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Televisione da antologia

In tempi di binge-watching sfrenato, le serie antologiche ci obbligano a riscoprire il piacere della visione un episodio alla volta. Da Room 104 a Black Mirror, a volte ritornano.

Chi di mestiere affitta stanze nel mondo contemporaneo si adopera per venderci un soggiorno casuale come “un’esperienza”. Ma una camera d’albergo rimane un luogo intimo e anonimo per definizione. Intimo, perché in albergo si sta da soli, spesso, e si è, in buona sostanza, soli anche quando si è in compagnia. Anonimo, perché la camera è un luogo di passaggio che offre a chi ci capita l’illusione di poter essere una persona completamente diversa, grazie a muri e arredi che risulteranno nuovi rispetto a quelli dell’abitazione o del luogo di lavoro. In teoria, toccherebbe a noi stabilire fino a che punto siamo pronti a lasciarci il passato alle spalle. Non si è mai tanto isolati come quando si cerca o si crede di ripartire da zero, una pagina bianca.

La serie antologica Room 104 ambienta l’azione in una stanza di motel, sempre la stessa. A cambiare sono le epoche e i personaggi. Lo scorrere del tempo tra un episodio e l’altro è segnato dalle variazioni nel décor della camera, più che da una maggiore o minore facilità dei rapporti umani. Per il resto si succedono vicende blandamente paranormali, in una chiave che deve la propria essenza, se non l’estetica, alle radici mumblecore dei creatori Jay e Mark Duplass. Tra le pareti della stanza 104 accadono cose fuori dall’ordinario, ma altrettanto spesso non succede nulla di inspiegabile. Nell’episodio “Phoenix” una donna scampata a un disastro aereo alla fine degli anni Sessanta pondera la possibilità di farsi passare per morta e ricominciare da capo insieme al suo amante, sennonché riceve la visita di una ragazza misteriosa, che potrebbe essere una giornalista ficcanaso, ma potrebbe essere un angelo, o una messaggera venuta dall’aldilà. E alla fine… chi lo sa. Non era del tutto umana, la ragazza, ma forse era un’allucinazione. Tre puntate prima, “The Internet” metteva in scena una lunga telefonata surreale nel 1997, protagonisti un giovane scrittore e la madre, a casa della quale era stato dimenticato il computer portatile che conteneva l’unica copia di un romanzo d’esordio: compito della madre, che di informatica era digiuna, sarebbe stato quello di seguire le istruzioni che le dava il figlio, e quindi capire, dal nulla, come funzionava un computer, cos’era la posta elettronica, come allegare un file a una mail. Andava tutto storto, ma alla fine, per miracolo, un raggio di speranza arrivava lo stesso. Un nuovo inizio. Di paranormale, qui, non c’erano nemmeno i bicchieri sul tavolo.

Chi viveva prima di noi era abituato a sentirsi raccontare storie autonome. Stiamo solo rispolverando una vecchia abitudine, o riscoprendo un piacere del passato. Le antologie ci danno appuntamento ogni settimana, una volta a settimana. Si lasciano abitare per poco tempo e oppongono resistenza al consumo eccessivo.

Discontinuità, ogni settimana

Allora, cosa c’entrava una storia simile (una delle migliori della serie) con il contenitore che dovrebbe ospitarla? Viene da pensare che i fratelli Duplass e i loro sceneggiatori si siano fatti un garbato invito a spaziare all’interno del genere, e alcuni, tutto considerato, abbiano deciso che “stanza d’albergo” era già abbastanza inquietante come concetto. Quindi, in alcune settimane, ci troviamo davanti a bambini demoniaci, fantasmi giuggioloni e preti girovaghi che promettono di trasportare i fedeli a un elevatissimo piano spirituale, in altre, invece, assistiamo alle conversazioni tra un tennista croato sul viale del tramonto e una donna delle pulizie messicana. La dimensione resta quella del racconto breve o dell’atto unico per il teatro, in piena contro-tendenza rispetto al taglio monstre di Black Mirror (a tra poco), che a volte può sembrare un film lungo 50 minuti, a volte un romanzo condensato in immagini.

