Con tenacia, inventiva e una singolare attitudine al rischio, i coniugi King tessono narrazioni in grado di ridefinire il tessuto della serie tv americana, offrendo al pubblico storie che conquistano per il loro combinato di acume, leggerezza e categorico rifiuto di un approccio didascalico.
New York. La detective più strampalata che c’è è arrivata in città: ha un look eccentrico con giacche e camicie sgargianti, una selezione infinita di shopper, intuizioni inusuali, uno sguardo personalissimo sul mondo che la circonda e, ovviamente, i capelli rossi. Tutti la guardano con sospetto, come la squinternata di turno, ma Elsbeth Tascioni (Carrie Preston, già vista in True Blood e Claws) ha una fede incrollabile nel suo intuito, e sa che essere sottovalutati può essere un grande vantaggio. Una delle comprimarie più amate di The Good Wife prima e di The Good Fight dopo è ora protagonista di una serie tutta sua, sempre firmata dalla premiata coppia di autori Robert e Michelle King. Elsbeth, già rinnovato per una seconda stagione dopo l’esordio su BCS lo scorso febbraio, sposta l’azione del King TV Universe (KTU) da Chicago a New York, dando così un taglio netto con le vicende e i personaggi e i temi che ci eravamo lasciati alle spalle in The Good Fight. Un nuovo inizio, insomma, che trasforma il procedurale legale di satira politica e sociale in un procedurale investigativo leggero e brioso. Ma al contrario. In ogni episodio, con l’antefatto scopriamo subito l’assassino, nello svolgimento della puntata vediamo invece come Elsbeth riesce a incastrare il colpevole, che capisce immediatamente chi è. Non il classico whodunit ma piuttosto il suo opposto: howcatchem. Potrebbe sembrare una scelta strana a chi non è avvezzo al modus operandi dei coniugi King, ma nel loro mondo tutto va al contrario, e alla fine si ritorna al principio.
I re della serialità
Quando si parla di serialità televisiva americana possiamo individuare diversi tipi di autori, dai mestieranti alle firme di spicco, normalmente quelli che si sono ritagliati una notorietà anche al di fuori del giro, sono quelli più istrionici. I nomi che hanno caratterizzato i palinsesti tv degli ultimi 20 anni sembrano però in grande fuga o in affanno. JJ Abrams dopo Fringe si è buttato sul cinema dove fattura benissimo. Aaron Sorkin idem. Kevin Williamson si muove senza brillare, un po’ di qua e un po’ di là, prendendo ossigeno grazie al rinnovato successo di Scream. David E. Kelley continua a essere molto prolifico con risultati altalenanti, senza esclusive, tra tv via cavo, broadcast e streaming. Shonda Rhimes e Ryan Murphy invece sono passati al lato oscuro dello streaming, coperti d’oro da Netflix, dove cade l’idea di una serialità che si sviluppa con il tempo, nel corso della stagione televisiva, in favore di miniserie preconfezionate già cotte e mangiate. I King sono quelli che hanno resistito più a lungo. Ora il sistema dell’industria televisiva sta portando anche loro verso stagioni più brevi, ma senza abbandonare l’idea di storie in grado di evolvere in maniera complessa e coerente.
La serializzazione canonica permette ai due autori di intercettare gli umori del pubblico, di far crescere i personaggi, di imbastire storie, di prendersi il tempo necessario per modellare intrecci, per disseminare esche. Quelle dei King sono ricette che richiedono una cottura lenta e delicata.
1983. Robert King, italo-irlandese allora 24enne, arriva a Los Angeles e vuole diventare un drammaturgo. Per sbarcare il lunario lavora in un negozio di scarpe, lì conosce Michelle Stern, che sta per iniziare il suo ultimo anno all’UCLA. Lui è cattolico conservatore, lei ebrea liberale: ancora non possono saperlo, ma questo dualismo caratterizzerà personaggi, trame e temi delle loro serie tv più amate. Nel 1987 si sposano, hanno una figlia e ognuno il suo lavoro. Robert inizia a scrivere per il cinema. Ne escono perlopiù brutti film di serie Z – come The Nest (1988) prodotto da Julie Corman, moglie di Roger. A metà anni ‘90 le cose sembrano mettersi meglio, arriva un film con Michael Keaton e Geena Davis diretto da Ron Underwood (Tremors, Scappo dalla città), ma Ciao Julia, sono Kevin si rivela un flop. Nel ‘97 con L’angolo rosso Robert King esce dal cono d’ombra della serie B, ma il film, una critica al sistema giudiziario cinese, viene censurato in Cina e nonostante Richard Gere gli incassi non brillano. Il film si guadagna un meritatissimo posto nel cestone dell’autogrill da 3 euro di legal thriller anni ‘90, e rivisto oggi prefigura alcune tematiche tornate poi anche in The Good Wife e The Good Fight (la censura, il regime, il controllo dei media). Con lo scoccare del nuovo secolo i due coniugi, chiamati da Ron Underwood, uniscono le forze e zompano dal cinema alla tv. Il pilot della loro prima serie, The Line, non passa, ma è un banco di prova per il loro lavoro di coppia. Nel 2001, la ABC li ingaggia per dei nuovi progetti, altri tre pilot vengono cassati, fino a quando nel 2006, per In Justice con Kyle MacLachlan, scatta l’ok. Mandata in onda come “midseason replacement”, la serie non viene rinnovata.
