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Immaginari

Non capire le serie tv giapponesi

Se la cultura del Giappone è arrivata in Italia attraverso manga e anime, lo stesso successo non ha riguardato anche le serie tv locali, i dorama. Una piccola storia della loro evoluzione, per capire perché.

“Per noi europei il Giappone è il paese più straniero che ci sia” 

Edoardo Lombardi Vallauri, Non capire il Giappone

A gennaio 2023 è uscita su Netflix Makanai (Maiko-sanchi no Makanai-san, “La cuoca della casa di maiko”), miniserie tv firmata da Hirokazu Kore’eda, tratta dall’omonimo manga di Aiko Koyama. Il regista, già Palma d’Oro a Cannes con Un affare di famiglia, dopo un film francese e uno coreano, è tornato a lavorare in patria per la televisione con un prodotto che strizza l’occhio ai dorama (serie tv) tradizionali giapponesi. Per Kore’eda si tratta di un ritorno alle origini: “Sono cresciuto in tutto e per tutto insieme alla televisione – scrive in Pensieri dal set, la sua autobiografia professionale edita da Cue Press – da bambino sono stato allevato sia con i telefilm storici in senso stretto (i cosiddetti jidaigeki, tra cui Mito Kōmon, Zenigata Heiji, Tōyama no Kin-san), ma anche guardando le famose serie di telefilm gialli Hissatsu. Cominciai a interessarmi attivamente alla televisione grazie alle serie di Ultraman per poi passare ai dorama casalinghi veri e propri”. Anche professionalmente, il regista è arrivato al cinema partendo dalla tv, come autore di documentari: “Per me non esistono differenze sostanziali tra i film e i dorama, perché il lavoro che il regista svolge sul set è praticamente lo stesso. Di base, non adatto mai le riprese a seconda che stia lavorando per la televisione o meno”.

Immaginario Giappone

Oggi sappiamo tutto di anime e manga, narrativa e saggistica giapponese sono reparti ben nutriti nelle librerie, di videogiochi non ne parliamo, il cinema resta un mercato d’essai ma non più di contrabbando o di élite. Cosa conosciamo invece della tv giapponese? Mai dire banzai, stop.

Dal dopoguerra il Giappone inizia un’espansione commerciale che ha cambiato le nostre abitudini e il nostro modo di fruire i prodotti culturali: dal walkman al karaoke, per farla breve. Dopo la tecnologia, la cultura giapponese si è insinuata nella nostra quotidianità non tanto per merito del cinema d’autore (nel 1951 il Leone d’Oro a Rashomon di Akira Kurosawa), ma attraverso la televisione, quando tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta – grazie anche all’apporto capillare delle reti private – gli anime rivoluzionano il nostro immaginario. Negli anni Novanta esplode poi il mercato dei manga, inizialmente portati in Italia dai pionieri di Granata Press e da Star Comics. Sono gli anni della globalizzazione, il Giappone sembra la patria del futuro, nella moda e nella comunicazione c’è un ritorno diffuso al giapponismo: in edicola arrivano manga come Ken il guerriero, I cavalieri dello zodiaco e Ranma ½. A distanza di oltre vent’anni da quel boom l’editoria si accorge che quello dei manga è un mercato che fa concorrenza persino ai “libri veri”. Con l’onda coreana – alimentata dal successo del K-Pop e di Bong Joon-ho – abbiamo assistito al germinare di serie tv coreane, prima sotto forma di remake (The Good Doctor), poi direttamente nel loro formato originale (Squid Game, ovviamente). Al contrario, il successo di anime e manga non è riuscito a fare da cavallo di Troia per quelli giapponesi.

Un passo indietro

1939, la Nhk (Nippon Hōsō Kyōkai, la tv di stato giapponese) inizia le prime sperimentazioni televisive, ma è il dopoguerra che segna la nascita dell’industria televisiva: nel 1953 riprendono le trasmissioni. Inizialmente sono trasmesse serie statunitensi, ma in breve quelle giapponesi diventano molto più popolari. I dorama in quegli anni si concentrano sulla vita quotidiana delle famiglie della classe media; vanno inoltre in onda programmi tratti da opere del teatro Kabuki o da leggende del folklore. Negli anni Sessanta la Nhk inizia a trasmettere gli asadora (contrazione di asa no dorama, ovvero “serie tv del mattino”), fiction a episodi per la programmazione mattutina rivolte al pubblico delle casalinghe con eroine impegnate nella realizzazione dei propri sogni (sempre con molto impegno, contro le avversità, nel carattere non così dissimili dalle protagoniste dei molti manga); la storia è accompagnata da una voce fuori campo che le casalinghe possono seguire continuando le faccende domestiche.