La cosa più strana delle serie antologiche, come Room 104 e il suo ovvio antecedente britannico Inside No. 9, è l’affetto che si può provare nei loro confronti, e che, a ben vedere, viene da lontano. La storia della televisione è stata scritta dai loro diretti antenati. Negli anni Cinquanta le grandi aziende sponsorizzavano hours, “ore”, o theaters, “teatri”, in cui sul piccolo schermo arrivava una vicenda auto-conclusiva, legata alle altre soltanto dalla collocazione e da una certa garanzia di esecuzione formale. Un passo in avanti dei racconti per la tv erano poi state due antologie destinate a durare nel tempo – e a essere resuscitate, con discutibile fortuna, trent’anni più tardi – come Alfred Hitchcock presenta e Ai confini della realtà. Anche lì, ogni puntata bastava a se stessa. Hitchcock introduceva storie macabre, ma a volte anche commedie nere: il suo nome offriva un sigillo di qualità, rafforzato dalla sua presenza sullo schermo nei segmenti di apertura e chiusura (che in più gli davano la chance di trollare lo spettatore, o di prendere in giro gli inserzionisti pubblicitari); Rod Serling proponeva di lanciare uno sguardo a un mondo nuovo, ricalcato sulle paure e sugli scenari politici del suo tempo presente, usando la fantascienza come espediente per aggirare la censura. Intanto al cinema esistevano i film omnibus, quelli che contenevano episodi differenti, affidati a vari realizzatori, e spesso legati l’uno all’altro dal più tenue dei fili: l’appartenenza allo stesso genere (l’orrore), la presenza di una parola chiave (l’amore, le città).

Chi viveva prima di noi era abituato a sentirsi raccontare storie autonome. Stiamo solo rispolverando una vecchia abitudine, o riscoprendo un piacere del passato. Le antologie ci danno appuntamento ogni settimana, una volta a settimana. Si lasciano abitare per poco tempo e oppongono resistenza al consumo eccessivo. Provateci, a fare una vera maratona di Alfred Hitchcock presenta: dopo due o tre episodi sarete voi a chiedere se per piacere si può smettere (al limite, aprirete un Tumblr dedicato a raccogliere i fermo-immagine del regista che tiene in mano oggetti buffi). Allo stesso modo, tentare di guardarsi in streaming compulsivo Room 104 è un’impresa che oscilla tra l’inutile e il frustrante. Non è un caso che vada in onda su Hbo, la rete che ha detto “no” al binge-watching, stabilendo che le sue serie vanno trasmesse come si usava in passato, e come si è sempre usato, fino a pochissimo tempo fa.

Non era tutta di seguito che la si doveva guardare. Black Mirror era stato concepito per andare piano, pochi episodi all’anno, ciascuno dotato di abbastanza spazio per respirare.

Altre stanze

Questo è il momento in cui chiudiamo una porta per aprirne un’altra. La cosa migliore che abbiamo visto in televisione negli ultimi anni – almeno, la cosa su cui tendiamo a trovare un accordo, quando paragoniamo i nostri consumi solitari a quelli delle persone che conosciamo – è stata Black Mirror. Che è diventato un oggetto da divorare solo con il suo arrivo su Netflix nella terza stagione, giudicata “deludente” da alcuni per forza di cose. Non era tutta di seguito che la si doveva guardare. Black Mirror era stato concepito per andare piano, pochi episodi all’anno, ciascuno dotato di abbastanza spazio per respirare. E anche qui, il trait d’union è sottilissimo: osserviamo un mondo possibile, cinque minuti nel futuro, dove tipicamente sta andando tutto storto e un’innovazione tecnologica rende l’umanità orribile. Ma ogni puntata fa storia a sé, e la distanza non può essere eliminata passando le dita sullo schermo.

Anche gli episodi di Black Mirror sono camere d’albergo. A tema, magari. Abbiamo avuto quelle che anticipano ogni singola possibile deriva dei social media (“The Entire History of You”, “Nosedive”, “Hated in the Nation”: possiamo cavarcela con “argomento caldo”, o c’è bisogno di esplicitare?), abbiamo avuto quelle il cui unico scopo apparente è mostrare come tutto sia destinato a finire (“Be Right Back” e la sua controparte falsamente ottimista, “San Junipero”), e abbiamo avuto quelle che vogliono illustrare i pericoli e le seduzioni della vendetta sommaria (“White Bear”, “Shut Up and Dance”). Il nostro compito è stare seduti e guardare, senza cercare rimandi ossessivi da una puntata all’altra – che esistono, ma restano strizzate d’occhio, dettagli minuscoli nascosti per compiacere pochissimi. Anche se Charlie Brooker pare aver cambiato idea in proposito, non è importante, né necessario, capire che tutti i Black Mirror sono ambientati nello stesso universo.