La corruzione del sistema
I King passano quindi a CBS dove Les Moonves è in cerca di qualcosa di nuovo “tipo The Closer” – il procedurale investigativo al femminile con Kyra Sedgwick – e che possa inserirsi nel portfolio di proposte del network, come NCIS. Nasce così l’idea per The Good Wife, che sovrappone la struttura del procedurale (in ogni episodio un caso legale) a una figura femminile forte e credibile. Per la loro protagonista, Alicia Florrick, i King prendono spunto da Silda Wall Spitzer, moglie (ormai ex) del governatore (ormai ex) di New York, Eliot Spitzer. Lui la tradisce con un escort di lusso, viene scoperto e quando tiene una conferenza per scusarsi pubblicamente lei resta al suo fianco, un passo indietro. Seguono sette stagioni che traghettano la serie verso approdi inaspettati, ma sempre con coerenza. La serializzazione canonica permette ai due autori di intercettare gli umori del pubblico, di far crescere i propri personaggi, di imbastire storie, di tendere trappole, di prendersi il tempo necessario per modellare intrecci, per disseminare esche. Quelle dei King sono ricette che richiedono una cottura lenta e delicata. Quando Alicia Florrick fa il suo esordio su CBS (correva l’anno 2009), The Good Wife viene accolto semplicemente come un buon legal drama per signore, elegante, una sorta di JAG avvocati in divisa, ma senza divisa. È con il trascorrere delle stagioni che i King riescono ad assemblare un puzzle pazientino che fa emergere la complessità di una protagonista che da eroina (“Santa Alicia”) si rivela antieroina, mostrando uno sguardo vigile sulla contemporaneità, più acuto e meno didascalico di qualsiasi altra serie tv contemporanea.
Nell’arco narrativo di The Good Wife i due showrunner si sganciano dalla deriva soap stroncando lo schema narrativo del triangolo amoroso: fanno fuori Will Gardner, il grande amore romantico di Alicia al di fuori del matrimonio, e non lo rimpiazzano. La serie si smarca così del pericolosissimo “baratro Grey’s anatomy”. Will Gardner viene ucciso nell’episodio 15 della quinta stagione da un suo cliente, un personaggio introdotto fin dai primi episodi della stagione, i King costruiscono un percorso che porta a questa drammatica uscita di scena in modo da rendere organico lo sviluppo della trama, evitando l’effetto artificioso di un trucco da exploitation (dinamica cara a certuni autori). E, al contrario di altre serie tv, The Good Wife prima di archiviare definitivamente uno dei suoi protagonisti si è concessa il resto della stagione per l’elaborazione del lutto, per far affrontare ad Alicia il dolore, lo shock, aggiungendo nuove profondità al personaggio. Questo punto di svolta dà alla serie nuova linfa vitale, Julianna Margulies vince un Emmy e la sesta stagione debutta con ascolti più alti, vengono introdotti nuovi personaggi, nuove sottotrame, la narrazione diventa più libera, senza la zavorra del sogno d’amore romantico ostacolato da un matrimonio infelice. In anticipo sui tempi i King imbottiscono le trame verticali con argomenti eticamente spinosi legati alla tecnologia e alla politica, alla bioetica e alle criptovalute, alla privacy e alle fabbriche di troll, con riferimenti tempestivi a personaggi discussi come Epstein (la quarta stagione di The Good Fight si chiude con un’incursione nei meandri della sua magione sull’isola…), Ryan Murphy (un episodio legato al diritto d’autore a seguito di alcune polemiche su Glee), Aaron Sorkin e lo stesso Les Moonves (al centro di scandali sessuali sul luogo di lavoro).
La costruzione del King Tv Universe è disseminata da segnalibri, le storie scorrono come un fiume carsico sotto la superficie dei singoli episodi, creando un complesso intreccio di ganci e rimandi.