Oggi sappiamo tutto di anime e di manga, narrativa e saggistica giapponese sono reparti ben nutriti nelle librerie, di videogiochi non ne parliamo, il cinema resta un mercato d’essai ma non più di contrabbando o di élite. Cosa conosciamo invece della tv giapponese? Mai dire banzai, stop.

Puntando su storie quotidiane e familiari, i dorama costruiscono così, episodio dopo episodio, una vicinanza tra il pubblico e una forma ideale di realtà percepita e condivisa. Questo genere perde appeal negli anni Settanta, le donne iniziano a lavorare e non hanno più tempo, così negli anni Ottanta si tenta un rilancio con Oshin (1983), la storia di una ragazza che da povera contadina diventa proprietaria di una catena di supermercati: un’operazione che punta su valori tradizionali come perseveranza, tenacia e dedizione. 297 episodi da 15 minuti, dal successo enorme che garantisce al genere ritrovata longevità. All’interno di questo filone ci sono stati autori che hanno provato a rinnovarne le formule, e tra questi Hirokazu Kore’eda ricorda come sua ispirazione Shōichirō Sasaki: “è stato regista nella prima metà degli anni Ottanta per l’emittente Nhk per cui creò le serie Utopiano delle quattro stagioni, L’eco del violino e lo scorrere del fiume: il Po in Italia”, caratterizzate da un contenuto lirico che travalica l’ambito del classico dorama, girate in 16 mm con uno stile rustico e luce naturale. “La protagonista di tutte le storie era una giovane donna che si recava nei paesi che hanno dato vita al pianoforte e al violino, e sia lei sia tutte le persone che incontrava nei suoi viaggi non sono attori professionisti: “il legame tra i personaggi in scena e i luoghi facevano sì che le opere di Sasaki si accostassero di più al documentario, anche se la struttura interna rientrava a pieno nel genere della fiction”. Gli ascolti però non sono soddisfacenti, e il regista torna a girare fiction più tradizionali. Sottolinea Kore’eda: “ai tempi le opere di Sasaki mi sembravano di gran lunga più innovative di altri film giapponesi in circolazione: ti stupivano al punto da farti chiedere come mai in televisione potessero esserci prodotti di così eccelsa qualità!”. 

Sempre a partire dagli anni Sessanta prende avvio la messa in onda di serie storiche, i Taiga dorama (“Serie tv del grande fiume”, dove il “grande fiume” è la storia), la domenica in prima serata; ogni serie dura un anno intero, con un episodio a settimana. Il loro successo è dovuto al fascino dell’epica legata ai miti fondativi (l’idea di tradizione: valori condivisi e senso di appartenenza). Nel 1981 c’è un tentativo di apertura verso l’estero: Tv Asahi trasmette la miniserie Shōgun, diretta da Jerry London e tratta dal bestseller di James Clavell. Ma in quegli anni ai giapponesi il Giappone visto dall’Occidente sembra non piacere, le narrazioni per avere successo devono essere di impronta domestica: Asadora e Taiga riflettono lo stile di vita e la sensibilità dei giapponesi, e diventano parte della loro quotidianità, un elemento pervasivo che racconta e definisce la loro identità.

