio bizzarro e intimo allo stesso tempo.

L’inevitabile attrazione per il brutto film

Là dove esiste uno strumento per comunicare online, entro pochi mesi verrà utilizzato per prendere in giro i brutti film. È capitato con i message board, con l’improvvisa disponibilità di domini personali a basso costo, con i podcast realizzabili in economia e con le piattaforme video. La prima cosa che viene in mente a uno youtuber è aprire un canale sul cinema spazzatura, come la prima cosa che poteva venire in mente a un blogger era scrivere un post chilometrico sullo stesso argomento, e la prima idea di molti connoisseur o semplici curiosi dei tardi anni Novanta è stata inaugurare un sito dedicato a raccogliere e catalogare il peggio del peggio (Bad Movie Night e Jabootu esistono dal 1997, Badmovies.org dal 1998). Nessuno sa dire di preciso perché succede, e perché riunirsi intorno al cinema brutto sia la risposta istintiva alla domanda “cosa vogliamo fare con lo spazio che ci viene offerto?”. È vero che in altri media esistevano già modelli di successo, facilmente emulabili: le raccolte di recensioni dei fratelli Medved, le critiche di Joe Bob Briggs, che per metà della pagina fingeva di raccontare i fatti suoi e poi passava al film quasi come un secondo pensiero, ma soprattutto il programma televisivo Mystery Science Theater 3000, dove a partire dal 1988 era mandata in onda una pellicola di serie C sovrapponendo allo schermo le sagome di tre personaggi che sparavano battute a raffica durante la visione. Ed è vero che il cinema brutto sembra una risorsa abbondante, destinata a non finire mai, tra il recupero compulsivo del passato, la diversa gradazione data all’aggettivo “brutto” (chi ne ha parlato male, la critica paludata o gli ammiratori del regista?), l’aumento dei figli di nessuno reso possibile dall’autofinanziamento, dalla micro-distribuzione e dal narcisismo di autori come Neil Breen, e il nuovo boom della monnezza dichiaratamente tale alla Sharknado. E poi, questo lo sa bene chi prova piacere o conforto in un film considerato brutto, la comunanza della stessa visione può generare uno spirito di corpo: l’intimità particolare che si prova nel trovarsi davanti a un ostacolo molto modesto, la fratellanza che nasce quando lo si è superato insieme, sani e salvi.

Nessuno sa dire di preciso perché succede, e perché riunirsi intorno al cinema brutto sia la risposta istintiva alla domanda “cosa vogliamo fare con lo spazio che ci viene offerto?”.

L’intimità è una chiave preziosa per capire la commedia del brutto. I prodotti che dimostrano maggiore longevità puntano sul coltivare un clima da serata tra amici, insieme a una fan base devota, e si formano a partire da piccoli gruppi di persone che si conoscono già bene. In teoria, noi che guardiamo e ascoltiamo dovremmo sentirci a casa: in pratica, se il progetto è solido, stiamo davanti a un intrattenimento pensato da persone molto più intelligenti e spiritose di noi. Il podcast The Flop House al momento è condotto da tre amici, due dei quali lavoravano come autori per il Daily Show (uno sta guidando la squadra di scrittori chiamata a ridare vita a Mystery Science Theater 3000, in una nuova versione che sarà trasmessa da Netflix); How Did This Get Made? nasce dall’iniziativa di tre attori comici ferratissimi in materia di improvvisazione. Che siano stati questi due podcast a spiccare dal mucchio non è una sorpresa: i conduttori e i loro ospiti chiacchierano liberamente, ma intanto ognuno si cuce addosso un ruolo abbastanza preciso. C’è sempre la persona più preparata delle altre, quella che parla poco e sta lì per un fatto di carisma, quella che dimostra di possedere una competenza mostruosa su argomenti che non hanno nulla a che spartire con il cinema, quella che si prende la responsabilità di moderare il dibattito, come un maestro di scuola, e finisce per essere lo straight man della situazione. Un gruppo di facce e voci nuove finisce per interpretare un numero limitato di parti. (Questo non è un difetto: se domani partissi con un progetto simile, vorrei anch’io nel cast un laconico, un iracondo e uno bravo a raccontare le trame). L’improvvisazione, però, è cruciale.

A partire dallo stesso spunto, saranno le brillanti digressioni ad attirarci, più della capacità critica di chi parla. Allora la discussione deve fermarsi e ripartire, deve andare in direzioni non previste per creare un momento memorabile. Se uno dei partecipanti bestemmia il proprio destino di spettatore compulsivo di film brutti, chi ascolta si identifica. Anch’io sono così! È un dono e una maledizione! Se uno dei partecipanti prende e parte per la tangente – racconta un aneddoto imbarazzante, tira in ballo le proprie fobie, o, come Mantzoukas, prende spunto dal pubblico per fingere di perdere il controllo – chi ascolta si sente messo a parte di un momento eccitante. Una trasgressione vera nella cornice di una trasgressione concordata. E questi strappi possono essere costruiti ad arte. Tra i contenuti prodotti dal sito Red Letter Media c’è un appuntamento ricorrente – Best of the Worst – in cui si pescano tre o più fondi di magazzino e quello giudicato “il peggiore dei peggiori” è distrutto in maniere fantasiose al termine dell’episodio, dopo una lunga, lunga conversazione. (Le puntate di frequente sfiorano i 60’). Le personalità in campo sono abbastanza scafate da reggere il gioco, ma il montaggio indugia sui loro lapsus, sui passi falsi, sulle gag che non vanno a segno. Diventano momenti memorabili proprio quelli.