Nel 2011, va in onda l’episodio intitolato The Great Firewall: un dissidente cinese viene torturato dopo che ChumHum, società immaginaria di motori di ricerca (Google?) cliente dello studio legale dei protagonisti, consegna il suo indirizzo I.P. al regime comunista. La Cina bandisce dalle proprie trasmissioni The Good Wife, come già aveva fatto per L’angolo Rosso. Nel 2019, i King tornano sull’argomento anche nello spin-off della serie, The Good Fight. Dalla seconda stagione ogni episodio ha un inserto animato di carattere satirico con canzoni di Jonathan Coulton, quello previsto per l’episodio in questione racconta come The Good Wife, anni prima, è stato censurato in Cina. La CBS però non dà il permesso per la messa in onda. Al posto del segmento animato i King decidono quindi di mostrare un cartello per comunicare al pubblico che il segmento è stato censurato, spingendo a un nuovo livello il carattere metatestuale della serie. La costruzione del KTU è disseminata da segnalibri, le storie scorrono come un fiume carsico sotto la superficie dei singoli episodi, creando un complesso intreccio di ganci e rimandi. Un’operazione di scrittura possibile solo nel solco della programmazione tradizionale della tv lineare, in grado di evolversi – in maniera reattiva – nel corso della stagione televisiva. La storia di The Good Wife inizia in un corridoio, con uno schiaffo.
La corruzione dello spirito
Quello dei King è un senso dell’umorismo contorto, a volte sottilissimo altre quasi grottesco e sfacciato e in The Good Fight, con l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, mollato il freno, da un procedurale compassato ci troviamo in un universo sempre sull’orlo del surreale, dove a farla da padroni sono la paranoia e il complotto. Il mondo di The Good Fight è quello dei democratici liberali (Diane Locker, sposata con un repubblicano) che, dopo la vittoria di Donald Trump (ovvero la sconfitta di Hillary Clinton) si ritrovano catapultati in una dimensione senza più punti di riferimento. L’umorismo si fa cupo e tagliente, più che satira sembra un monito. La serie si conclude con Trump, dopo aver perso la corsa alla rielezione, che annuncia il suo ritorno in pista. Robert in un’intervista a Variety del 2022 ha dichiarato: «Oggi molte serie streaming sono come film di otto ore […]. Raccontano una sola storia. Ma poiché [The Good Fight] racconta molte piccole storie collegate tra loro come le perle di una collana, e ognuna di loro aggiunge qualcosa all’insieme, servono dei “fermalibri” in grado di restituire la sensazione del senso d’insieme. La storia è iniziata in un posto e si spera che in quel posto si chiuderà il cerchio».
Con Evil (2019), dopo la breve e fallimentare esperienza di Brain Dead (folle serie tv satirico fantascientica), i King si buttano sul paranormale religioso con un procedurale horror sopra le righe che richiama X-Files e Fringe. Qui a scontrarsi sono ragione e fede, con un ritratto del sentimento religioso che visto dell’Europa può sembrare quantomeno bislacco, sempre dentro e fuori l’eresia, ma che conferma nuovamente la lucidità sul contemporaneo dei suoi autori, in grado di porre domande spinose, inquietanti e dai risvolti etici e filosofici complessi. Dalla seconda stagione va in onda su Paramount Plus – con The Good Fight –, strategia che determina un’audience più ristretta, ma maggiore libertà creativa. A maggio 2024 ha debuttato la quarta stagione, annunciata come l’ultima, che porterà a conclusione l’assurda storia della psicologa atea e del prete bonazzone in crisi mistica contro le forze del male che agiscono tramite rituali esoterici, troll informatici, influencer, videogiochi e strategie d’impresa. «Quando vuoi insegnare qualcosa al pubblico… Stai facendo un pessimo film», diceva Douglas Sirk, questo vale anche per le serie tv e i King sembrano seguire esattamente questa filosofia: fanno molte domande, forniscono poche risposte, spesso per nulla consolatorie, sono affascinati dalla natura delle controversie, le osservano e le studiano, intercettando le più svariate in tempi rapidissimi. Con The Good Fight, Evil e ora Elsbeth, i King sono passati a stagioni più brevi (13 episodi circa) in forza della strategia CBS verso una distribuzione streaming (Paramount+ nasce in origine come servizio streaming CBS All Access), ma continuano a progettare storie stratificate, in grado di evolvere tramite traiettorie coerenti, eludendo con fermezza il pericolo di un approccio didascalico.
Lorenzo Peroni
Storico dell'arte con una lunga storia d'amore per il cinema e la scrittura, non sempre corrisposto. Scrive per Artslife e Doppiozero.
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