Mostri e altre storie

Tra i Cinquanta e Sessanta nasce anche un altro genere televisivo fondamentale, quello denominato tokusatsu ovvero serie fatte di effetti speciali, con un filone dedicato ai kaijū (i mostri giganti: Godzilla e Gamera) e uno ai supereroi. Sono fantasmagorie pirotecniche che prendono spunto dalla tradizione teatrale: il primo dorama di supereroi è Moonlight Mask (Gekkō Kamen, 1958), realizzato in bianco e nero e trasmesso su Krtv (ora Tbs) per un totale di 130 episodi: è la risposta giapponese a The Lone Ranger, Batman e Zorro. Fanno seguito film, gadget e molti emuli, ma il vero boom dei tokusatsu avviene negli anni Settanta: tra i più popolari ci sono la serie Ultra, con protagonista Ultraman (da non confondere con Il mio amico Ultraman con Jerry O’Connell), Kamen Rider e Super Sentai; di quest’ultima vengono prodotte più di quaranta stagioni e negli anni Novanta le sequenze di combattimento della sedicesima sono riciclate per un telefilm della Saban destinato al mercato occidentale, i Power Rangers.

I primi vent’anni di serialità televisiva giapponese sono segnati da grande fermento, è tutto nuovo (anche se creato su modelli vecchi), e attingendo all’idea di tradizione si delinea un nuovo immaginario, autoctono e contemporaneo, ideale: “Negli anni Cinquanta – riflette ancora Kore’eda – qualche anno dopo l’inizio delle trasmissioni in Giappone, nessuno si era posto il problema di definire le finalità della televisione, ma giunti negli anni Sessanta si incominciò a riflettere seriamente sul tema della sua identità sociale. La domanda era semplice: che cos’è la tv? Di contro, bisogna ammettere che negli anni Settanta quel desiderio di indagare venne meno […]; man mano che le emittenti si avviarono verso la stabilità economica, quel senso di ricerca radicale venne gradualmente rimosso”. In quest’ottica, uno dei personaggi di spicco che ha cercato strade nuove fu Jūzō Itami (il regista di Tampopo, 1985): nel 1975 insieme a Tsutomu Kon’no dà vita a una fiction documentaristica (genere ibrido) ambientata durante la seconda guerra mondiale. Di volta in volta, Itami fa la sua comparsa in veste di reporter per spiegare ai telespettatori quello che stava accadendo, dando un contesto storico alla narrazione. Una decostruzione ancora più forte viene operata dal regista Teruhiko Kuze che per svecchiare i dorama attinge al mondo del varietà, ingaggiando nei cast personaggi famosi per recitare a braccio e improvvisare: titoli come Mū ichizoku scombinano tutte le regole consolidate in quegli anni.

Manga e anime, forti di elementi escapisti e di astrazioni grafiche, guardano spesso anche a modelli occidentali. I dorama invece si mantengono aderenti a un’idea di identità giapponese senza il potere di proiettarsi altrove. Il fascino del Giappone non sembra riuscire a passare dalla serialità televisiva; e basta un dato: Netflix Italia a catalogo conta cento serie tv coreane, e una quarantina giapponesi.

City pop 

Negli anni Ottanta il Giappone vive una stagione magica, fatta di grattacieli, cocktail esotici, tramonti vaporwave e speculazione edilizia: una bolla di benessere che esplode negli anni Novanta. In quell’atmosfera edonistica su Fuji TV (emittente privata fondata nel 1957) trovano spazio i trendy dorama che mostrano storie d’amore metropolitane e le mode del momento in termini di abiti, quartieri, hobby, simboli dello stile di vita contemporaneo con nuovi valori che soppiantano quelli tradizionali. I dorama si animano di protagonisti affascinanti e glamour: prodotti considerati superficiali, vuoti, in contrasto con i temi familiari e legati ai valori “di una volta” – ma con ottimi ascolti. Dopo il 1990 gli umori cambiano ancora, il sogno della ricchezza eterna è infranto, e con serie come Tokyo Love Story (1991), tratto dal manga di Fumi Saimon, i post-trendy dorama si concentrano più sul lato introspettivo dei personaggi, con amori non corrisposti e travagliati; la narrazione si sviluppa in una decina di puntate da 60 minuti. Il successo della serie è enorme, tra le altre seguono Long Vacation (1996) e Love Generation (1997). Iniziano a essere rappresentate realtà fino ad allora ignorate, come la depressione, la disabilità o la malattia. Grazie al successo di Hitotsu yane no shita (“Sotto un unico tetto”, 1993), con un personaggio in sedia a rotelle, arrivano molti altri serial con tematiche simili. La serialità giapponese si apre a più generi, aumentano i titoli prodotti e si differenziano i target: c’è spazio per il thriller e per l’horror, con ambientazioni più cupe e inquietanti. La società giapponese deve fare i conti con crescenti fenomeni di violenza e terrorismo domestico, in circolazione ci sono killer adolescenti che sconvolgono l’opinione pubblica, e gli animi si fanno inquieti. Anche il cinema commerciale si rinnova e il J-Horror detta moda (Ring), ma il mercato occidentale ha bisogno di remake con volti più riconoscibili (e non orientali): ma nemmeno questo riesce a fare da sensale tra la serialità giapponese e il mondo occidentale.