La discussione deve fermarsi e ripartire, deve andare in direzioni non previste per creare un momento memorabile. Se uno dei partecipanti bestemmia il proprio destino di spettatore compulsivo di film brutti, chi ascolta si identifica. Anch’io sono così! È un dono e una maledizione!

Scivolare nella follia

Certo, poi esistono i casi estremi come The Worst Idea of All Time, podcast dove due amici neozelandesi guardano lo stesso film una volta alla settimana per un anno consecutivo e documentano con abilità il proprio falso scivolamento nella follia (il primo giro è toccato a Un weekend da bamboccioni 2: l’ultima puntata è stata costruita attorno a una proiezione collettiva a Los Angeles, organizzata grazie al seguito, enorme, che il podcast stava avendo dall’altra parte del mondo). In quel caso il momento memorabile è il format in sé. Il delirio nichilista di chi si chiede, chissà che effetto fa, questa cosa che sembra punitiva e avvilente, ed è abbastanza determinato da tenere duro per un anno. Per forza gli andrà dietro qualcuno.

Un dato di fatto: chi si specializza in cinema brutto e poi prova ad allargare la discussione al cinema bello, o anche solo a quello ordinario, raggiunge un pubblico molto minore. Tra i diversi video ospitati sul sito The Cinema Snob, a quasi parità di data del caricamento, una breve opinione positiva su un film appena uscito nelle sale americane (il candidato all’Oscar Barriere) ha totalizzato 11.000 visualizzazioni: sette volte meno di una recensione comica dedicata a Reefer Madness, un classico del filone exploitation, già sviscerato da infiniti colleghi dell’autore. Il pubblico della commedia del brutto, da questo punto di vista, è generoso ma sorprendentemente conservatore: un’opinione diversa può essere tollerata – come quando si spara sulla Croce Rossa di turno per un’ora, chiudendo con “beh, pensavo peggio, mi sono divertito” – però i film devono restare sempre quelli più familiari. Un parere può essere ribaltato, non creato: la gioia di una rivisitazione è molto maggiore di quella della scoperta. (Salvo i casi in cui all’orizzonte si profila un potenziale scult come Jupiter. Il destino dell’universo, allora lo stesso pubblico pretende subito di sentire e vedere come lo faranno a pezzi i suoi beniamini). Se in un primo periodo, come scriveva Linda Ruth Williams nel 2005, i collaboratori ai siti di cinema brutto “hanno un certo orgoglio da storici del cinema nel portare alla luce tesori sepolti… la percezione del possedere una conoscenza privilegiata e specializzata”, in quest’ultima fase siamo arrivati a una sensazione di eterno ritorno, un Hotel California del cinema brutto, per cui, per esempio, un flop degli anni Novanta è destinato a essere riesumato a intervalli regolari. Ospite fisso dei primi siti riservati al tema, Simply Irresistible (Sarah Michelle Gellar e un granchio parlante) è stato oggetto di una puntata di How Did This Get Made? nel 2016. E l’incredulità esibita dai conduttori nel trovarsi davanti a un film scadente ma troppo ambizioso sembrava essere del tutto nuova. Esiste veramente? Lo stiamo vedendo davvero? Chi ha pensato che fosse uno spunto promettente? Perché lei è vestita e pettinata così?

Se somiglia a qualcosa di riconoscibile al di fuori del contesto specifico, la commedia del cinema brutto è come una grande gara di cover. Ci si sfida a chi riesce a tirar fuori qualcosa di nuovo da un brano magari abusato. Si corre non per arrivare primi, ma per arrivarci meglio, nella speranza di metterci una firma autonoma senza essere accusati di lesa maestà da una platea di affezionati. Si sa che, nel peggiore dei casi, qualcuno applaudirà comunque. E in sottofondo si sente lo stesso lieve messaggio: amiamo il cinema, amiamo sghignazzare, amiamo la combinazione tra i due: restate con noi, non lasciateci soli. Per piacere.


Violetta Bellocchio

Autrice di Il corpo non dimentica (2014), ha fatto parte di L’età della febbre (2015), Ma il mondo, non era di tutti? (2016), ha curato l'antologia Quello che hai amato (2015) e la traduzione italiana di The Art of Rivalry (2016). Ha collaborato a Rolling Stone, Vanity Fair, IL, Rivista Studio.

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