Possiamo partecipare sul piano emotivo, ma non lo facciamo in nome di un disegno complesso, né, purtroppo, per sentirci collegati agli altri che stanno guardando: lo facciamo perché stiamo visitando una stanza. Cerchiamo di verificare se l’identità a cui ci viene permesso di dare una sbirciatina è qualcosa che farebbe al caso nostro, sperimentiamo, magari, in tempo reale la vertigine offerta da una nuova possibilità – la tecnologia che simula un ritorno in vita dei defunti, per esempio – e poi crolliamo quando emergono vecchie crepe, dubbi messi a tacere per troppo poco tempo. Là dove il senso ultimo di Ai confini della realtà stava nell’eseguire minime variazioni sul presente, il riassunto fazioso di un episodio-tipo di Black Mirror, come ha notato la scrittrice Mallory Ortberg, flirta un po’ sempre con la frase “what if phones, but too much” (“cosa succederebbe se i telefoni, ma troppo”): la tecnologia diventa una specie di patto con il diavolo, una formula carica di effetti collaterali. Però il futuro che ci viene mostrato è già un futuro vecchio, salvo rare eccezioni (“Playtest” è forse l’unica puntata ad avere al centro una novità eccitante da testare tramite l’impiego di cavie umane). Per noi che stiamo a guardare si tratta di cambiamenti assoluti, chi si muove dentro lo schermo, invece, ci ha quasi fatto l’abitudine.

Proprio come il paranormale in Room 104 sembra assumere quasi di proposito una forma a basso profilo, già vecchia, in una certa misura, quanto già vecchi sono gli arredi di scena, perché già abitati, già vissuti da qualcun altro. Nell’episodio “The Knockadoo”, un guru ammaestra i suoi seguaci attraverso una collana di dvd dai production values tragicomici, e la grande liberazione promessa a una nuova adepta si manifesta in un tourbillon di immagini sconce, provocate dall’inserimento di uno strumento metallico nella narice della donna. Il fantasma di “I Thought You Were Dead” non sa offrire risposte spirituali a chi lo invoca, e cambia volto fuori campo soltanto per mostrare a un amico come sarebbe stato, lui, se avesse potuto diventare anziano invece che morire annegato a poco più di vent’anni. Gli oggetti possono mutare forma con il tempo. Le persone restano persone, fragili, precarie, destinate a essere smontate nelle loro poche certezze. L’anti-eroina di quello che resta il miglior Black Mirror, “Be Right Back”, si illude che le possa bastare un simulacro dell’amante scomparso, per poi scoprire che è molto semplice trasformarsi in una brutta persona quando si può esercitare potere di vita e di morte su qualcun altro. Cambiando stanza, non solo il protagonista di “The Internet” non riuscirà a tornare in possesso del suo manoscritto, ma si vedrà togliere un enorme tappeto da sotto i piedi, scoprendo un segreto che rimette totalmente in discussione il senso che poteva aver maturato di se stesso.

Con il termine bottle episode intendiamo le puntate di serie tv ambientate in una sola location, che usano il minor numero di attori possibile e limitano l’azione in modo da tenere bassi i costi. Ogni camera d’albergo, reale o immaginaria, si presta a essere un bottle episode. E può diventarlo ogni ora che passiamo davanti a uno schermo, a meno che noi chiediamo alla storia di trasportarci da un’altra parte; farci uomini e donne nuovi.


Violetta Bellocchio

Autrice di Il corpo non dimentica (Mondadori, 2014), ha fatto parte di L’età della febbre (minimum fax, 2015), Ma il mondo, non era di tutti? (marcos y marcos, 2016), ha curato l'antologia Quello che hai amato (Utet, 2015) e la traduzione italiana di The Art of Rivalry (Utet, 2016). Ha collaborato a Rolling Stone, Vanity Fair, IL, Rivista Studio.

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