Giappone immaginario

Nel formato e nei generi, le forme seriali giapponesi dimostrano di mantenere sempre un rapporto stringente con il tessuto storico e sociale della contemporaneità da cui prendono forma. Come ha notato Wilhelmina Penn, autrice di The Couch Potato’s Guide to Japan: Inside the World of Japanese TV: “I dorama forniscono una finestra sulla società giapponese che può essere più rivelatrice di un libro di sociologia”. Gli elementi di novità (a livello grafico e narrativo) che hanno permesso a manga e anime di fare breccia nella cultura occidentale non si riflettono e non si ripetono nei dorama. Manga e anime, forti di elementi escapisti e di astrazioni grafiche, guardano spesso anche a modelli occidentali (Lady Oscar, I Cavalieri dello zodiaco…), le protagoniste hanno capelli biondi, occhi grandi e forme tornite: si tratta di prodotti caratterizzati da un sincretismo che li lancia fuori del Paese. I dorama invece si mantengono aderenti a un’idea di identità giapponese senza il potere di proiettarsi altrove. I drammi televisivi giapponesi hanno un approccio narrativo più riflessivo e introspettivo, legato alla quotidianità e ai rapporti interpersonali, il voice over ha spesso il compito di dare voce alle emozioni dei protagonisti, rappresentate sempre in forma sobria, consentendo al pubblico di riflettere sulle dinamiche emotive tra personaggi. Anche in titoli thriller come Million Yen Woman (100 man en no on’na-tachi, 2017), coprodotto da Netflix e Tv Tokyo, con sviluppi cruenti e violenti, a dettare il ritmo è sempre il passo lento e riflessivo dell’introspezione. Il ritmo è raramente incalzante, mentre le serie tv coreane integrano sequenze più riflessive ad altre più serrate – ne sono esempio Squid Game, il recente Mask Girl o il legal thriller Stranger. Il fascino del Giappone non sembra insomma riuscire a passare dalla serialità televisiva; e basta un dato: Netflix Italia a catalogo conta un centinaio circa di serie tv coreane, meno della metà, una quarantina, sono giapponesi.

Anche in Makanai ritroviamo queste caratteristiche che rendono ostica la fruizione: pur inserendosi in un filone tradizionale come quello dell’asadora, rifugge il formato della lunga serialità (9 episodi da 40 minuti circa) e guarda all’esempio di Sasaki. La storia è quella di due amiche che decidono di trasferirsi a Kyōto per diventare delle maiko (apprendiste geisha). La più goffa delle due però viene bocciata e trova la sua strada come makanai, la cuoca dello yakata (la casa in cui vivono e sono addestrate le giovani maiko). Il ritmo è lento, contemplativo, i toni sono intimi e pacati, con attenzione alla quotidianità dei personaggi e alle loro aspirazioni. “Ancora oggi – spiega il regista – quando qualcuno mi chiede come mai faccio televisione, rispondo che tutto è dipeso dalla fascinazione che ho avvertito guardandola […]. Sono più che sicuro che ognuno di noi serbi il ricordo di qualche programma televisivo in cui si è imbattuto per caso e che ha lasciato in qualche modo il segno nella sua vita. Nel mio caso, si è trattato di Ultraman e delle serie televisive di Shōichirō Sasaki”. E si torna all’inizio di questa storia.


Lorenzo Peroni

Storico dell'arte con una lunga storia d'amore per il cinema e la scrittura, non sempre corrisposto. Scrive per Artslife e Doppiozero.

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